UN
CASO DI ADOZIONE INTERNAZIONALE (*)
(Parte prima)
1. Entrare nel privato dei sentimenti e della
esperienza di vita delle persone è sempre un'operazione delicata.
Essa può trovare giustificazione solo in un contesto
di servizio per il bene sociale ed è proprio a tale scopo, che ci auguriamo
possa essere dedicato questo piccolo lavoro.
L'atteggiamento mentale di noi coppia nei confronti
dell'adozione si è formato sulla scia della problematica del cosiddetto
«controllo delle nascite» o, per meglio dire, della «paternità responsabile».
Per noi allora si trattava di farsi carico delle
situazioni in cui minore cultura nel gestire la coppia ed il numero dei figli
potevano creare zone di crisi familiare con danno per i minori.
Allora la forma dell'affido non era ancora una figura
giuridica, uno strumento sociale acquisito e pertanto istintivamente ci si
rifaceva ad un'idea di disponibilità bene espressa dal concetto «aggiungi un
posto a tavola».
Era una disponibilità legata indubbiamente alla
generosità, aveva rilevanza sociale, perché attenta alla dinamica dei nuclei
familiari ed alla loro capacità di gestire con efficacia la crescita armonica
dei minori, ma non maturava ancora in sé il concetto del diritto autonomo del
minore ad avere una famiglia.
In questa logica, seppur limitata, è stata dunque
impostata la problematica del crescere la famiglia aperta.
Apertura che doveva servire ad allevare i nostri
figli in un atteggiamento di disponibilità e possibilmente abituarli a non
essere eccessivamente possessivi dei loro affetti, troppo gelosi del loro
ambito familiare.
Così sono stati loro ad un certo punto a prendere
l'iniziativa ed a cominciare a chiedere se non si poteva pensare più concretamente
ad aprirsi all'adozione, a «fare le carte» per far posto ad un «altro».
Al nostro continuo interrogarci sulla genuinità di
tale atteggiamento, sul pericolo di avere plagiato i figli, sulla
preoccupazione di far violenza a delle persone non ancora capaci di prendere decisioni
equilibrate e responsabili, onestamente dobbiamo dire di avere risposto usando
sì razionalità, ma affidandoci anche alla nostra sensibilità di genitori.
Così il rapporto con l'équipe, delegata dal Tribunale
per i minorenni a verificare la nostra idoneità a genitori adottivi, è stato
vissuto non tanto come iter formale per superare un fatto burocratico previsto
dalla norma, ma soprattutto come strumento dì verifica della reale nostra
disponibilità.
Abbiamo soprattutto chiesto agli operatori che
cercassero di leggere noi ed i nostri figli, nei modi che la prassi
professionale meglio suggeriva loro, al fine di verificare separatamente da noi
la capacità dei bambini di integrarsi in modo autonomo nel progetto che si
andava delineando e tino a che punto tale capacità poteva essere utilizzata
allo scopo.
Risultata positiva l'idoneità ed essendo stati
orientati dallo stesso Tribunale verso l'adozione internazionale, abbiamo
incontrato il CIAI.
È stato il discorso intavolato con gli operatori di
questo ente ad aprirci ulteriormente e maturare in profondità il fatto
adottivo.
Dalla disponibilità ad adottare, lentamente siamo
passati all'accettazione dell'idea di farci adottare: abbiamo insomma
assimilato il concetto che il minore in stato di reale abbandono deve poter
scegliere il meglio per sé, mantenendo la propria autonomia e la propria
storia, senza necessariamente farsi fagocitare.
2. Questa scoperta ha modificato pure le aspettative
della famiglia verso «l'arrivo». Se inizialmente ognuno si era predisposto ad
attendere un certo bimbo ideale, a questo punto tutti hanno cercato di capire
per che tipo di bambino noi potevamo essere utili, che tipo di bambino avrebbe
potuto cercarci, quali le nostre migliori potenzialità.
Alla fine ci convincemmo che dovevamo aiutare i più
grandicelli e che potevamo accogliere positivamente un maschio o una femmina di
circa sei anni. Ciò avrebbe permesso di inserirlo tra noi come più piccolo, e
Francesca e Ludovico avrebbero potuto aiutarlo, tirando insieme la corda per
il più piccolo.
Ci pareva così di aver fatto un buon lavoro di
preparazione tutti insieme e che il compito al momento fosse quello di armarci
di santa pazienza ed alimentare la disponibilità, perché non venisse logorata
dall'attesa.
Ma quando fummo chiamati per una proposta d'incontro,
incappammo subito in un altro problema mai valutato: l'handicap.
Ci venne spiegato che c'erano ovviamente vari minori
adorabili sofferenti, con delle menomazioni fisiche: come ci pareva di poter
affrontare questa situazione?
Fu una problematica più per noi genitori, che per i
ragazzi e toccò a noi adulti valutare i limiti di capacità d'intervento, di
sensibilità e di resistenza fisica del nostro gruppo.
Ci considerammo comunque disponibili per una tale
situazione, ma ponemmo dei limiti alla gravità dei problemi da affrontare
(handicap leggero), ritenendoci fisicamente poco robusti a sostenere un
grosso impatto.
Ci affidammo comunque alla valutazione tecnica degli
esperti, perché valutassero loro il rapporto tra l'aiuto richiesto dalla
situazione e la robustezza della nostra pelle.
