Prospettive assistenziali, n. 86, aprile-giugno 1989

 

 

Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale

 

 

UN CASO DI ADOZIONE INTERNAZIONALE (*)

(Parte prima)

 

1. Entrare nel privato dei sentimenti e della esperienza di vita delle persone è sempre un'ope­razione delicata.

Essa può trovare giustificazione solo in un contesto di servizio per il bene sociale ed è pro­prio a tale scopo, che ci auguriamo possa essere dedicato questo piccolo lavoro.

L'atteggiamento mentale di noi coppia nei confronti dell'adozione si è formato sulla scia della problematica del cosiddetto «controllo delle nascite» o, per meglio dire, della «paternità responsabile».

Per noi allora si trattava di farsi carico delle situazioni in cui minore cultura nel gestire la cop­pia ed il numero dei figli potevano creare zone di crisi familiare con danno per i minori.

Allora la forma dell'affido non era ancora una figura giuridica, uno strumento sociale acquisito e pertanto istintivamente ci si rifaceva ad un'idea di disponibilità bene espressa dal concetto «ag­giungi un posto a tavola».

Era una disponibilità legata indubbiamente al­la generosità, aveva rilevanza sociale, perché at­tenta alla dinamica dei nuclei familiari ed alla loro capacità di gestire con efficacia la crescita armonica dei minori, ma non maturava ancora in sé il concetto del diritto autonomo del minore ad avere una famiglia.

In questa logica, seppur limitata, è stata dun­que impostata la problematica del crescere la famiglia aperta.

Apertura che doveva servire ad allevare i nostri figli in un atteggiamento di disponibilità e possi­bilmente abituarli a non essere eccessivamente possessivi dei loro affetti, troppo gelosi del loro ambito familiare.

Così sono stati loro ad un certo punto a pren­dere l'iniziativa ed a cominciare a chiedere se non si poteva pensare più concretamente ad aprir­si all'adozione, a «fare le carte» per far posto ad un «altro».

Al nostro continuo interrogarci sulla genuinità di tale atteggiamento, sul pericolo di avere plagia­to i figli, sulla preoccupazione di far violenza a delle persone non ancora capaci di prendere de­cisioni equilibrate e responsabili, onestamente dobbiamo dire di avere risposto usando sì razio­nalità, ma affidandoci anche alla nostra sensibili­tà di genitori.

Così il rapporto con l'équipe, delegata dal Tri­bunale per i minorenni a verificare la nostra ido­neità a genitori adottivi, è stato vissuto non tanto come iter formale per superare un fatto buro­cratico previsto dalla norma, ma soprattutto co­me strumento dì verifica della reale nostra dispo­nibilità.

Abbiamo soprattutto chiesto agli operatori che cercassero di leggere noi ed i nostri figli, nei mo­di che la prassi professionale meglio suggeriva loro, al fine di verificare separatamente da noi la capacità dei bambini di integrarsi in modo au­tonomo nel progetto che si andava delineando e tino a che punto tale capacità poteva essere uti­lizzata allo scopo.

Risultata positiva l'idoneità ed essendo stati orientati dallo stesso Tribunale verso l'adozione internazionale, abbiamo incontrato il CIAI.

È stato il discorso intavolato con gli operatori di questo ente ad aprirci ulteriormente e matu­rare in profondità il fatto adottivo.

Dalla disponibilità ad adottare, lentamente sia­mo passati all'accettazione dell'idea di farci adot­tare: abbiamo insomma assimilato il concetto che il minore in stato di reale abbandono deve poter scegliere il meglio per sé, mantenendo la propria autonomia e la propria storia, senza necessaria­mente farsi fagocitare.

2. Questa scoperta ha modificato pure le aspet­tative della famiglia verso «l'arrivo». Se inizial­mente ognuno si era predisposto ad attendere un certo bimbo ideale, a questo punto tutti hanno cercato di capire per che tipo di bambino noi po­tevamo essere utili, che tipo di bambino avrebbe potuto cercarci, quali le nostre migliori poten­zialità.

Alla fine ci convincemmo che dovevamo aiuta­re i più grandicelli e che potevamo accogliere positivamente un maschio o una femmina di circa sei anni. Ciò avrebbe permesso di inserirlo tra noi come più piccolo, e Francesca e Ludovico avrebbero potuto aiutarlo, tirando insieme la cor­da per il più piccolo.

Ci pareva così di aver fatto un buon lavoro di preparazione tutti insieme e che il compito al momento fosse quello di armarci di santa pazien­za ed alimentare la disponibilità, perché non ve­nisse logorata dall'attesa.

Ma quando fummo chiamati per una proposta d'incontro, incappammo subito in un altro pro­blema mai valutato: l'handicap.

Ci venne spiegato che c'erano ovviamente vari minori adorabili sofferenti, con delle menoma­zioni fisiche: come ci pareva di poter affrontare questa situazione?

Fu una problematica più per noi genitori, che per i ragazzi e toccò a noi adulti valutare i limiti di capacità d'intervento, di sensibilità e di resi­stenza fisica del nostro gruppo.

Ci considerammo comunque disponibili per una tale situazione, ma ponemmo dei limiti alla gra­vità dei problemi da affrontare (handicap legge­ro), ritenendoci fisicamente poco robusti a soste­nere un grosso impatto.

Ci affidammo comunque alla valutazione tecni­ca degli esperti, perché valutassero loro il rap­porto tra l'aiuto richiesto dalla situazione e la robustezza della nostra pelle.

