IL GENIO NON SI ALLEVA
IN CULLA
GUIDO CATTABENI (1)
Su «La Stampa», quotidiano di Torino a diffusione
nazionale, è apparso nel dicembre '87, un articolo, molto seducente a dire il
vero, centrato su ricerche psicologiche di matrice statunitense che affermano
l'importanza dei primi anni di vita per lo sviluppo intellettivo degli esseri
umani.
Non solo il titolo («Il genio si alleva in culla»),
ma anche il contenuto dell'articolo possono suscitare speranze, perplessità,
dubbi, confusioni e, in ultima analisi, delusioni, in quei genitori, oggi in
stragrande maggioranza, che investono la loro vita nel successo dei figli.
Nell'articolo, a firma di G. Padovani, assieme a
messaggi positivi e stimolanti sono mescolati con poca sensibilità pedagogica,
messaggi-trappola che introducono a labirinti senza via di uscita e, in
parte, anche messaggi negativi per chi voglia, con intelligenza, affrontare i
problemi particolarmente complessi dell'educazione in generale nel mondo
contemporaneo.
I messaggi positivi
1) L'intelligenza
non è un fatto solo ereditario: si dice, ed è vero, che le persone non sono
stupide o geniali a seconda del genoma ricevuto dai genitori biologici, ma lo
diventano in funzione delle corrette o inadeguate stimolazioni che l'ambiente
di vita fornisce fin dai primi giorni dopo la nascita e in particolare nei
primi tre anni di vita. È stato infatti provato da numerosi e validi studi
statistici che i bambini delle classi sociali superiori e medie danno
risultati più brillanti di quelli delle classi inferiori e la differenza media
tra i bambini di classe sociale diversa è di 20 punti di Q.I. Ed è stato
provato che tali differenze sono imputabili non a influenze genetiche, ma a
fattori sociali e culturali.
Riferisce P.H. Mussen (The Psychological development of the child, Prentice-Hall, 1963)
che «possiamo trovare un'ulteriore prova di come l'ambiente influisca
sull'intelligenza nel fatto che i bambini allevati in ambienti poco stimolanti,
come i brefotrofi, siano ritardati (ed a volte in modo durevole) per quanto
riguarda lo sviluppo intellettivo ed il linguaggio. Quanto più lunga e precoce
è la permanenza in un brefotrofio, tanto più basso è il Q.I. del bambino».
Un'autorità in materia (Mc Candless B.R., Children
and adolescents: behaviour and development, N.Y., Holt, Rinehart, Winston,
1961, pag. 247) afferma che «parlando dal punto di vista del bene sociale, si
sono accumulate prove sufficienti per dire che la vita in gruppo, in un
istituto in cui sono fornite le cure comuni, è abbastanza dannosa (o in modo
temporaneo o permanente) da giustificare un appello contro tali sistemi
educativi».
2) Queste considerazioni introducono ad un secondo
stimolo positivo contenuto negli articoli sopraddetti: l'importanza dei genitori nei primi passi dei figli verso la
conoscenza.
Uno studioso, William Goldfarb, ha confrontato lo
sviluppo di due gruppi dì orfani che nei loro primi tre anni erano stati
allevati in ambienti diversi. I bambini di un gruppo erano stati adottati
presso famiglie e avevano ricevuto più attenzioni, più calore affettivo e cure
adeguate. Quelli dell'altro gruppo erano rimasti per tre anni in un istituto
dove avevano avuto cure impersonali ed inadeguate ed una vita emotiva molto
povera; molti di essi furono poi sistemati presso famiglie adottive.
Il ricercatore ha condotto sui bambini uno studio
longitudinale a quattro diverse età: a tre anni e mezzo, a sei anni e mezzo, a
otto anni e mezzo e a dodici anni. Li ha osservati, ha fatto colloqui, li ha
sottoposti a reattivi di intelligenza, di profitto scolastico, di personalità,
di coordinazione motoria, di maturità sociale e di capacità verbale.
Da un punto di vista intellettivo il gruppo allevato
in un istituto si dimostrò ritardato. I bambini, a tutte le età, davano
risultati più scarsi di quelli allevati presso famiglie, specie nella formazione
dei concetti, nel ragionamento, nel pensiero astratto. I difetti del
linguaggio erano più frequenti e persistevano a lungo anche dopo l'uscita
dall'orfanotrofio (citato da P.H. Mussen).
