Prospettive assistenziali, n. 86, aprile-giugno 1989

 

 

IL CASO SERENA E LA DIFESA DELL'ILLEGALITA’

PIER GIORGIO GOSSO

 

 

Di fronte all'inconsueto risalto che le hanno dedicato gli organi di informazione, soffermarsi a descrivere ancora una volta l'odissea in cui è stata coinvolta la piccola Serena Cruz sembrerebbe davvero fuor di luogo. La vicenda è sotto gli occhi di tutti, e dunque vi è da credere che a questo punto essa sia sufficientemente cono­sciuta nei suoi dati essenziali, pur con tutti i condizionamenti dovuti alle immancabili impre­cisioni che spesso contraddistinguono i com­menti ad episodi che colpiscono la pubblica opi­nione, facilitando l'insorgere di ottiche non sem­pre conformi alla reale portata dei fatti.

Quello che, semmai, induce a riflettere è la straordinaria ripercussione che il «caso» ha trovato nell'intera coscienza nazionale, suscitan­do - sull'onda del sentimento e dell'emotività - una serie di reazioni che eventi analoghi e talora anche più gravi (anch'essi a suo tempo divenuti di pubblico dominio) non avevano prima d'ora mai fatto registrare.

Non bisogna, infatti, dimenticare che la «sto­ria» di Serena non è altro, purtroppo, che la ri­petizione di un triste copione ben noto a chi ope­ra nel settore dell'infanzia, dove è all'ordine del giorno il ricorso a falsi riconoscimenti di minori rifiutati e ceduti dalla madre naturale, allo sco­po di accaparrarsi un bambino che secondo i canali legali non si potrebbe altrimenti ottenere in adozione.

Si può ben dire che la piaga dei falsi ricono­scimenti sia uno dei classici stratagemmi esco­gitati per assecondare la cupidigia degli adulti, i cui bisogni affettivi vengono così soddisfatti per mezzo di compravendite che - oltre a vio­lare gravemente la legge - non hanno più nulla a che vedere con il rispetto del minore, ridotto in questo modo al rango di un vero e proprio bene di consumo.

Comportamenti del genere, una volta venuti alla luce, sono sempre stati doverosamente per­seguiti dalla magistratura: va da sé che i re­sponsabili dell'abuso sono da considerare per ciò stessi del tutto privi di quelle elementari doti di equilibrio ed umanità che si esigono in capo a chi deve attuare quella forma di materni­tà e paternità responsabili che è la scelta ado­zionale, avendo costoro dato prova di un atteg­giamento totalmente incompatibile con la dispo­nibilità necessaria a dar vita ad un soddisfa­cente rapporto educativo, e quindi deve essere loro rigorosamente inibito di poter accedere all'affidamento del minore vittima dell'abuso (e ciò nell'interesse primario dello stesso minore, che deve essere posto al riparo da ulteriori ri­schi, venendo inserito in una famiglia che sia davvero idonea sotto ogni profilo).

Vale, poi, la pena di sottolineare che simili comportamenti sono la tipica espressione di un uso profondamente snaturato dell'istituto dell'adozione. È con questa mentalità che si crea­no le premesse di catastrofici fallimenti, come insegna il recente e doloroso caso della bam­bina di colore adottata e poi «restituita» da una coppia milanese, sul quale i giornali si so­no limitati a gettare un'occhiata frettolosa: episodio che dovrebbe insegnare a tutti noi come troppe volte adottare un bambino straniero sia la manifestazione di una genitorialità di secondo ordine (il bambino adottato resta sottoposto da parte degli adottanti all'eterna spada di Damocle della «prova», è un «bambino in prova», e se non funziona come si deve e non dà le grati­ficazioni sperate viene rispedito al mittente: in questo caso al giudice dei minori o alle assi­stenti sociali!).

Sotto questo profilo i giudici torinesi che han­no trattato il caso di Serena Cruz sono stati - ad avviso di chi scrive - persin troppo generosi nel valutare nei loro provvedimenti il modo di agire della coppia di Racconigi: non è vero che queste persone abbiano agito «a fin di bene» e senza commettere un «mercato», perché al contrario esse hanno agito «a fin di male» (e cioè in perfetta malafede) ed adoperando Sere­na come materia di compravendita (tutti sappia­mo a memoria che per ottenere un bambino in questo modo bisogna pagare profumatamente: lo si dica una volta per tutte a chiare lettere e senza peli sulla lingua).

