IL CASO SERENA E LA DIFESA
DELL'ILLEGALITA’
PIER GIORGIO GOSSO
Di fronte all'inconsueto risalto che le hanno
dedicato gli organi di informazione, soffermarsi a descrivere ancora una volta
l'odissea in cui è stata coinvolta la piccola Serena Cruz sembrerebbe davvero
fuor di luogo. La vicenda è sotto gli occhi di tutti, e dunque vi è da credere
che a questo punto essa sia sufficientemente conosciuta nei suoi dati
essenziali, pur con tutti i condizionamenti dovuti alle immancabili imprecisioni
che spesso contraddistinguono i commenti ad episodi che colpiscono la pubblica
opinione, facilitando l'insorgere di ottiche non sempre conformi alla reale
portata dei fatti.
Quello che, semmai, induce a riflettere è la
straordinaria ripercussione che il «caso» ha trovato nell'intera coscienza
nazionale, suscitando - sull'onda del sentimento e dell'emotività - una serie
di reazioni che eventi analoghi e talora anche più gravi (anch'essi a suo tempo
divenuti di pubblico dominio) non avevano prima d'ora mai fatto registrare.
Non bisogna, infatti, dimenticare che la «storia» di
Serena non è altro, purtroppo, che la ripetizione di un triste copione ben
noto a chi opera nel settore dell'infanzia, dove è all'ordine del giorno il
ricorso a falsi riconoscimenti di minori rifiutati e ceduti dalla madre
naturale, allo scopo di accaparrarsi un bambino che secondo i canali legali
non si potrebbe altrimenti ottenere in adozione.
Si può ben dire che la piaga dei falsi riconoscimenti
sia uno dei classici stratagemmi escogitati per assecondare la cupidigia degli
adulti, i cui bisogni affettivi vengono così soddisfatti per mezzo di
compravendite che - oltre a violare gravemente la legge - non hanno più nulla
a che vedere con il rispetto del minore, ridotto in questo modo al rango di un
vero e proprio bene di consumo.
Comportamenti del genere, una volta venuti alla luce,
sono sempre stati doverosamente perseguiti dalla magistratura: va da sé che i responsabili
dell'abuso sono da considerare per ciò stessi del tutto privi di quelle
elementari doti di equilibrio ed umanità che si esigono in capo a chi deve
attuare quella forma di maternità e
paternità responsabili che è la scelta adozionale, avendo costoro dato
prova di un atteggiamento totalmente incompatibile con la disponibilità
necessaria a dar vita ad un soddisfacente rapporto educativo, e quindi deve
essere loro rigorosamente inibito di poter accedere all'affidamento del minore
vittima dell'abuso (e ciò nell'interesse primario dello stesso minore, che deve
essere posto al riparo da ulteriori rischi, venendo inserito in una famiglia
che sia davvero idonea sotto ogni profilo).
Vale, poi, la pena di sottolineare che simili
comportamenti sono la tipica espressione di un uso profondamente snaturato
dell'istituto dell'adozione. È con questa mentalità che si creano le premesse
di catastrofici fallimenti, come insegna il recente e doloroso caso della bambina
di colore adottata e poi «restituita» da una coppia milanese, sul quale i
giornali si sono limitati a gettare un'occhiata frettolosa: episodio che
dovrebbe insegnare a tutti noi come troppe volte adottare un bambino straniero
sia la manifestazione di una genitorialità di secondo ordine (il bambino
adottato resta sottoposto da parte degli adottanti all'eterna spada di Damocle
della «prova», è un «bambino in prova», e se non funziona come si deve e non dà
le gratificazioni sperate viene rispedito al mittente: in questo caso al
giudice dei minori o alle assistenti sociali!).
Sotto questo profilo i giudici torinesi che hanno
trattato il caso di Serena Cruz sono stati - ad avviso di chi scrive - persin
troppo generosi nel valutare nei loro provvedimenti il modo di agire della
coppia di Racconigi: non è vero che queste persone abbiano agito «a fin di
bene» e senza commettere un «mercato», perché al contrario esse hanno agito «a
fin di male» (e cioè in perfetta malafede) ed adoperando Serena come materia
di compravendita (tutti sappiamo a memoria che per ottenere un bambino in
questo modo bisogna pagare profumatamente: lo si dica una volta per tutte a
chiare lettere e senza peli sulla lingua).
