Prospettive assistenziali, n. 86, aprile-giugno 1989

 

 

SENTENZA DELLA CORTE DI APPELLO DI TORINO SULLA VICENDA DI SERENA

 

 

La Corte di appello di Torino, Sezione speciale per i minorenni, letti il ricorso, gli atti ed il pare­re del Procuratore generale relativi alla minore Serena Cruz, nata a Manila il 20.5.1986; sentiti in camera di consiglio i difensori dei ricorrenti, che hanno illustrato le loro istanze, e il Procuratore generale, che ha chiesto la reiezione delle istanze stesse, osserva:

 

1. 1l «caso Giubergia». Giudici minorili e opinione pubblica

Il ricorso 11 aprile 1989 ripropone all'attenzione di questa Corte il «caso Giubergia». Un caso che ha suscitato polemiche accese e appassionate, sollevando molte proteste contro l'operato dei giudici minorili torinesi.

Per la verità, sarebbe inesatto parlar solo di proteste: anche se queste ultime sono state più clamorose, è dovere di obiettività rilevare che ai giudici minorili torinesi sono pervenute anche espressioni di consenso e di solidarietà per le lo­ro difficili scelte.

Si può ben dire che l'Italia si è spaccata in due; e tale spaccatura ha portato in primo piano, accanto al caso umano, i problemi legati alla legge 4 maggio 1983 n. 184.

Il dibattito e il confronto sono sempre una real­tà positiva. In questo caso, tuttavia, è emerso, dal tenore delle discussioni, che spesso coloro che esprimevano (a propria opinione non conoscevano il reale pensiero dei giudici, cioè non avevano letto la motivazione del loro provvedimento.

Certo, i provvedimenti dei giudici sono docu­menti di non agevole lettura, specialmente quando devono spiegare vicende assai complesse (co­me quella di Serena Cruz), per le quali non basta­no quattro righe né pochi minuti.

Tuttavia i giudici hanno sempre il dovere di spiegare il perché delle loro decisioni. E proprio per spiegare, essi avranno cura di riprendere dall'inizio il discorso, illustrando passo passo le tap­pe di questa penosissima vicenda e dando conto dei suoi sviluppi più recenti. Infatti il nuovo ricor­so dei Giubergia rimette in discussione molte questioni già esaminate in precedenza. E d'altron­de non si possono capire compiutamente le ul­time vicende se non si conoscono quelle prece­denti.

 

2. Falsi riconoscimenti di figlio naturale e traffici di bambini

All'inizio del gennaio 1988 il sig. Giubergia Francesco, di Racconigi, va a Manila e torna con una bimba di un anno e sette mesi: Serena Cruz. A Manila il Giubergia era già andato circa due anni prima con la moglie, perché la coppia, inten­dendo adottare un bambino filippino, aveva svolto le pratiche prescritte dalla legge per tale adozio­ne, e aveva legalmente introdotto nella propria famiglia un bimbo adottivo, Nasario. Questa volta, però, le cose non sembravano regolari, e il Tribu­nale per i minorenni di Torino ha subito notizia della non chiara presenza della bimba filippina a Racconigi.

I coniugi vengono subito convocati dal Tribuna­le per i minorenni per il 22 gennaio 1988, affinché chiariscano la presenza della bambina. La signora viene interrogata il 22; il marito - indisposto il 22 - viene interrogato il 29 gennaio. Entrambi dicono che la bimba è una figlia illegittima che il Giubergia ha avuto da una relazione extraconiu­gale con una donna filippina, certa Marlene Vito Cruz. Secondo i coniugi, la relazione avrebbe avu­to luogo quando il Giubergia si trovava a Manila con la moglie per le pratiche relative alla adozio­ne di Nasario, e il Giubergia avrebbe riconosciuto la bambina come figlia propria.

La storia è talmente squallida e inattendibile che, anziché convincere il Tribunale, ne aggrava i sospetti. Il Tribunale avverte i coniugi che, se le loro affermazioni risulteranno false, ciò avrà gravi conseguenze per loro e per la bambina. E immediatamente apre un fascicolo civile avente ad oggetto l'affidamento della bambina: affida­mento destinato a sfociare nell'inserimento di Serena in altra famiglia, qualora le dichiarazioni dei Giubergia risultassero false.

