Prospettive assistenziali, n. 85, gennaio-marzo 1989

 

 

IL GENIO NON SI ALLEVA IN CULLA

GUIDO CATTABENI (1)

 

 

Su «La Stampa», quotidiano di Torino a diffusione nazionale, è apparso nel dicembre '87, un articolo, molto seducente a dire il vero, centrato su ricerche psicologiche di matrice statunitense che affermano l'importanza dei primi anni di vita per lo sviluppo intellettivo degli esseri umani.

Non solo il titolo («Il genio si alleva in culla»), ma anche il contenuto dell'articolo possono su­scitare speranze, perplessità, dubbi, confusioni e, in ultima analisi, delusioni, in quei genitori, oggi in stragrande maggioranza, che investono la loro vita nel successo dei figli.

Nell'articolo, a firma di G. Padovani, assieme a messaggi positivi e stimolanti sono mescolati con poca sensibilità pedagogica, messaggi-trap­pola che introducono a labirinti senza via di usci­ta e, in parte, anche messaggi negativi per chi voglia, con intelligenza, affrontare i problemi par­ticolarmente complessi dell'educazione in gene­rale nel mondo contemporaneo.

 

I messaggi positivi

1) L'intelligenza non è un fatto solo ereditario: si dice, ed è vero, che le persone non sono stu­pide o geniali a seconda del genoma ricevuto dai genitori biologici, ma lo diventano in funzione delle corrette o inadeguate stimolazioni che l'am­biente di vita fornisce fin dai primi giorni dopo la nascita e in particolare nei primi tre anni di vita. È stato infatti provato da numerosi e validi studi statistici che i bambini delle classi sociali su­periori e medie danno risultati più brillanti di quelli delle classi inferiori e la differenza media tra i bambini di classe sociale diversa è di 20 punti di Q.I. Ed è stato provato che tali differenze sono imputabili non a influenze genetiche, ma a fattori sociali e culturali.

Riferisce P.H. Mussen (The Psychological de­velopment of the child, Prentice-Hall, 1963) che «possiamo trovare un'ulteriore prova di come l'ambiente influisca sull'intelligenza nel fatto che i bambini allevati in ambienti poco stimolanti, come i brefotrofi, siano ritardati (ed a volte in modo durevole) per quanto riguarda lo sviluppo intellettivo ed il linguaggio. Quanto più lunga e precoce è la permanenza in un brefotrofio, tanto più basso è il Q.I. del bambino». Un'autorità in materia (Mc Candless B.R., Children and adole­scents: behaviour and development, N.Y., Holt, Rinehart, Winston, 1961, pag. 247) afferma che «parlando dal punto di vista del bene sociale, si sono accumulate prove sufficienti per dire che la vita in gruppo, in un istituto in cui sono fornite le cure comuni, è abbastanza dannosa (o in modo temporaneo o permanente) da giustificare un ap­pello contro tali sistemi educativi».

 

2) Queste considerazioni introducono ad un se­condo stimolo positivo contenuto negli articoli sopraddetti: l'importanza dei genitori nei primi passi dei figli verso la conoscenza.

Uno studioso, William Goldfarb, ha confrontato lo sviluppo di due gruppi dì orfani che nei loro primi tre anni erano stati allevati in ambienti di­versi. I bambini di un gruppo erano stati adottati presso famiglie e avevano ricevuto più attenzio­ni, più calore affettivo e cure adeguate. Quelli dell'altro gruppo erano rimasti per tre anni in un istituto dove avevano avuto cure impersonali ed inadeguate ed una vita emotiva molto povera; molti di essi furono poi sistemati presso fami­glie adottive.

Il ricercatore ha condotto sui bambini uno stu­dio longitudinale a quattro diverse età: a tre an­ni e mezzo, a sei anni e mezzo, a otto anni e mezzo e a dodici anni. Li ha osservati, ha fatto colloqui, li ha sottoposti a reattivi di intelligenza, di profitto scolastico, di personalità, di coordina­zione motoria, di maturità sociale e di capacità verbale.

Da un punto di vista intellettivo il gruppo al­levato in un istituto si dimostrò ritardato. I bam­bini, a tutte le età, davano risultati più scarsi di quelli allevati presso famiglie, specie nella for­mazione dei concetti, nel ragionamento, nel pen­siero astratto. I difetti del linguaggio erano più frequenti e persistevano a lungo anche dopo l'uscita dall'orfanotrofio (citato da P.H. Mussen).

