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L'IMPEGNO DELL'ASSOCIAZIONE
PAPA GIOVANNI XXIII A DIFESA DEI MINORI PRIVI DI UNA VALIDA FAMIGLIA
L'Assemblea nazionale delle famiglie affidatarie,
adottive e case famiglia, organizzata annualmente dalla Associazione Papa
Giovanni XXIII di Rimini, nella sua edizione del 1988 (9-10-11 settembre) ha
suscitato nei mass-media un interesse superiore di quanto sia avvenuto per le
edizioni precedenti o per iniziative analoghe. Un interesse giustificato anche
per la qualificazione ed il prestigio delle persone chiamate a dare il loro contributo
nel corso dei lavori.
Non è escluso, però, che l'interesse dipenda da una
maggiore attenzione di tutta l'opinione pubblica verso i minori maltrattati,
abbandonati e comunque senza un'adeguata assistenza familiare. Attenzione
comunque ancora scarsa, stando al dibattito in assemblea, sul problema
dell'emarginazione in generale e dei minori in particolare.
L'Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini denuncia
infatti da tempo l'inadeguatezza e l'ingiustizia sostanziale delle normative e
delle prassi pubbliche quando di mezzo ci sono i soggetti deboli di questa
società anziché potenti corporazioni professionali o lobbies economiche e politiche.
L'impegno dell'Associazione Papa
Giovanni XXIII
L'Associazione denuncia questa situazione partendo
dall'esperienza di 20 anni di lavoro con gli handicappati, 15 anni di lavoro
con l'affidamento e le case famiglia, 7 anni di lavoro con la tossicodipendenza,
2 anni di lavoro con le persone senza fissa dimora e tenendo conto del
patrimonio di conoscenza delle 40 case-famiglia e prontosoccorsi sociali
sparsi per l'Italia (ed anche in Africa), delle comunità terapeutiche e delle
famiglie affidatarie che ad essa fanno capo (circa 100 con affidi in corso ed
altrettante che ne hanno avuti o si accingono ad averne).
L'Associazione Papa Giovanni XXIII, presenza ormai
significativa sul fronte dell'emarginazione, con l'assemblea di settembre, ha
chiamato a confronto famiglie affidatarie da tutta Italia, case famiglia,
operatori sociali, personale religioso e laico degli istituti, magistrati ed
esperti per porre in evidenza quella che oggi si presenta come una delle più
macroscopiche violazioni di diritti: il diritto naturale, ma sancito anche
esplicitamente da una legge, del minore di vivere ed essere educato in una
famiglia: possibilmente la propria, ma in assenza od in carenza di questa,
comunque in una famiglia.
La realtà italiana, invece, mostra il dato drammatico
di circa 60.000 minori rinchiusi negli istituti. Ma quello che è più grave è
che il numero non tende a diminuire se non per il decremento di popolazione
nelle fasce di età considerate; comunque non sono reperibili dati certi e
correttamente censiti (ulteriore dimostrazione di disinteresse degli organi
pubblici). Risulta anzi che in alcune zone il ricorso agli istituti è in
aumento ed i tribunali ed i servizi sociali vi facciano ricorso anche in
violazione dell'art. 2 della legge 184 del 1983 che recita: «il minore che sia temporaneamente privo di
un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un'altra famiglia, possibilmente
con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo
familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l'educazione e la
istruzione.
Ove non sia
possibile un conveniente affidamento familiare, è consentito il ricovero del
minore in un istituto di assistenza pubblico o privato, da realizzarsi di
preferenza nell'ambito della regione di residenza del minore stesso».
È evidente che la legge relega l'istituto a soluzione
estrema ed il ricorrervi senza aver accertato la possibilità di un affido
familiare rappresenta una precisa violazione di legge.
Un disagio che ha radici strutturali
La «disattenzione» delle istituzioni, degli organi e
dei servizi preposti verso i minori non è casuale o limitata ai minori senza
famiglia: gli handicappati e le loro famiglie denunciano la insensibilità
pubblica (non solo istituzionale, ma anche sociale) ai loro problemi; le città,
le convivenze, la scuola, la vita sociale in genere non tengono
prioritariamente conto delle necessità e dei diritti dei ragazzi; ad ogni fine
legislatura vengono malinconicamente archiviati i progetti di legge per una
riforma complessiva della giustizia minorile che continua ad essere governata
da norme antiquate se si esclude il recente limitato intervento nella
procedura penale.