Bisogna infatti sapere che attraverso falsi ri­conoscimenti di paternità naturale si verifica, in Italia e nel mando, un vasto e lucroso traffico di bambini. Chi vuol ottenere un bambino senza pas­sare attraverso i controlli stabiliti dalla legge (controlli che sono previsti per difendere i bam­bini e per impedire la loro riduzione a merce di scambio, ad oggetti di mercato) si rivolge a me­diatori, o direttamente a una donna incinta dispo­sta a vendere il figlio; pagando quanto occorre, ottiene il possesso di un bambino, riconosce il bambino stesso come proprio figlio naturale, e il giaco è fatto.

I Tribunali per i minorenni sono molto attenti a questo fenomeno, perché in esso si gioca il de­stino di molti bambini. E la legge 4 maggio 1983 n. 184 contiene delle norme volte a combattere ì falsi riconoscimenti.

Ora, nel gennaio 1988 il Tribunale per i mino­renni di Torino ha appunto il sospetto che il Giu­bergia abbia compiuto un falso riconoscimento.

 

3. Ma perché rifiuta la prova del sangue?

Dunque, il 22 gennaio 1988 già si profila l'even­tualità dell'affidamento di Serena a un'altra fami­glia. Se i Giubergia (che conoscono la verità) met­tessero in primo piano il bene della bambina, di­rebbero subito come stanno le cose, e Serena (che è con loro da pochissimi giorni) verrebbe immediatamente inserita, senza traumi, in una famiglia affidataria disposta ad adottarla.

Ma i Giubergia insistono nella loro tesi. Il Tri­bunale per i minorenni dispone allora una perizia ematologica per accertare - nei limiti del possi­bile - attraverso l'analisi del sangue, se il Giu­bergia dice il vero o il falso.

Il Giubergia si sottrae con ogni mezzo alla pe­rizia e cerca in tutti i modi di guadagnare tempo. Eppure, se il Giubergia è davvero padre della bambina, perché rifiuta la prova del sangue, il cui esito non sarebbe certamente a suo svantag­gio?

Eccepire l'incompetenza funzionale del Tribu­nale per i minorenni a disporre la perizia emato­logica è, processualmente, un suo diritto: ma nel­la sostanza significa nascondersi dietro un dito. E poi: quando l'eccezione viene respinta e alla perizia è dato corso, perché non si presenta?

Le ripetute sottrazioni del Giubergia alla prova del sangue convincono il Tribunale per i minoren­ni che il Giubergia dice il falso, che non è padre della bambina, e che ha commesso una grave violazione della legge appropriandosi della bam­bina attraverso un falso riconoscimento. Il 7 no­vembre 1988 il Tribunale per i minorenni ordina l'allontanamento di Serena dalla famiglia Giuber­gia; e siccome ritiene urgente non prolungare la permanenza della bambina presso i Giubergia, di­chiara il provvedimento immediatamente esecu­tivo anche nel caso che i Giubergia propongano appello.

L'ordine di allontanamento dovrà, dunque, es­sere immediatamente eseguito. C'è una sola pos­sibilità per evitare ciò: che i Giubergia proponga­no appello e chiedano al Presidente della Corte di appello, Sezione per i minorenni, la sospensio­ne dell'esecuzione immediata, in attesa che la Corte si pronunci sull'appello.

I Giubergia propongono, appunto, appello e chiedono al Presidente della Corte di sospendere l'esecuzione immediata dell'ordine di allontana­mento.

 

4. 24 novembre 1988: sospendere o non sospendere? Il dramma di un Presidente

Il 24 novembre 1988 il Presidente di questa Cor­te vive una giornata drammatica. Sospendere o non sospendere? Non sospendere (e quindi allon­tanare subito la bambina) sembrerebbe la solu­zione più logica: eviterebbe di prolungare uno stato di fatto che ormai appare, con ogni proba­bilità, illegale e destinato a finire; eviterebbe, quindi, maggiori sofferenze future alla bambina, perché più la bambina resta presso i Giubergia, più soffrirà nell'allontanarsi. Il bene immediato della bambina consiglierebbe, dunque, l'allontana­mento subito, cioè l'immediata esecuzione del provvedimento del Tribunale per i minorenni.