Sicuramente non era possibile dirsi disponibili e poi
negarsi ad una persona che entra improvvisamente nella tua vita tramite un
nome.
3. E fu proprio un nome che un giorno ci fu proposto,
«Anuradha», e con esso tutto un già vissuto di otto anni.
Ma di tale vissuto si sapeva poco o niente e le
notizie forzatamente si incrementavano con una lentezza esasperante: ...«è nata
a Bombay... frequenta la terza elementare... è in un istituto di questo
tipo... soffre di un disturbo ad un'anca... è probabilmente poliomielite ...».
Finalmente arriva una piccola foto, che i ragazzini divorano assieme a noi e
mettono al centro della casa.
Ed è una lunga e paziente gestazione fatta di tante
telefonate e di molte corse dietro i documenti mai sufficienti, terminate con
l'arrivo della sentenza di affido dell'Alta Corte indiana e successivamente
con il giorno in cui ci fu comunicata la data e l'ora di arrivo a Milano-Linate.
Questi furono i momenti più serenamente commoventi.
4. Quando poi a Milano il 26.4.1981 impattammo nel coraggio
e la dignità di questa figurina claudicante, che cercava disperatamente di camminare
eretta senza averne i mezzi e le forze, il mondo delle emozioni e
dell'affettività dovette combattere una grossa battaglia con la paura folle di
non saper rispettare e guidare un vissuto che si affidava a noi, ma in tutta la
sua autonomia ed orgoglio indifeso: ne saremo stati all'altezza?
Così ci fu un periodo iniziale in cui reciprocamente
ci squadrammo, amammo, rifiutammo ed imparammo lentamente a conoscerci.
La nostra vita ne fu sconquassata: soppresse tutte le
regole fisse e le abitudini consolidate, onde rendere più elastica la
convivenza e spingerla a costruire la giornata con noi, anziché adeguarsi
all'esistente per compiacerci; la casa piena di bigliettini su tutte le pareti
per annotare le parole in maharati-italiano; l'attenzione nel linguaggio, da
rendere semplice e ripetitivo senza mai sostituirlo con i gesti, per
accelerarle l'apprendimento della lingua e farla uscire dal tunnel del
«silenzio radio» in cui era entrata; l'organizzazione delle corvée per il suo
trasporto a spalle od in bicicletta, perché da sola non riusciva a reggersi per
il sottopeso e l'handicap.
Ma dopo due mesi riuscimmo tutti insieme a stabilire
delle soddisfacenti capacità di capirci, di muoverci, insomma di rapportarci.
In sei mesi i risultati furono tali, da permetterle
di entrare nella 1a elementare della scuola del quartiere a pieno
titolo, pur utilizzando un insegnante di sostegno per l'approfondimento della
lingua e soprattutto per allenare la mente al nuovo modo di elaborare pensiero
e sintassi nella sua nuova lingua, tanto lontana dal suo maharati.
E parimenti riuscì ad assimilare l'essenza ed il
ruolo di mamma, papà, fratelli, zii; figure ed affetti di cui mai aveva fatto
esperienza nel suo mondo di bambina.
Imparò a differenziarci dagli adulti genericamente
addetti alla sua custodia o dai coetanei già conosciuti e si impossessò di noi.
Dopo tanti incubi, fughe sotto i letti ed armadi,
silenzi lunghi un'eternità, Anuradha finalmente ci adottò, premiando la nostra
serena ed infaticabile disponibilità e di ciò gliene siamo tuttora grati.
Fu solo allora che potemmo dire che ci era nato un
terzo figlio.
5. Ed in tutto ciò fu determinante secondo noi la
presenza di Francesca-Paola e Ludovico.
Fu determinante il rapporto che essi seppero creare
con lei, filtrandole la realtà dei gesti quotidiani, condividendo e facendole
lentamente assaggiare la realtà figli-genitori, facendosi trovare puntuali e
potenti alleati sul terreno sconosciuto del mondo esterno, delle strade
viciniori del quartiere, della scuola, dei parenti.
I ragazzi, guidati da lontano, seppero autonomamente
inventare gesti, trovare soluzioni, sdrammatizzare situazioni con lucidità da
manuale e la leggerezza della spontaneità.
Compito nostro fu di vigilare perché non fossero
troppo spremuti, perché avessero per tempo valvole di sfogo nel loro privato ed
avessero abbastanza spensieratezza da non trasformarsi prematuramente da
ragazzi in adulti-bambini.
Permisero insomma ad Anuradha, ci pare almeno, di
assorbire la realtà e vivere questa sua esperienza in modo più progressivo, più
morbido, con meno tensione in un momento della vita già tanto teso e
stressante.
Arrivando quindi ad impadronirsi della realtà
familiare e locale per esperienza diretta dal di dentro, prima ancora che per
lettura razionale.
Ed è per questo aspetto della nostra esperienza, che
rimaniamo dell'idea che i minori in abbandono di età dai cinque ai dieci anni
debbano trovare non tanto una coppia adatta, quanto un nucleo familiare con le
caratteristiche ad essi peculiari, cioè con dei figli preparati a diventare
alleati affettuosi, critici, dinamici, pronti a scazzottarsi proprio come dei
signori fratelli
(segue)
LUCIO e BARBARA MONTAGNI
(*) Relazione tenuta al convegno «Il
bambino colorato» svoltosi a Castiglioncello il 21-22-23 aprile 1989.
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