Tutto ciò in una situazione di trasformazioni
velocissime di valori culturali, modelli di vita e cambiamenti sociali che
determinano zone sempre più vaste di emarginazione; producono nevrosi e
rapporti violenti e prevaricatori di cui le vittime sono, ovviamente, i
soggetti deboli ed i bambini in primo luogo.
Questo quadro, non certamente lusinghiero, è stato
analizzato con lucidità nel corso dei lavori dell'assemblea di settembre. Un
grosso contributo è venuto dai relatori: il Prof. Alfredo Carlo Moro,
Consigliere della Suprema Corte di Cassazione che ha collocato il problema dei
minori senza adeguata assistenza familiare nel quadro più complessivo della
condizione dei minori nella famiglia e nella società ed ha rilevato l'esigenza
di una nuova cultura dell'infanzia; la Dr. Giovanna De Cellis che ha
relazionato sulla gravità quantitativa e qualitativa della violenza sui minori
e sui danni provocati dall'abuso sessuale che è più frequente di quanto risulti
ufficialmente; la Dr. Silvia Tagliavini, neuropsichiatra, che ha descritto le
dinamiche dei processi che riguardano il periodo dell'adolescenza, processi
che da occasioni positive di maturazione possono diventare occasioni negative
di devianza ed emarginazione nell'impatto con una realtà non adeguata di cui
hanno responsabilità tutte le componenti della società; il Dr. Orlando Ghirardi
dell'UNICEF che ha collocato la condizione dei minori in Italia nella situazione
internazionale, descrivendo un quadro non lusinghiero né consolante.
I dati più drammatici parlano di 38.000 bambini
imprigionati (11.000 in due anni solo in Sud-Africa), arruolati a forza negli
eserciti, abbandonati per le strade all'accattonaggio ed alla prostituzione,
in paesi poveri che effettuano tagli sempre maggiori alle spese per
l'assistenza e per la sanità per acquistare armi.
Un contributo prezioso per la conoscenza della
situazione in altri paesi è venuto anche da alcune delegazioni presenti ai lavori
dell'assemblea: Grace Nsiah dal Ghana, Rosemary Winder dagli Usa, Ivonne
Gemayel dal Libano, Harriet Baldeh dal Gambia, Alain e Béatrice Lenoir dalla
Francia.
La posizione complessiva dell'Associazione Papa
Giovanni XXIII è stata portata dal fondatore ed attuale responsabile della
Associazione stessa, Don Oreste Benzi, che, utilizzando ogni dato disponibile,
ha denunciato l'inquietante fenomeno del ritorno alla utilizzazione
dell'istituto come risposta ai problemi dei minori.
La presenza di numerose autorità, fra cui il Ministro
per gli affari sociali, Rosa Russo Jervolino, ha permesso di ampliare il
confronto con le istituzioni e di avanzare alle stesse precise richieste di
impegno.
Problematiche in continua evoluzione
Particolarmente nei gruppi di lavoro, sulle varie
problematiche ed in particolare sui rapporti fra famiglie affidatarie e
famiglie d'origine, sull'affidamento degli adolescenti, sui rapporti dei
minori affidati con il territorio (scuola, gruppo, parrocchia), è emerso il
contributo decisivo dei partecipanti che ha poi determinato le proposte
operative e di prosecuzione dell'impegno annunciate in chiusura dei lavori.
Possono essere trascurate le considerazioni ormai
scontate che caratterizzano l'affidamento nei rapporti sopra elencati, ma
alcune informazioni e denunce hanno raggiunto livelli di drammaticità tali da
indurre l'Associazione Papa Giovanni XXIII a confermare ed intensificare
l'azione a vasto raggio in difesa dei minori senza adeguata assistenza
familiare.