Tutto questo dovrebbe essere ben chiaro a chiunque
abbia realmente a cuore le esigenze dell'infanzia e voglia guardare in faccia
alla realtà, e corrisponde del resto allo spirito della legge 4 maggio 1983
n. 184 sull'adozione e l'affidamento dei minori: un'attenta lettura del combinato
disposto degli articoli 1, 6, 9, 22, 71, 72 e 74 di tale testo dovrebbe,
qualora ve ne fossero, fugare ogni passibile perplessità in proposito,
trattandosi di uno di quei rari casi in Italia in cui una legge è stata
approvata da tutte le componenti politiche del Paese, con l'apporto qualificato
di esperti, studiosi ed operatori e - anziché rappresentare il solito
compromesso tra diverse posizioni in conflitto - contiene l'enunciazione
positiva di princìpi etici ispirati esclusivamente alla difesa del diritto del
bambino a crescere in una famiglia vera.
Perché, allora - ci si domanda -, il «caso Serena» ha
sollevato tanto clamore, mentre cento altri casi simili, anche recenti, erano
stati lasciati cadere nell'indifferenza più totale?
Sarebbe bello poter rispondere all'interrogativo
facendo riferimento ad un preteso maggior interesse collettivo nel frattempo
instauratosi verso le tematiche dell'infanzia e della famiglia, ad una avvenuta
maturazione in quel che concerne la sensibilità per le sofferenze dei minori.
Ma purtroppo le cose non stanno in questi termini, perché il dibattito che si
è andato sviluppando intorno al «caso» ha il più delle volte denotato una
povertà culturale e morale assai lontana da una simile sensibilità .
Abbiamo, infatti, letto da parte di intellettuali
anche di spicco degli interventi improntati ad una superficialità a dir poco
sconcertante, e da cui emerge un modo di sentire che può essere così riassunto:
ma che cosa andate cercando nei genitori adottivi? Se si fosse così severi ed
esigenti nei confronti dei genitori naturali, quante famiglie si salverebbero?
In fin dei conti il falso riconoscimento è stato fatto per salvare una bambina
dalla morte per fame. È stata violata la legge dei codici, e non quella
dell'amore. Per punire degli adulti che hanno sbagliato, si è finito per
castigare una bambina innocente, strappandola alle persone alle quali si era
affezionata e facendola così soffrire ancora di più.
Ed ancora: questa coppia era già stata dichiarata
dai giudici idonea ad adottare un primo bambino straniero e l'aveva
regolarmente ottenuto, e dunque avrebbe potuto tranquillamente e degnamente
allevare anche Serena (quest'ultimo argomento è stato, forse, quello che ha
fatto più presa sulla gente e che è stato invocato per stigmatizzare anche
duramente la «disumanità» dei giudici, i quali - per una sorte di ripicca o di
puntiglio giuridico - avrebbero deciso di applicare la legge a tutti i costi,
senza tenere in alcuna considerazione l'innegabile rapporto affettivo ormai
stabilitosi tra la piccola ed i suoi «genitori adottivi»: sì vedano, ad
esempio, le considerazioni di Ferdinando Camon, di Natalia Ginzburg, di Gianni
Vattimo, di Gian Giacomo Migone, di Piera Piatti).
A ben guardare, quello che probabilmente ha pesato in
maggior misura sul piatto della bilancia è stato proprio il fatto che i
coniugi di Racconigi siano apparsi agli occhi del pubblico come una coppia con
tutte le carte in regola: dei buoni padri di famiglia, magari un po'
sprovveduti, ma con un cuore grosso così, disposti a compiere qualsiasi
sacrificio pur di soccorrere una piccola sfortunata. In fin dei conti a Serena
era stato assicurato proprio tutto: una bella casa con un altro fratellino, la
simpatia dei parenti, vicini e compaesani, persino il cane e la babysitter: né
si sarebbe certamente potuto sostenere - come era invece accaduto anni prima
ad una stimata famiglia torinese partita con le migliori intenzioni per
adottare una manciata di bambini del Terzo Mondo - che quella bambina fosse
stata sottoposta al benché minimo maltrattamento fisico (1).