Sicuramente non era possibile dirsi disponibili e poi negarsi ad una persona che entra improvvi­samente nella tua vita tramite un nome.

3. E fu proprio un nome che un giorno ci fu proposto, «Anuradha», e con esso tutto un già vissuto di otto anni.

Ma di tale vissuto si sapeva poco o niente e le notizie forzatamente si incrementavano con una lentezza esasperante: ...«è nata a Bombay... fre­quenta la terza elementare... è in un istituto di questo tipo... soffre di un disturbo ad un'anca... è probabilmente poliomielite ...». Finalmente arri­va una piccola foto, che i ragazzini divorano assie­me a noi e mettono al centro della casa.

Ed è una lunga e paziente gestazione fatta di tante telefonate e di molte corse dietro i docu­menti mai sufficienti, terminate con l'arrivo della sentenza di affido dell'Alta Corte indiana e suc­cessivamente con il giorno in cui ci fu comuni­cata la data e l'ora di arrivo a Milano-Linate.

Questi furono i momenti più serenamente com­moventi.

4. Quando poi a Milano il 26.4.1981 impattam­mo nel coraggio e la dignità di questa figurina claudicante, che cercava disperatamente di cam­minare eretta senza averne i mezzi e le forze, il mondo delle emozioni e dell'affettività dovette combattere una grossa battaglia con la paura folle di non saper rispettare e guidare un vissuto che si affidava a noi, ma in tutta la sua autonomia ed orgoglio indifeso: ne saremo stati all'altezza?

Così ci fu un periodo iniziale in cui reciproca­mente ci squadrammo, amammo, rifiutammo ed imparammo lentamente a conoscerci.

La nostra vita ne fu sconquassata: soppresse tutte le regole fisse e le abitudini consolidate, onde rendere più elastica la convivenza e spin­gerla a costruire la giornata con noi, anziché ade­guarsi all'esistente per compiacerci; la casa pie­na di bigliettini su tutte le pareti per annotare le parole in maharati-italiano; l'attenzione nel lin­guaggio, da rendere semplice e ripetitivo senza mai sostituirlo con i gesti, per accelerarle l'ap­prendimento della lingua e farla uscire dal tunnel del «silenzio radio» in cui era entrata; l'organiz­zazione delle corvée per il suo trasporto a spalle od in bicicletta, perché da sola non riusciva a reggersi per il sottopeso e l'handicap.

Ma dopo due mesi riuscimmo tutti insieme a stabilire delle soddisfacenti capacità di capirci, di muoverci, insomma di rapportarci.

In sei mesi i risultati furono tali, da permetter­le di entrare nella 1a elementare della scuola del quartiere a pieno titolo, pur utilizzando un inse­gnante di sostegno per l'approfondimento della lingua e soprattutto per allenare la mente al nuo­vo modo di elaborare pensiero e sintassi nella sua nuova lingua, tanto lontana dal suo maharati.

E parimenti riuscì ad assimilare l'essenza ed il ruolo di mamma, papà, fratelli, zii; figure ed affet­ti di cui mai aveva fatto esperienza nel suo mon­do di bambina.

Imparò a differenziarci dagli adulti generica­mente addetti alla sua custodia o dai coetanei già conosciuti e si impossessò di noi.

Dopo tanti incubi, fughe sotto i letti ed armadi, silenzi lunghi un'eternità, Anuradha finalmente ci adottò, premiando la nostra serena ed infatica­bile disponibilità e di ciò gliene siamo tuttora grati.

Fu solo allora che potemmo dire che ci era nato un terzo figlio.

5. Ed in tutto ciò fu determinante secondo noi la presenza di Francesca-Paola e Ludovico.

Fu determinante il rapporto che essi seppero creare con lei, filtrandole la realtà dei gesti quo­tidiani, condividendo e facendole lentamente as­saggiare la realtà figli-genitori, facendosi trovare puntuali e potenti alleati sul terreno sconosciuto del mondo esterno, delle strade viciniori del quar­tiere, della scuola, dei parenti.

I ragazzi, guidati da lontano, seppero autonomamente inventare gesti, trovare soluzioni, sdrammatizzare situazioni con lucidità da manua­le e la leggerezza della spontaneità.

Compito nostro fu di vigilare perché non fosse­ro troppo spremuti, perché avessero per tempo valvole di sfogo nel loro privato ed avessero ab­bastanza spensieratezza da non trasformarsi pre­maturamente da ragazzi in adulti-bambini.

Permisero insomma ad Anuradha, ci pare alme­no, di assorbire la realtà e vivere questa sua esperienza in modo più progressivo, più morbido, con meno tensione in un momento della vita già tanto teso e stressante.

Arrivando quindi ad impadronirsi della realtà familiare e locale per esperienza diretta dal di dentro, prima ancora che per lettura razionale.

Ed è per questo aspetto della nostra esperien­za, che rimaniamo dell'idea che i minori in abban­dono di età dai cinque ai dieci anni debbano tro­vare non tanto una coppia adatta, quanto un nucleo familiare con le caratteristiche ad essi peculiari, cioè con dei figli preparati a diventare alleati affettuosi, critici, dinamici, pronti a scaz­zottarsi proprio come dei signori fratelli

(segue)

 

LUCIO e BARBARA MONTAGNI

 

 

(*) Relazione tenuta al convegno «Il bambino colora­to» svoltosi a Castiglioncello il 21-22-23 aprile 1989.

 

 

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