Per quanto riguarda gli adolescenti è stata confermata
l'esistenza di una vera e propria emergenza: la domanda di interventi a favore
di adolescenti bisognosi di un supporto familiare si moltiplica e si
specializza per la particolarità della domanda stessa. A fianco della normale
attività di affidamento familiare, emerge la richiesta di fornire agli
adolescenti, senza una adeguata assistenza in famiglia, un punto di
riferimento sicuro per gli anni che li separano dall'età matura.
Sono state rilevate le difficoltà spesso insuperabili
che incontra la famiglia affidataria nel rapporto con l'adolescente affidato,
soprattutto se i servizi hanno atteso di toglierlo dall'abbandono quando ormai
il recupero diventa difficile o sia stato lasciato «guastare» totalmente in un
istituto. Alcuni istituti dimettono gli adolescenti solo quando non riescono
più a «reggerli», scaricandoli su famiglie spesso insufficientemente preparate.
Al momento del raggiungimento dell'adolescenza dei
figli affidati, anche l'inserimento lavorativo si presenta più problematico che
per altri, trattandosi di ragazzi spesso poco competitivi sul mercato del
lavoro.
In ogni caso i genitori e gli operatori presenti
hanno denunciato l’inadeguatezza dei servizi nell'assistenza agli adolescenti;
si è parlato di vera e propria «terra di nessuno» con riferimento alla
competenza assistenziale per gli adolescenti.
Puntuali ed interessanti anche le indicazioni emerse
dai gruppi di lavoro sugli altri aspetti affrontati. L'attenzione alle famiglie
d'origine rappresenta quasi sempre una svolta nella storia dell'affidamento: il
rapporto con esse resta sempre difficile e spesso viene a presentarsi come un
problema in più per le famiglie affidatarie. Sta crescendo però la convinzione
che è sulla famiglia d'origine che si deve operare affinché il fenomeno
dell'abbandono e del maltrattamento ai minori non si riproduca, nonostante
l'intervento pubblico e privato che avviene spesso in ritardo.
Un intervento di sostegno alla famiglia di origine
può risolvere appunto «all'origine» una buona parte dei casi, che, affrontati
a posteriori, hanno costi umani, sociali ed anche finanziari enormemente più
alti (l'Associazione denuncia casi di sottrazione di minori a famiglie non in
grado di assicurarne il sostentamento; questi minori vengono poi messi in
istituti che costano alla collettività diversi milioni al mese).
La famiglia affidataria si trova spesso a carico
anche la famiglia di origine, situazione a cui non sempre riesce a fare fronte,
se non c'è una precisa e qualificata presenza del servizio socio-assistenziale.
Difficoltà anche, secondo le testimonianze dei
partecipanti, nei rapporti con la scuola, il quartiere, la parrocchia, dove
non sempre l'inserimento è facile ed a volte l'affidamento viene visto con
sospetto.
Una denuncia unanime nei confronti degli istituti:
al di là delle polemiche sulle cifre circa i «rinchiusi», è stata colta
pienamente la «insopportabilità» della situazione degli istituti per le
coscienze dei genitori affidatari. In particolare è preoccupante la dimensione
del fenomeno e il trattamento riservato ai bambini da alcune istituzioni, la
speculazione di cui spesso sono strumento.
Verso la IV assemblea con progetti
ambiziosi
Nonostante la presenza notevole di istituzioni
religiose nella gestione degli istituti, l'Associazione ha confermato con
forza la propria irriducibilità nella lotta per lo svuotamento degli istituti
e per l'obiettivo di dare una famiglia ad ogni bambino.
Ed è con questa determinazione che l'Associazione si
accinge a continuare la sua azione nell'anno che la separa dalla IV assemblea
già fissata per il settembre 1989: aggredire il fenomeno della
istituzionalizzazione sollecitando ogni possibile disponibilità di famiglie
affidatarie e denunciare le violazioni della legge 184/1983 da parte di molti
servizi e di alcuni tribunali per minorenni.
Per quest'azione sul fronte dei minori, l'Associazione
Papa Giovanni XXIII si propone come punto di riferimento nazionale di
coordinamento permanente di tutte le piccole e grandi realtà (gruppi,
associazioni e singole persone o famiglie) impegnate in difesa dei minori.