Senonché i Giubergia ancora il 21 novembre (cioè tre giorni prima) hanno ripetuto ai giudici il loro racconto della relazione adulterina. E se quel che dicono fosse vero? Se fosse vero che il Giubergia è realmente il padre della bambina? Allontanare subito Serena, per poi restituirla do­po, non significherebbe infliggerle una sofferenza inutile?

Il Tribunale per i minorenni è già sicuro che i Giubergia dicono il falso. Ma la Corte non è an­cora sicura, perché c'è un appello appena propo­sto, sul quale la Corte stessa dovrà pronunciarsi. Lo Stato (e quindi il giudice, che dello Stato è un organo) deve partire dal presupposto che il citta­dino sia onesto e sincero, non dal presupposto che sia bugiardo, ingannatore, frodatore. E allora bisogna credere ai Giubergia finché non si è sicu­ri del contrario. Conseguentemente bisogna pro­cedere con estrema prudenza prima di allontana­re la bambina.

Così ragiona il Presidente. E tra le due possi­bili soluzioni sceglie quella che gli sembra met­tere in primo piano l'interesse attuale della bam­bina. Basta una possibilità su cento che Serena sia figlia del Giubergia per consigliare di andar cauti e di non far soffrire inutilmente la bambina.

Con decreto 24 novembre 1988 il Presidente di questa Corte sospende l'immediata esecuzione dell'ordine di allontanamento. Serena resterà an­cora presso i Giubergia, finché non sia fatta com­pleta chiarezza.

 

5. Strane sorprese

La Corte prende in esame l'appello dei Giuber­gia pochi giorni dopo, il 6 dicembre 1988. Nella documentazione prodotta dai Giubergia rileva al­cune stranezze. Da dove risulta l'asserita pater­nità naturale del Giubergia? Soltanto da un do­cumento filippino nel quale Marlene Vito Cruz (che afferma di essere madre di Serena) dice che Serena è figlia di Giubergia Francesco, il quale si trova all'estero al momento della registrazione.

Tutto qui? Ma la legge italiana non ammette che una donna possa, con dichiarazione unilate­rale, attribuire a un uomo (magari all'insaputa di lui) la paternità di un figlio. Quel documento filip­pino non può essere considerato valido per la legge italiana, la quale esige che il riconoscimen­to di un figlio naturale venga fatto dal padre con un atto formale, di cui la legge stessa precisa le caratteristiche.

E allora dov'è il riconoscimento fatto dal Giu­bergia? Se c'è, il Giubergia deve produrlo, cioè presentarlo ai giudici. È un suo preciso onere. E invece il Giubergia non lo produce. La questione potrebbe quindi ritenersi senz'altro chiusa a suo sfavore. Ma, proprio perché c'è di mezzo una bambina, la Corte si fa scrupolo di non fermarsi alla questione formale dell'onere di prova e deci­de di compiere essa stessa delle verifiche, cioè un accertamento «a tappeto» sugli atti di stato civile dei Giubergia, onde verificare se e come e dove risulti iscritto o trascritto un riconoscimen­to di paternità naturale del Giubergia nei confron­ti di Serena. Occorre infatti avere sicurezze asso­lute sui Giubergia prima di allontanare la bam­bina.

E le sicurezze arrivano. I documenti richiesti a vari comuni pervengono con una certa lentezza, ma contribuiscono a fare chiarezza. Di riconosci­mento di paternità non v'è traccia; e il Giubergia continua a basare la sua tesi solo ed esclusiva­mente sulla dichiarazione di Marlene Vito Cruz.

Nel ricorso 11 aprile 1989 il Giubergia si richia­ma all'art. 17 preleggi, sostenendo di aver fatto un riconoscimento valido per la legge filippina e quindi valido anche per la legge italiana (pag. 6 ricorso).