La mozione degli affetti, insomma, ha funzionato in
pieno, unitamente al fatto che i protagonisti dello «scandalo», invece di
chiudersi con pudore nel silenzio e nell'anonimato («l'amore» - recita un poeta
poco ascoltato - «si esprime a voce bassa»), hanno scelto la strada opposta,
e cioè quella di enfatizzare al massimo la situazione, dando in pasto al
pubblico ogni loro emozione e passando al contrattacco con una lunga serie di
iniziative (e senza, tra l'altro, porsi il problema se, così facendo, quei due
piccoli - Serena e Nasario - non venissero ancora una volta «usati» come
degli strumenti per raggiungere il profitto dei grandi, anziché venir trattati
come esseri umani bisognosi di affetto e da preservare scrupolosamente da ogni
malsana curiosità e da ogni turbamento).
Tutto questo è bastato per conferire al «caso» una
risonanza senza precedenti e per renderlo talmente «popolare» da scatenare una
vera e propria gara di «solidarietà», al cui decollo ha contribuito in maniera
determinante l'invito rivolto l'11 marzo 1989 al Ministro di grazia e giustizia
- su sollecitazione del quotidiano «La Notte» di Milano - dal Presidente della
Repubblica (e subito diffuso sui giornali) affinché «il rispetto della legge possa avvenire in modo da non provocare traumi
nei minori e da non suscitare tanto negative ripercussioni nell'opinione
pubblica» e per promuovere «interventi
legislativi che possano, in situazioni del genere, in qualche modo evitare o
attutire le drammatiche conseguenze sulla vita dei minori».
L'invito, che costituiva una pesante ingerenza
sull'attività dei magistrati competenti (essendo, tra l'altro, intervenuto
subito dopo il provvedimento con il quale il Tribunale per i minorenni di
Torino aveva disposto l'allontanamento di Serena dalla famiglia Giubergia, e
durante le more del reclamo presso la Corte d'appello di quel distretto),
veniva prontamente accolto dal ministro, nonostante gli appelli inoltrati dai
presidenti dell'ANFAA (che aveva invitato tali autorità a valutare le gravi
conseguenze che si sarebbero prodotte infrangendo, attraverso ad una sorta di
«usucapione», il principio secondo cui l'adozione deve essere decisa
dall'autorità giudiziaria minorile e non dall'arbitrio dei privati) e del
C.I.A.I. (che aveva ricordato al presidente Cossiga come il suo dovere fosse
quello di essere vicino ai magistrati che agiscono per la difesa dei bambini
abbandonati, e non quello di correre dietro agli slanci emozionali di una coppia
e della pubblica opinione), e da allora non è passato giorno che il Ministro
non abbia rilasciato la sua brava intervista ai giornali, esponendo il suo
netto dissenso dalle decisioni dei giudici torinesi, colpevoli di aver
esercitato in maniera troppo rigorosa e formalista il loro «potere» e di aver
danneggiato gravemente l'interesse di un minore che avrebbe invece dovuto e
potuto essere altrimenti tutelato attraverso ad una più umana applicazione
della legge, venendo lasciato alla famiglia che l'aveva ottenuto sia pure con
la frode.
Il Ministro Vassalli non si è, poi, limitato ad
esternare questi suoi convincimenti, ma ha anche ricevuto (con ampia
pubblicità) i coniugi Giubergia, sebbene la procedura si trovasse ancora in
pieno corso di svolgimento davanti agli organi giudiziari, non facendosi quindi
scrupolo di commentare in termini altrettanto negativi il tenore delle
successive pronunce della magistratura e di dichiarare che la vicenda non poteva
dirsi ancora finita, restando secondo lui ai suddetti coniugi «altri tentativi»
da compiere e «altre vie» (ma quali?) da percorrere, ed arrivando anche a
dolersi che ad esaminare i ricorsi degli interessati fossero stati gli stessi
organi giudiziari e gli stessi magistrati.