 

3) Sviluppare le potenzialità esistenti in ogni bambino: è un messaggio di importanza rivoluzio­naria perché pone l'attenzione su ciò che ogni bambino ha la possibilità di diventare indipen­dentemente dalle sue eventuali limitazioni orga­niche, anziché sottolineare ciò che manca per es­sere un bambino nella media, cioè «normale»

Infatti ogni bambino ha il diritto al massimo sviluppo delle sue capacità, anche quando si trovi, dalla nascita, in condizioni menomate a causa di patologie prenatali o perinatali. Inoltre il campo della neuropsicologia e della psicomo­tricità è talmente poco conosciuto che non può spesso essere dichiarata irrecuperabile una fun­zione soltanto sulla base di una lesione organica localizzata. Basti pensare alla recente scoperta della possibilità di far assumere funzioni vica­rianti ad aree cerebrali considerate inutili, rispet­to ad aree tradizionalmente considerate speci­fiche per l'espletamento di funzioni anche com­plesse, come il linguaggio, la motricità, ecc.

 

I messaggi-trappola

1) Buon genitore è colui che alleva un figlio più intelligente della norma e si suggeriscono delle ricette e degli esercizi finalizzati a svilup­pare l'intelligenza.

È una affermazione ingannevole, perché se è vero che nella nostra società occidentale, per avere successo, in termini perlomeno di denaro e potere, è necessario essere intelligenti, è an­che vero che ciò non è sufficiente. Infatti si può essere anche superdotati dal punto di vista intel­lettivo e non avere successo. Lo dimostrano le nu­merose ricerche psicologiche sul disadattamen­to sociale (che significa = insuccesso sociale!) di quei ragazzi dotati di intelligenza nettamente superiore alla media e che tuttavia sono afflitti, fin dagli anni della scuola dell'obbligo, da note­voli disturbi relazionali, causati proprio dal «gap» intellettivo nei confronti dei coetanei di intel­ligenza normale.

È universalmente noto, tra i tecnici, che la con­dizione di «genio», ossia di superdotato intellet­tivo, è causa di difficoltà di socializzazione con i normali (che costituiscono la maggioranza stati­stica) analogamente a quanto avviene per gli ipo­dotati intellettivi. Se si volesse suggerire una ricetta per il successo (basterebbe guardarsi in­torno!) bisognerebbe invitare a costruire una in­telligenza nella media, o appena appena un poco al di sopra. I Q.I. superiori a 140 sono a rischio!

 

2) Mentre si afferma erroneamente, come ab­biamo visto, che il genio non ha problemi, si met­te in evidenza, d'altra parte, che chi non è dotato di intelligenza ha problemi. Mentre la prima af­fermazione è sbagliata, la seconda è semplice­mente stupefacente se letta nel contesto del discorso sul «buon genitore». Senza alcuna per­plessità si fa dire a Doman che se un figlio è poco intelligente la colpa è dei genitori ignoranti e pigri, tanto che verrebbe da concludere, leggendo l'articolo: «chi rompe paga e i cocci sono suoi».

Anche se la teoria, molto «yankee», dell'otti­mismo a tutti i costi, propugnata da Doman, ha fatto forse più male che bene a tante famiglie ed operatori impegnati sul fronte della rieduca­zione funzionale e della riabilitazione sociale dei menomati dell'intelligenza; non si può certo so­stenere che Doman negasse l'esistenza di in­sufficienze mentali da cause organiche e non re­versibili.

Poiché credo che «La Stampa» abbia più let­tori di quanti ne abbiano le opere di Doman, sa­rebbe opportuno che la sua divulgazione scien­tifica fosse più qualificata e corretta. Andava al­meno sottolineato che i problemi di chi ha sof­ferto di patologie organiche che ne hanno me­nomato irreversibilmente le capacità intellettive nascono dall'emarginazione sociale che essi e le loro famiglie subiscono.

Lasciar credere che in «ogni bambino» ci sia un «potenziale genio» e che la mancata esplo­sione del genio sia da imputarsi a quei genitori che non hanno letto «come moltiplicare l'intel­ligenza del vostro bambino» è incompetenza bel­la e buona!

Suggerirei di rimediare con qualche articolo che illustri i vantaggi pedagogici di avere dei ge­nitori che ti amano incondizionatamente, anche se non sarai mai un genio, e quelli, altrettanto de­terminanti, di una comunità sociale che ti valoriz­za per quello che sai dare, senza metterti ai mar­gini per la tua scarsa intelligenza.