Tutto questo dovrebbe essere ben chiaro a chiunque abbia realmente a cuore le esigenze dell'infanzia e voglia guardare in faccia alla real­tà, e corrisponde del resto allo spirito della legge 4 maggio 1983 n. 184 sull'adozione e l'affida­mento dei minori: un'attenta lettura del combinato disposto degli articoli 1, 6, 9, 22, 71, 72 e 74 di tale testo dovrebbe, qualora ve ne fossero, fugare ogni passibile perplessità in proposito, trattandosi di uno di quei rari casi in Italia in cui una legge è stata approvata da tutte le compo­nenti politiche del Paese, con l'apporto qualifi­cato di esperti, studiosi ed operatori e - anzi­ché rappresentare il solito compromesso tra di­verse posizioni in conflitto - contiene l'enun­ciazione positiva di princìpi etici ispirati esclu­sivamente alla difesa del diritto del bambino a crescere in una famiglia vera.

Perché, allora - ci si domanda -, il «caso Serena» ha sollevato tanto clamore, mentre cento altri casi simili, anche recenti, erano stati lasciati cadere nell'indifferenza più totale?

Sarebbe bello poter rispondere all'interroga­tivo facendo riferimento ad un preteso maggior interesse collettivo nel frattempo instauratosi verso le tematiche dell'infanzia e della famiglia, ad una avvenuta maturazione in quel che concer­ne la sensibilità per le sofferenze dei minori. Ma purtroppo le cose non stanno in questi ter­mini, perché il dibattito che si è andato svilup­pando intorno al «caso» ha il più delle volte denotato una povertà culturale e morale assai lontana da una simile sensibilità .

Abbiamo, infatti, letto da parte di intellettuali anche di spicco degli interventi improntati ad una superficialità a dir poco sconcertante, e da cui emerge un modo di sentire che può essere così riassunto: ma che cosa andate cercando nei genitori adottivi? Se si fosse così severi ed esigenti nei confronti dei genitori naturali, quan­te famiglie si salverebbero? In fin dei conti il fal­so riconoscimento è stato fatto per salvare una bambina dalla morte per fame. È stata violata la legge dei codici, e non quella dell'amore. Per punire degli adulti che hanno sbagliato, si è fini­to per castigare una bambina innocente, strap­pandola alle persone alle quali si era affezionata e facendola così soffrire ancora di più.

Ed ancora: questa coppia era già stata dichia­rata dai giudici idonea ad adottare un primo bam­bino straniero e l'aveva regolarmente ottenuto, e dunque avrebbe potuto tranquillamente e de­gnamente allevare anche Serena (quest'ultimo argomento è stato, forse, quello che ha fatto più presa sulla gente e che è stato invocato per stigmatizzare anche duramente la «disumanità» dei giudici, i quali - per una sorte di ripicca o di puntiglio giuridico - avrebbero deciso di ap­plicare la legge a tutti i costi, senza tenere in alcuna considerazione l'innegabile rapporto af­fettivo ormai stabilitosi tra la piccola ed i suoi «genitori adottivi»: sì vedano, ad esempio, le considerazioni di Ferdinando Camon, di Natalia Ginzburg, di Gianni Vattimo, di Gian Giacomo Migone, di Piera Piatti).

A ben guardare, quello che probabilmente ha pesato in maggior misura sul piatto della bilan­cia è stato proprio il fatto che i coniugi di Racco­nigi siano apparsi agli occhi del pubblico come una coppia con tutte le carte in regola: dei buo­ni padri di famiglia, magari un po' sprovveduti, ma con un cuore grosso così, disposti a com­piere qualsiasi sacrificio pur di soccorrere una piccola sfortunata. In fin dei conti a Serena era stato assicurato proprio tutto: una bella casa con un altro fratellino, la simpatia dei parenti, vicini e compaesani, persino il cane e la baby­sitter: né si sarebbe certamente potuto soste­nere - come era invece accaduto anni prima ad una stimata famiglia torinese partita con le mi­gliori intenzioni per adottare una manciata di bambini del Terzo Mondo - che quella bambina fosse stata sottoposta al benché minimo mal­trattamento fisico (1).