Insomma, il Ministro di grazia e giustizia si è dato
carico di condurre per così dire un suo «processo parallelo», affiancandolo a
quello della magistratura, con tutto il prestigio e tutta l'autorevolezza
derivanti dalla sua alta carica di governo, e senza farsi condizionare da
quella importante regola di uno Stato di diritto secondo la quale un membro
del potere esecutivo dovrebbe astenersi da prese dì posizione che potrebbero
essere incompatibili con i suoi incarichi istituzionali (visto che, nella sua
qualità di ministro, potrebbe essere ad esempio chiamato ad intervenire nelle
sue delicate funzioni a pronunciarsi con distacco ed imparzialità in occasione
di eventuali interrogazioni e richieste di indagini parlamentari:
interrogazioni e richieste che, infatti, si sono puntualmente verificate e che
era fin da principio presumibile che si verificassero), tanto più che egli è
altresì uno dei titolari del diritto di promuovere azione disciplinare nei
confronti dei magistrati.
Questa sensibilità non è stata, avvertita dal
Ministro, il quale, criticato per questi motivi dalla Giunta della sezione
Piemonte-Valle d'Aosta della Associazione Nazionale Magistrati, non ha trovato
nulla di meglio che replicare qualificando tale organismo rappresentativo
ufficiale come un «circolo» dedito alla denigrazione della sua persona ed
accampando il propria diritto di interloquire alla pari di qualsiasi altro
privato cittadino. Lasciando da parte la problematicità di un simile
sdoppiamento, resta da osservare che il punto sul quale egli non ha forse
riflettuto è che con il suo atteggiamento egli ha contribuito in modo
tutt'altro che trascurabile ad innescare nell'opinione pubblica un rigurgito
di insofferenza e di intolleranza verso l'operato dei giudici: meccanismo
tanto più perverso in quanto esso si andava ad inserire in una «crociata» già
fortemente squilibrata contro il ruolo istituzionale dei giudici e che a sua
volta ha trovato ulteriore alimento nelle sue posizioni: un comportamento più
da «avvocato» che da ministro, e da avvocato che ha sposato una causa ben determinata,
quella che difende l'illegalità in nome del «fatto compiuto» e che fa una
bandiera dell'animosità contro il «potere» dei giudici.
È di questo astio, di questo dileggio della funzione
giudiziaria che ci dobbiamo preoccupare, perché è in questo clima che stanno
emergendo in un crescendo rossiniano i programmi più scomposti ed irrazionali:
basti citare la farneticante proposta di abolire la giustizia minorile e di
intervenire sui magistrati di Torino per richiamarli all'ordine (sen.
Amatucci), o quell'altra di ripristinare l'istituto fascista della affiliazione
e di introdurre l'adozione dei nascituri (on. Vizzini), o quell'altra ancora
di modificare l'attuale normativa sui minori con un «decreto-legge» ad hoc (sen. Graziani e Gallo).
A quest'ultimo proposito, è doveroso considerare che
l'auspicato «decreto legge» altro non sarebbe che l'affermazione secondo cui i
bambini ottenuti con falso riconoscimento dovrebbero (o potrebbero) essere
lasciati a coloro che siano riusciti a trattenerli per qualche tempo presso di
sé: il che equivarrebbe (ci si permetta il bisticcio di parole) a riconoscere giuridicamente i falsi
riconoscimenti: è, infatti, ben noto anche all'ultimo degli addetti ai
lavori che smascherare il falso riconoscimento è sempre un'impresa assai
impegnativa e che richiede in ogni caso del tempo. È stato osservato che
togliere Serena ai suoi «genitori adottivi» sarebbe stato umanamente
accettabile soltanto se vi si fosse provveduto immediatamente, non appena la
bambina era arrivata in Italia: ma rispettare questa esigenza era - si ripete -
praticamente impossibile, perché occorre pur sempre un minimo di accertamenti
per acquisire gli indizi di un falso riconoscimento, ed anche se nel caso
specifico ci si fosse avvalsi della facoltà di prendere nell'interesse del
minore i provvedimenti temporanei d'urgenza pure consentiti dai com.
binato disposto degli artt. 10 e 37 della legge 184, e cioè se si fosse «tolta»
assai più tempestivamente Serena ai suoi «genitori adottivi» (cosa che, ad
avviso di chi scrive, hanno forse sbagliato i giudici torinesi a non fare (2):
ma in maniera enormemente più erronea si sono comportati in un caso in parte
analogo i giudici del Tribunale per i minorenni di Napoli, i quali recentemente
hanno deciso che il minore ottenuto con un sospetto di riconoscimento deve restare
alla famiglia presso cui si trova fino all'esito del processo civile relativo
al disconoscimento della paternità, con ciò lasciando di fatto il minore a
quella famiglia per svariati anni e rendendo in pratica il «fatto compiuto»
pressocché inevitabile!), si sarebbe comunque dovuto far passare del tempo
prezioso. Ecco il guasto gravissimo arrecato dalla coppia di Racconigi con il
suo scriteriato comportamento!