3) Sviluppare
le potenzialità esistenti in ogni bambino: è un messaggio di importanza
rivoluzionaria perché pone l'attenzione su ciò che ogni bambino ha la
possibilità di diventare indipendentemente dalle sue eventuali limitazioni
organiche, anziché sottolineare ciò che manca per essere un bambino nella
media, cioè «normale»
Infatti ogni bambino ha il diritto al massimo
sviluppo delle sue capacità, anche quando si trovi, dalla nascita, in
condizioni menomate a causa di patologie prenatali o perinatali. Inoltre il
campo della neuropsicologia e della psicomotricità è talmente poco conosciuto
che non può spesso essere dichiarata irrecuperabile una funzione soltanto
sulla base di una lesione organica localizzata. Basti pensare alla recente
scoperta della possibilità di far assumere funzioni vicarianti ad aree cerebrali
considerate inutili, rispetto ad aree tradizionalmente considerate specifiche
per l'espletamento di funzioni anche complesse, come il linguaggio, la
motricità, ecc.
I messaggi-trappola
1) Buon
genitore è colui che alleva un figlio più intelligente della norma e si
suggeriscono delle ricette e degli esercizi finalizzati a sviluppare
l'intelligenza.
È una affermazione ingannevole, perché se è vero che
nella nostra società occidentale, per avere successo, in termini perlomeno di
denaro e potere, è necessario essere intelligenti, è anche vero che ciò non è
sufficiente. Infatti si può essere anche superdotati dal punto di vista intellettivo
e non avere successo. Lo dimostrano le numerose ricerche psicologiche sul
disadattamento sociale (che significa = insuccesso sociale!) di quei ragazzi
dotati di intelligenza nettamente superiore alla media e che tuttavia sono
afflitti, fin dagli anni della scuola dell'obbligo, da notevoli disturbi
relazionali, causati proprio dal «gap» intellettivo nei confronti dei coetanei
di intelligenza normale.
È universalmente noto, tra i tecnici, che la condizione
di «genio», ossia di superdotato intellettivo, è causa di difficoltà di
socializzazione con i normali (che costituiscono la maggioranza statistica)
analogamente a quanto avviene per gli ipodotati intellettivi. Se si volesse
suggerire una ricetta per il successo (basterebbe guardarsi intorno!)
bisognerebbe invitare a costruire una intelligenza nella media, o appena
appena un poco al di sopra. I Q.I. superiori a 140 sono a rischio!
2) Mentre si afferma erroneamente, come abbiamo
visto, che il genio non ha problemi, si mette in evidenza, d'altra parte, che chi non è dotato di intelligenza ha
problemi. Mentre la prima affermazione è sbagliata, la seconda è semplicemente
stupefacente se letta nel contesto del discorso sul «buon genitore». Senza
alcuna perplessità si fa dire a Doman che se un figlio è poco intelligente la
colpa è dei genitori ignoranti e pigri, tanto che verrebbe da concludere, leggendo
l'articolo: «chi rompe paga e i cocci sono suoi».
Anche se la teoria, molto «yankee», dell'ottimismo a tutti i costi, propugnata da Doman, ha
fatto forse più male che bene a tante famiglie ed operatori impegnati sul
fronte della rieducazione funzionale e della riabilitazione sociale dei menomati
dell'intelligenza; non si può certo sostenere che Doman negasse l'esistenza di
insufficienze mentali da cause organiche e non reversibili.
Poiché credo che «La Stampa» abbia più lettori di
quanti ne abbiano le opere di Doman, sarebbe opportuno che la sua divulgazione
scientifica fosse più qualificata e corretta. Andava almeno sottolineato che
i problemi di chi ha sofferto di patologie organiche che ne hanno menomato
irreversibilmente le capacità intellettive nascono dall'emarginazione sociale
che essi e le loro famiglie subiscono.
Lasciar credere che in «ogni bambino» ci sia un «potenziale genio» e che la mancata esplosione
del genio sia da imputarsi a quei genitori che non hanno letto «come
moltiplicare l'intelligenza del vostro bambino» è incompetenza bella e buona!
Suggerirei di rimediare con qualche articolo che
illustri i vantaggi pedagogici di avere dei genitori che ti amano incondizionatamente,
anche se non sarai mai un genio, e quelli, altrettanto determinanti, di una
comunità sociale che ti valorizza per quello che sai dare, senza metterti ai
margini per la tua scarsa intelligenza.