La mozione degli affetti, insomma, ha funzio­nato in pieno, unitamente al fatto che i protago­nisti dello «scandalo», invece di chiudersi con pudore nel silenzio e nell'anonimato («l'amore» - recita un poeta poco ascoltato - «si espri­me a voce bassa»), hanno scelto la strada op­posta, e cioè quella di enfatizzare al massimo la situazione, dando in pasto al pubblico ogni loro emozione e passando al contrattacco con una lunga serie di iniziative (e senza, tra l'altro, porsi il problema se, così facendo, quei due pic­coli - Serena e Nasario - non venissero anco­ra una volta «usati» come degli strumenti per raggiungere il profitto dei grandi, anziché venir trattati come esseri umani bisognosi di affetto e da preservare scrupolosamente da ogni mal­sana curiosità e da ogni turbamento).

Tutto questo è bastato per conferire al «caso» una risonanza senza precedenti e per renderlo talmente «popolare» da scatenare una vera e propria gara di «solidarietà», al cui decollo ha contribuito in maniera determinante l'invito ri­volto l'11 marzo 1989 al Ministro di grazia e giu­stizia - su sollecitazione del quotidiano «La Notte» di Milano - dal Presidente della Repub­blica (e subito diffuso sui giornali) affinché «il rispetto della legge possa avvenire in modo da non provocare traumi nei minori e da non susci­tare tanto negative ripercussioni nell'opinione pubblica» e per promuovere «interventi legi­slativi che possano, in situazioni del genere, in qualche modo evitare o attutire le drammatiche conseguenze sulla vita dei minori».

L'invito, che costituiva una pesante ingeren­za sull'attività dei magistrati competenti (essen­do, tra l'altro, intervenuto subito dopo il provve­dimento con il quale il Tribunale per i minorenni di Torino aveva disposto l'allontanamento di Se­rena dalla famiglia Giubergia, e durante le more del reclamo presso la Corte d'appello di quel distretto), veniva prontamente accolto dal mini­stro, nonostante gli appelli inoltrati dai presi­denti dell'ANFAA (che aveva invitato tali auto­rità a valutare le gravi conseguenze che si sa­rebbero prodotte infrangendo, attraverso ad una sorta di «usucapione», il principio secondo cui l'adozione deve essere decisa dall'autorità giu­diziaria minorile e non dall'arbitrio dei privati) e del C.I.A.I. (che aveva ricordato al presidente Cossiga come il suo dovere fosse quello di es­sere vicino ai magistrati che agiscono per la di­fesa dei bambini abbandonati, e non quello di correre dietro agli slanci emozionali di una cop­pia e della pubblica opinione), e da allora non è passato giorno che il Ministro non abbia rilascia­to la sua brava intervista ai giornali, esponendo il suo netto dissenso dalle decisioni dei giudici torinesi, colpevoli di aver esercitato in maniera troppo rigorosa e formalista il loro «potere» e di aver danneggiato gravemente l'interesse di un minore che avrebbe invece dovuto e potuto es­sere altrimenti tutelato attraverso ad una più umana applicazione della legge, venendo lascia­to alla famiglia che l'aveva ottenuto sia pure con la frode.

Il Ministro Vassalli non si è, poi, limitato ad esternare questi suoi convincimenti, ma ha an­che ricevuto (con ampia pubblicità) i coniugi Giubergia, sebbene la procedura si trovasse an­cora in pieno corso di svolgimento davanti agli organi giudiziari, non facendosi quindi scrupolo di commentare in termini altrettanto negativi il tenore delle successive pronunce della magi­stratura e di dichiarare che la vicenda non pote­va dirsi ancora finita, restando secondo lui ai suddetti coniugi «altri tentativi» da compiere e «altre vie» (ma quali?) da percorrere, ed ar­rivando anche a dolersi che ad esaminare i ricor­si degli interessati fossero stati gli stessi orga­ni giudiziari e gli stessi magistrati.