Di fronte al desolante panorama di qualunquismo che
il « caso Serena » ha fatto emergere (frutto, da un lato, di una scarsa
conoscenza dei veri problemi sul tappeto e, dall'altro, della nostalgia per i
vecchi tempi in cui nessuno si sognava di attribuire ad un manipolo di giudici
il dovere di controllare il «diritto» degli adulti a disporre a loro piacimento
dei minori, o di considerare come reato la compravendita dei bambini), è da
accogliere con particolare compiacimento l'invito alla ragione formulato dal
Ministro per gli affari sociali, Russo Jervolino (una delle «madri» della legge
184), la quale ha fatto notare che per difendere davvero i diritti dei minori
occorre innanzi tutto rispettare la legge vigente, ponendo l'accento sulle
gravi inadempienze del governo, che a distanza di sei anni dall'approvazione della
legge sull'affidamento e sull'adozione dei minori non ha ancora ritenuto di
accogliere le raccomandazioni fatte dal legislatore di allora (si legga in
proposito la relazione della senatrice Tedesco Tatò) per ovviare ad uno dei
nodi principali delle adozioni internazionali (e cioè il ricorso celere a
convenzioni bilaterali tra l'Italia ed i Paesi di provenienza dei minori), così
come sono rimasti lettera morta i ripetuti incitamenti a porre mano ad un
serio controllo su quanti operano ai margini della legalità nello svolgimento
delle pratiche per l'adozione internazionale.
È di questi giorni la proiezione sugli schermi
televisivi di un toccante filmato che descrive al grande pubblico la tragedia
dei figli di persone incarcerate dalla dittatura militare argentina e dati in
adozione, e nel quale emerge il problema drammatico se sia giusto dare un
riconoscimento giuridico ai vincoli instauratisi tra quei bambini e quelle
famiglie adottive, e, pur tenendo conto della diversità di questi casi-limite rispetto
a quello dì Serena Cruz, quelle strazianti vicende possono forse aiutare tutti
noi a chiederci con maggiore profondità di quanto non si sia fatto finora se i
legami affettivi in cui i minori sono stati coinvolti dagli abusi e dalle
crudeltà degli adulti debbano davvero trovare una considerazione tale da farli
ritenere preminenti e prioritari rispetto a qualsiasi altro valore.
La «storia» di Serena non ci può poi esimere qui dal
ricordare con estrema preoccupazione come l'adozione internazionale abbia visto
gradualmente decadere in più di un'occasione la sua portata originaria - che
era o voleva essere la tensione a promuovere e realizzare nel quotidiano i
diritti dei minori a prescindere da ogni differenza di razza - in una specie di
«lasciapassare» o di «surrogato» per non poche famiglie, che si accontentano
di un bambino «di seconda categoria» pur di colmare le proprie esigenze e le
proprie aspettative. È su questa realtà inquietante che ci si deve oggi
confrontare con il massimo impegno, lasciando da parte tutte quelle polemiche
sterili ed approssimative a cui stiamo invece assistendo e che rischiano di
funzionare solamente come tribune pubblicitarie in cui ognuno si sforza di dire
la sua pur senza avere alcuna seria competenza in materia, facendo precipitare
i nodi dei bisogni infantili verso iniziative improvvide e squalificanti.
(1) «Sentenza di condanna per
maltrattamenti in famiglia» in Prospettive
assistenziali, n. 63, luglio-settembre 1983.
(2) Va però riconosciuto che i coniugi
Giubergia sono stati convocati dal Tribunale per i minorenni dopo appena 9
giorni dall'ingresso in Italia della bambina. Nonostante che fin da quel
momento siano state fatte presenti le gravi conseguenze per Serena che avrebbe
avuto il loro comportamento qualora fosse risultato contrario alla legge, i
coniugi Giubergia continuarono a sostenere che la bambina era nata a seguito
di una relazione del Giubergia.
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