ANZIANI
MALTRATTATI IN UN ISTITUTO DI MILANO
Riportiamo
integralmente quanto è stato pubblicato sul n. 1, marzo 1988 dei Fogli di
informazione trimestrali del MO.V.I., a cui chiediamo di rendere pubblica la
denominazione dell'istituto in oggetto.
Rilievi emersi dalle riunioni di reparto dei volontari
in un istituto di Milano:
«Nei reparti dell'istituto, per anziani autosufficienti,
sono ricoverati moltissimi anziani non autosufficienti cronici. I rapporti con
i medici sono inesistenti. Il medico chiamato per un anziano in condizioni
aggravate non si è visto per due giorni: la giustificazione è che l'ospite è
considerato fuori di mente e segnala disturbi inesistenti o non urgenti. È
stata negata la presenza notturna ad una volontaria per un ospite peggiorato e
poi morto di notte. Non esistono campanelli per chiamate urgenti da parte di
ospiti allettati. Essendo i letti vicini alle finestre queste non vengono
aperte per aerare il locale. Pur essendoci ospiti alcoolizzati o con tendenza
all'alcolismo, al bar dell'istituto si vendono alcoolici. Ci sono nei reparti
persone con turbe psichiatriche: oltre alla mancanza di cure nei loro
confronti, la situazione comporta problemi e stati di angoscia nei vicini.
Esistono problemi di udito per molti ospiti: non si può far nulla? Per gravi e
moribondi non esiste un luogo appartato e reso discreto per rispetto di chi
vive e di chi muore. Gli abulici vengono fasciati a letto: provvedono i
volontari a farli alzare e accompagnarli al tavolo. Non esistono diete
personalizzate. La dieta normale è ad alto contenuto di colesterolo (uova
sode, cervella, formaggi grassi, insaccati misti, poca frutta, poche verdure,
vino in quantità). Durante la distribuzione dei pasti c'è freddezza e
frettolosità specie nel recupero delle stoviglie a fine pasto, a volte ancora
con il cibo non consumato per la lentezza dell'ospite che rimane con il pranzo
interrotto. Con la presenza dei volontari che aiutano a mangiare, il personale
si ritira. C'è mancanza di collaborazione con i volontari. Il personale non è
stato preparato al servizio dei volontari in reparto e a volte li ostacola. Ci
vorrebbero attività di aggiornamento comune. Insufficienza di infermieri e
inservienti rispetto al numero degli ospiti non autosufficienti; per 50 ospiti
un solo infermiere caposala e quattro inservienti per ognuno dei due turni
giornalieri; di notte una persona sola. Totale: 11 persone per 50 anziani. Il
personale infermieristico cambia sovente per rotazione eccessiva. Dovrebbe
essere più numeroso e responsabilizzato. Gli inservienti dovrebbero intervenire
anche fuori degli orari stabiliti per il cambio in casi particolari per non lasciare
il paziente nelle feci. Altri pazienti sono abbandonati sulla commoda per
parecchio tempo ciondoloni. È diventata abitudine in un reparto rifiutare la
padella richiesta con conseguente disagio del paziente costretto a sporcare il
letto. I servizi igienici sono poco puliti, promiscui. Urina versata sul
pavimento resta da un giorno all'altro. La pulizia del pavimento viene fatta
con sola acqua senza detersivi. Piatti, stoviglie, bavagli sono spesso sporchi
prima dell'uso, così commade e sedie. Gli indumenti una volta lavati vengono
ridistribuiti a caso e non al singolo proprietario. Nella stagione invernale
gli ospiti vengono coperti solo con un camicione. Dei letti non hanno sponde
efficienti. Non esiste un locale per autosufficienti che non sia disturbato
dalla televisione o da chi gioca a carte. A volte i pazienti per fare il bagno
devono aspettare fino a tre mesi. Quando viene fatto spesso provoca scottature
per l'acqua troppo calda».
SONO HANDICAPPATI PSICHICI
GRAVI E GRAVISSIMI, MA SCRIVONO E STAMPANO UN GIORNALINO: È POSSIBILE?
I centri territoriali riabilitativi, gestiti dal Comune
di Milano o convenzionati, sono «un servizio di riabilitazione fisica,
psichica e sociale per portatori di handicap psichici e psicofisici gravi e
gravissimi».