Insomma, il Ministro di grazia e giustizia si è dato carico di condurre per così dire un suo «pro­cesso parallelo», affiancandolo a quello della magistratura, con tutto il prestigio e tutta l'au­torevolezza derivanti dalla sua alta carica di go­verno, e senza farsi condizionare da quella im­portante regola di uno Stato di diritto secondo la quale un membro del potere esecutivo dovreb­be astenersi da prese dì posizione che potreb­bero essere incompatibili con i suoi incarichi istituzionali (visto che, nella sua qualità di mi­nistro, potrebbe essere ad esempio chiamato ad intervenire nelle sue delicate funzioni a pronun­ciarsi con distacco ed imparzialità in occasione di eventuali interrogazioni e richieste di indagi­ni parlamentari: interrogazioni e richieste che, infatti, si sono puntualmente verificate e che era fin da principio presumibile che si verificasse­ro), tanto più che egli è altresì uno dei titolari del diritto di promuovere azione disciplinare nei confronti dei magistrati.

Questa sensibilità non è stata, avvertita dal Ministro, il quale, criticato per questi motivi dal­la Giunta della sezione Piemonte-Valle d'Aosta della Associazione Nazionale Magistrati, non ha trovato nulla di meglio che replicare qualifican­do tale organismo rappresentativo ufficiale co­me un «circolo» dedito alla denigrazione della sua persona ed accampando il propria diritto di interloquire alla pari di qualsiasi altro privato cittadino. Lasciando da parte la problematicità di un simile sdoppiamento, resta da osservare che il punto sul quale egli non ha forse riflettuto è che con il suo atteggiamento egli ha contribui­to in modo tutt'altro che trascurabile ad innesca­re nell'opinione pubblica un rigurgito di insoffe­renza e di intolleranza verso l'operato dei giudi­ci: meccanismo tanto più perverso in quanto esso si andava ad inserire in una «crociata» già fortemente squilibrata contro il ruolo istituzio­nale dei giudici e che a sua volta ha trovato ul­teriore alimento nelle sue posizioni: un compor­tamento più da «avvocato» che da ministro, e da avvocato che ha sposato una causa ben de­terminata, quella che difende l'illegalità in nome del «fatto compiuto» e che fa una bandiera dell'animosità contro il «potere» dei giudici.

È di questo astio, di questo dileggio della fun­zione giudiziaria che ci dobbiamo preoccupare, perché è in questo clima che stanno emergendo in un crescendo rossiniano i programmi più scomposti ed irrazionali: basti citare la farneti­cante proposta di abolire la giustizia minorile e di intervenire sui magistrati di Torino per richia­marli all'ordine (sen. Amatucci), o quell'altra di ripristinare l'istituto fascista della affiliazione e di introdurre l'adozione dei nascituri (on. Viz­zini), o quell'altra ancora di modificare l'attuale normativa sui minori con un «decreto-legge» ad hoc (sen. Graziani e Gallo).

A quest'ultimo proposito, è doveroso conside­rare che l'auspicato «decreto legge» altro non sarebbe che l'affermazione secondo cui i bambi­ni ottenuti con falso riconoscimento dovrebbero (o potrebbero) essere lasciati a coloro che siano riusciti a trattenerli per qualche tempo presso di sé: il che equivarrebbe (ci si permetta il bi­sticcio di parole) a riconoscere giuridicamente i falsi riconoscimenti: è, infatti, ben noto anche all'ultimo degli addetti ai lavori che smaschera­re il falso riconoscimento è sempre un'impresa assai impegnativa e che richiede in ogni caso del tempo. È stato osservato che togliere Sere­na ai suoi «genitori adottivi» sarebbe stato umanamente accettabile soltanto se vi si fosse provveduto immediatamente, non appena la bambina era arrivata in Italia: ma rispettare questa esigenza era - si ripete - praticamen­te impossibile, perché occorre pur sempre un minimo di accertamenti per acquisire gli indizi di un falso riconoscimento, ed anche se nel caso specifico ci si fosse avvalsi della facoltà di pren­dere nell'interesse del minore i provvedimenti temporanei d'urgenza pure consentiti dai com. binato disposto degli artt. 10 e 37 della legge 184, e cioè se si fosse «tolta» assai più tem­pestivamente Serena ai suoi «genitori adottivi» (cosa che, ad avviso di chi scrive, hanno forse sbagliato i giudici torinesi a non fare (2): ma in maniera enormemente più erronea si sono com­portati in un caso in parte analogo i giudici del Tribunale per i minorenni di Napoli, i quali re­centemente hanno deciso che il minore ottenu­to con un sospetto di riconoscimento deve re­stare alla famiglia presso cui si trova fino all'e­sito del processo civile relativo al disconosci­mento della paternità, con ciò lasciando di fatto il minore a quella famiglia per svariati anni e rendendo in pratica il «fatto compiuto» pres­socché inevitabile!), si sarebbe comunque do­vuto far passare del tempo prezioso. Ecco il gua­sto gravissimo arrecato dalla coppia di Racco­nigi con il suo scriteriato comportamento!