Non c'è un solo articolo scientifico che sostenga
che la condizione di emarginato costituisca uno stimolo particolarmente
efficace per lo sviluppo delle potenzialità residue di chi soffre di una
insufficienza mentale. Ma se, per non essere emarginati, bisogna essere
intelligenti, come si esce dalla trappola?
I messaggi negativi
1) L'intelligenza
è determinata da un insegnamento fornito nel primi tre anni di vita.
Basterà, per smentire la affermazione, riportare il
caso citato da P.H. Mussen: «Il Q.I. di un ragazzo durante il periodo scolare
oscilla tra 113 e 163, i punteggi variando a seconda dello stato generale di
salute, dell'adattamento psicologico e delle condizioni familiari. All'età di
sei anni, quando il Q.I. (calcolato col reattivo Stanford-Binet) era al
livello più basso, il soggetto aveva una sinusite cronica, asma bronchiale e
si trovava a letto da 12 settimane; il padre aveva contratto la t.b.c., e la
madre doveva andare a lavorare, avvenimenti che avevano portato ad un profondo
cambiamento della vita familiare.
I referti scolastici di quel periodo annotavano che
il ragazzo era irrequieto, reattivo e timido. Di contro, all'età di 10 anni,
quando raggiunse il valore di 163, il padre era guarito e lavorava di nuovo
dopo un periodo di disoccupazione, l'adattamento scolastico era molto
migliorato e il ragazzo a scuola era capace di grande concentrazione».
Pare proprio che nella ricetta per il successo, Doman
e l'articolista de La Stampa abbiano
dimenticato molti importanti ingredienti.
2) Un
insegnamento precoce aumenta l'intelligenza: nessun accenno ai danni
prodotti da un insegnamento che non sia in armonia con i processi di
maturazione, cioè da un insegnamento fornito prima che la maturazione raggiunta
consenta l'apprendimento. Un bambino non apprende a camminare nonostante gli
esercizi, se vi viene sottoposto prima che il suo sistema neuromotorio sia
maturo per questo: non solo, ma egli strutturerà una relazione negativa con un
adulto che gli richiede insistentemente quel che non è in grado di dare.
L'apprendimento, come ricorda Battacchi (in una nota
al volume, già citato di Mussen, Ed. italiana), di una data attività può
essere anticipato, ma non esercitando l'organismo in questa attività, per cui
esso non è ancora maturo, ma accelerando la maturazione con esercizi in
attività preparatorie per le quali è già maturo. Inoltre non va dimenticato che
vi sono due livelli di maturazione: quello relativo alla possibilità di apprendimento
spontaneo del bambino e quello relativo alle possibilità di apprendimento se
aiutato; lo scarto di possibilità tra i due livelli è definito «zona di
sviluppo potenziale». Come si vede, è piuttosto pericoloso pensare che in ogni
caso è la stimolazione che fa nascere la funzione.
3) Il
bombardamento di stimolazioni massiccio, quotidiano e prolungato negli
anni di cui è fautore Doman anche per il recupero funzionale dei bambini
menomati è una metodologia che viene ormai praticata da pochi, sia per lo
sfavorevolissimo rapporto costo-benefici, sia per i risultati
controproducenti: puntando solo e esclusivamente sul recupero funzionale si
dimenticano le esigenze affettive dei bambini ai quali, senza forse
rendersene conto, si fa bere il latte indigesto del «tu devi cambiare, così
come sei non va bene». E quando in qualche (o molti?) caso non si raggiunge il
risultato auspicato che si fa? Che ne sarà di questo bambino sbagliato nonostante
Doman? Forse per non avere troppi problemi nella vita gli basterebbe sentirsi
amato così come è: proprio come sogniamo noi, esseri umani normali, privati
purtroppo in tenera età di addestramenti specializzati che avrebbero potuto
farci passare alla storia. Per approfondire quest'ultimo argomento suggerisco
la lettura di un testo che ritengo, con scandalo di qualche benpensante,
scientifico: «Storia di Nicola - Le conquiste di un bambino handicappato grave
nel racconto della madre adottiva» (di Giulia Basano, Ed. Rosenberg &
Sellier).
(1) Psicologo USSL 67 della
Lombardia.
www.fondazionepromozionesociale.it