Sorprendente, trattandosi appunto di handicappati
gravi e gravissimi, è il fatto che essi siano in grado di scrivere e stampare
un giornalino.
Uno dei redattori, R.B. del CTR 9 ha scritto sul n.
13, aprile-maggio-giugno 1988 la nota che riportiamo integralmente: «Siamo andati in gita al lago di Como. Alle
ore 10 siamo partiti col pulmino dal Centro per la stazione nord, abbiamo preso
il treno e siamo arrivati a Como. Poi siamo saliti sul battello, era molto
bello sembrava una casa, c'era anche il ristorante dove abbiamo mangiato. Siamo
così arrivati a villa Carlotta, l'abbiamo visitata c'erano dei bellissimi fiori
e tante piante di agrumi. Io mi sono molto divertito e spero di fare presto
altre gite».
Ma si tratta proprio di handicappati gravi e gravissimi?
Devono frequentare un C.T.R. perché le condizioni
psico-fisiche sono così gravi da impedire qualsiasi inserimento lavorativo
nelle normali aziende pubbliche e private? E, se sono così gravi, com'è che
scrivono così bene?
Come vengono scelti i ragazzi da inviare a questi C.T.R.?
Quali rapporti vi sono fra i C.T.R., la formazione professionale e
l'inserimento lavorativo?
Ci ha impressionato molto la seguente lettera di un
ragazzo a «Cristina licenziata», lettera pubblicata sul numero speciale del
giornalino di Natale; dal testo risulta che la ragazza, inserita al lavoro
dopo la frequenza del C.T.R., e in seguito messa in cassa integrazione, «non fa più parte del Comune» e non può
più partecipare alle attività del Centro...: «Cristina Camponovo veniva al giornalino dal C.T.R. di Zona 8, era una
ragazza, simpatica, allegra, spiritosa. Adesso il C.T.R. di zona 8 l'ha mandata
via prendendo ragazzi nuovi al suo posto. Il C.T.R. 8 mandava Cristina alla “formazione
nel lavoro” negli uffici. È stata assunta dall'azienda Tenax, solo che la
ditta chiude e Cristina viene messa in cassa integrazione. Ora Cristina non fa
più parte del Comune e questo dispiace, quindi non può venire più al giornalino
a cui era affezionata molto, quindi deve restare a casa. Quando ho saputo la
notizia sono rimasto male perché cominciavamo a lavorare insieme, eravamo una
coppia affiatata essendo appena all'inizio. Adesso mi tocca svolgere il lavoro
da solo e sento molto la sua mancanza. Jean Paul».
Ci sembra inoltre poco opportuno il largo uso di
fotografie dei ragazzi handicappati che si fa nei vari numeri del giornalino...
Ma soprattutto dobbiamo sottolineare il fatto che, qualificando «gravi e
gravissimi» tutti indistintamente i frequentanti i C.T.R., si va compiendo
un'azione di «stigmatizzazione» molto negativa, nei confronti dell'opinione
pubblica, in particolare verso i genitori, gli amministratori pubblici e gli
operatori economici (futuri eventuali datori di lavoro), e si va costruendo e
diffondendo una immagine dei ragazzi più negativa di quanto non siano in
realtà, e quindi si contribuisce ad aggravare la loro emarginazione.
Non saremo certo noi a sottovalutare i meriti di
questi C.T.R., e siamo d'accordo con le osservazioni della professoressa C.
Morosini contenute in una relazione pubblicata sul giornalino n. 13/1988: «I C.T.R. sono nati dallo smantellamento dei
grandi Centri sovrazonali, all'insegna delle decentralizzazione, della
deistituzionalizzazione, della demedicalizzazione (...). Carattere di
bipolarità del C.T.R.: inserimento del portatore di handicap nel suo contesto
socio-culturale, ma anche educazione all'accoglimento ed alla accettazione del
portatore di handicap da parte dell'ambiente».
Ma alcune perplessità sorte dalla documentazione
prodotta da questi C.T.R. rimangono. In particolare, gradiremmo avere
precisazioni dall'Assessore all'assistenza del Comune dì Milano, essendo noi
molto dubbiosi sul fatto che si tratti proprio di handicappati gravi e
gravissimi.
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