Di fronte al desolante panorama di qualunqui­smo che il « caso Serena » ha fatto emergere (frutto, da un lato, di una scarsa conoscenza dei veri problemi sul tappeto e, dall'altro, della no­stalgia per i vecchi tempi in cui nessuno si so­gnava di attribuire ad un manipolo di giudici il dovere di controllare il «diritto» degli adulti a disporre a loro piacimento dei minori, o di con­siderare come reato la compravendita dei bam­bini), è da accogliere con particolare compiaci­mento l'invito alla ragione formulato dal Ministro per gli affari sociali, Russo Jervolino (una delle «madri» della legge 184), la quale ha fatto nota­re che per difendere davvero i diritti dei minori occorre innanzi tutto rispettare la legge vigente, ponendo l'accento sulle gravi inadempienze del governo, che a distanza di sei anni dall'approva­zione della legge sull'affidamento e sull'adozio­ne dei minori non ha ancora ritenuto di accoglie­re le raccomandazioni fatte dal legislatore di al­lora (si legga in proposito la relazione della se­natrice Tedesco Tatò) per ovviare ad uno dei nodi principali delle adozioni internazionali (e cioè il ricorso celere a convenzioni bilaterali tra l'Italia ed i Paesi di provenienza dei minori), così come sono rimasti lettera morta i ripetuti inci­tamenti a porre mano ad un serio controllo su quanti operano ai margini della legalità nello svolgimento delle pratiche per l'adozione inter­nazionale.

È di questi giorni la proiezione sugli schermi televisivi di un toccante filmato che descrive al grande pubblico la tragedia dei figli di persone incarcerate dalla dittatura militare argentina e dati in adozione, e nel quale emerge il problema drammatico se sia giusto dare un riconoscimen­to giuridico ai vincoli instauratisi tra quei bam­bini e quelle famiglie adottive, e, pur tenendo conto della diversità di questi casi-limite rispet­to a quello dì Serena Cruz, quelle strazianti vi­cende possono forse aiutare tutti noi a chieder­ci con maggiore profondità di quanto non si sia fatto finora se i legami affettivi in cui i minori sono stati coinvolti dagli abusi e dalle crudeltà degli adulti debbano davvero trovare una consi­derazione tale da farli ritenere preminenti e prio­ritari rispetto a qualsiasi altro valore.

La «storia» di Serena non ci può poi esimere qui dal ricordare con estrema preoccupazione come l'adozione internazionale abbia visto gra­dualmente decadere in più di un'occasione la sua portata originaria - che era o voleva esse­re la tensione a promuovere e realizzare nel quo­tidiano i diritti dei minori a prescindere da ogni differenza di razza - in una specie di «lascia­passare» o di «surrogato» per non poche fami­glie, che si accontentano di un bambino «di se­conda categoria» pur di colmare le proprie esi­genze e le proprie aspettative. È su questa real­tà inquietante che ci si deve oggi confrontare con il massimo impegno, lasciando da parte tut­te quelle polemiche sterili ed approssimative a cui stiamo invece assistendo e che rischiano di funzionare solamente come tribune pubblicitarie in cui ognuno si sforza di dire la sua pur senza avere alcuna seria competenza in materia, fa­cendo precipitare i nodi dei bisogni infantili ver­so iniziative improvvide e squalificanti.

 

 

(1) «Sentenza di condanna per maltrattamenti in fami­glia» in Prospettive assistenziali, n. 63, luglio-settembre 1983.

(2) Va però riconosciuto che i coniugi Giubergia sono stati convocati dal Tribunale per i minorenni dopo appena 9 giorni dall'ingresso in Italia della bambina. Nonostante che fin da quel momento siano state fatte presenti le gravi conseguenze per Serena che avrebbe avuto il loro com­portamento qualora fosse risultato contrario alla legge, i coniugi Giubergia continuarono a sostenere che la bam­bina era nata a seguito di una relazione del Giubergia.

 

 

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