Non c'è un solo articolo scientifico che sosten­ga che la condizione di emarginato costituisca uno stimolo particolarmente efficace per lo svi­luppo delle potenzialità residue di chi soffre di una insufficienza mentale. Ma se, per non essere emarginati, bisogna essere intelligenti, come si esce dalla trappola?

 

I messaggi negativi

 

1) L'intelligenza è determinata da un insegna­mento fornito nel primi tre anni di vita.

Basterà, per smentire la affermazione, riporta­re il caso citato da P.H. Mussen: «Il Q.I. di un ragazzo durante il periodo scolare oscilla tra 113 e 163, i punteggi variando a seconda dello stato generale di salute, dell'adattamento psicologico e delle condizioni familiari. All'età di sei anni, quan­do il Q.I. (calcolato col reattivo Stanford-Binet) era al livello più basso, il soggetto aveva una si­nusite cronica, asma bronchiale e si trovava a letto da 12 settimane; il padre aveva contratto la t.b.c., e la madre doveva andare a lavorare, avvenimenti che avevano portato ad un profondo cambiamento della vita familiare.

I referti scolastici di quel periodo annotavano che il ragazzo era irrequieto, reattivo e timido. Di contro, all'età di 10 anni, quando raggiunse il valore di 163, il padre era guarito e lavorava di nuovo dopo un periodo di disoccupazione, l'adat­tamento scolastico era molto migliorato e il ra­gazzo a scuola era capace di grande concentra­zione».

Pare proprio che nella ricetta per il successo, Doman e l'articolista de La Stampa abbiano di­menticato molti importanti ingredienti.

 

2) Un insegnamento precoce aumenta l'intelli­genza: nessun accenno ai danni prodotti da un insegnamento che non sia in armonia con i pro­cessi di maturazione, cioè da un insegnamento fornito prima che la maturazione raggiunta con­senta l'apprendimento. Un bambino non appren­de a camminare nonostante gli esercizi, se vi viene sottoposto prima che il suo sistema neuro­motorio sia maturo per questo: non solo, ma egli strutturerà una relazione negativa con un adulto che gli richiede insistentemente quel che non è in grado di dare.

L'apprendimento, come ricorda Battacchi (in una nota al volume, già citato di Mussen, Ed. ita­liana), di una data attività può essere anticipato, ma non esercitando l'organismo in questa attivi­tà, per cui esso non è ancora maturo, ma acce­lerando la maturazione con esercizi in attività preparatorie per le quali è già maturo. Inoltre non va dimenticato che vi sono due livelli di matura­zione: quello relativo alla possibilità di appren­dimento spontaneo del bambino e quello relativo alle possibilità di apprendimento se aiutato; lo scarto di possibilità tra i due livelli è definito «zona di sviluppo potenziale». Come si vede, è piuttosto pericoloso pensare che in ogni caso è la stimolazione che fa nascere la funzione.

 

3) Il bombardamento di stimolazioni massic­cio, quotidiano e prolungato negli anni di cui è fautore Doman anche per il recupero funzionale dei bambini menomati è una metodologia che vie­ne ormai praticata da pochi, sia per lo sfavore­volissimo rapporto costo-benefici, sia per i ri­sultati controproducenti: puntando solo e esclu­sivamente sul recupero funzionale si dimentica­no le esigenze affettive dei bambini ai quali, sen­za forse rendersene conto, si fa bere il latte in­digesto del «tu devi cambiare, così come sei non va bene». E quando in qualche (o molti?) caso non si raggiunge il risultato auspicato che si fa? Che ne sarà di questo bambino sbagliato nono­stante Doman? Forse per non avere troppi pro­blemi nella vita gli basterebbe sentirsi amato così come è: proprio come sogniamo noi, esseri umani normali, privati purtroppo in tenera età di addestramenti specializzati che avrebbero potu­to farci passare alla storia. Per approfondire que­st'ultimo argomento suggerisco la lettura di un testo che ritengo, con scandalo di qualche ben­pensante, scientifico: «Storia di Nicola - Le con­quiste di un bambino handicappato grave nel rac­conto della madre adottiva» (di Giulia Basano, Ed. Rosenberg & Sellier).

 

 

(1) Psicologo USSL 67 della Lombardia.

 

 

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