Ad avviso di questa Corte, tale tesi è contra­stata dall'art. 31 preleggi, secondo il quale in nes­sun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero possono aver effetto nel territorio dello Stato ita­liano quando siano contrari all'ordine pubblico. Ora, le norme italiane relative allo stato civile delle persone sono norme di ordine pubblico, data la loro importanza cardinale agli effetti dello «sta­tus» giuridico delle persone. E di ordine pubblico (inteso sia come ordine pubblico italiano, sia come ordine pubblico internazionale) è la norma­tiva riguardante il rapporto di filiazione, la qua­le stabilisce che per la validità del riconoscimen­to di un figlio naturale occorre un atto a forma vincolata che sia posto in essere dal padre e che riguardi direttamente il figlio naturale. Su ciò la legge italiana è, giustamente, ferrea e insupera­bile.

Non si tratta, allora, di attendere che un giudi­ce ordinario non minorile si pronunci sulla falsità o meno del riconoscimento Giubergia. Né si trat­ta di discutere sulla efficacia della prova del sangue o sulla necessità di esaminare anche il sangue della madre (pagg. 2-5 ricorso) o sulla indisponibilità dei diritti del padre (pag. 18 ricor­so). Tutto è superato dal fatto che qui un valido riconoscimento Giubergia non c'è. E tanto basta per dire che il Giubergia non è padre di Serena e che la presenza dì Serena in casa Giubergia è il­legale e lo è stata sin dall'inizio.

Ecco perché questa Corte, con provvedimento 31.1.1989, confermò il provvedimento emesso dal Tribunale per i minorenni il 7.11.1988.

 

6. Le sorprese aumentano. Il «caso Giubergia» si aggrava

Per evitare l'allontanamento, i Giubergia tenta­no allora la strada di un'istanza di adozione, o quantomeno di affidamento, della bambina. Il Tri­bunale per i minorenni respinge l'istanza con provvedimento 21.2.1989, non ravvisando, nel ca­so di specie, i presupposti per pronunciare una adozione o disporre un affidamento. Appello dei Giubergia. La Corte di appello conferma la decisione del Tribunale. È il 14 marzo 1989.

Subito dopo, il Tribunale per i minorenni - che aveva ritenuto opportuno soprassedere all'allon­tanamento in attesa dell'esito delle nuove istan­ze Giubergia - procede all'allontanamento della bambina.

L'emozione popolare sale di intensità. I «mass media» funzionano da enorme cassa di risonan­za (ma pochi di essi hanno cura di informare l'opi­nione pubblica sulle motivazioni dei giudici). An­che il mondo politico si muove. La mobilitazione è tale da dare la netta sensazione che, al di là del risvolti umani del caso e della comprensibile emozione di molti, si siano toccati dei grossi interessi. Taluni giudici, accanto a manifestazioni di consenso e a civili manifestazioni di dissenso, ricevono valanghe di insulti e altresì pesanti minacce.

Intanto le sorprese aumentano. Dagli atti (fasc. 256/89 R.V.G., f. 14) emerge l'ipotesi che la ma­dre di Serena sia soltanto una «presunta madre». Servizi giornalistici sembrerebbero avallare tale ipotesi, perché da essi parrebbe che Marlene Vito Cruz affermi di non avere mai avuto figli. Il mistero su come i Giubergia abbiano avuto la bambina si infittisce. Essi continuano ad essere estremamente reticenti in proposito. Il «caso» diventa gravissimo.

Il Tribunale per i minorenni richiede alla com­petente Autorità giudiziaria filippina di interro­gare Marlene Vito Cruz. Si apre così un nuovo capitolo della vicenda, dagli sviluppi imprevedi­bili.

Si moltiplicano le inchieste sul mercato dei minori; e l'opinione pubblica apprende cose allu­cinanti. Emerge, nella sua realtà, una vera e pro­pria piaga internazionale: il traffico di bambini. Quel traffico che la legge 4 maggio 1983 n. 184 mira a impedire e a combattere con norme e stru­menti, sia pur limitati e non perfetti.

 

7. Un allontanamento diventato, purtroppo, spettacolo

L'immaginario collettivo è stato colpito, oltre­ché dal fatto che una bimba sia stata tolta a una famiglia in cui viveva da 14 mesi, anche dalle modalità di allontanamento della bambina e dal fatto che la medesima abbia trascorso un periodo in comunità alloggio.

Per la verità, questa Corte nel provvedimento 14 marzo 1989 aveva avuto cura di invocare da tutti uno sforzo affinché la bambina vivesse l'ine­vitabile passaggio dalla famiglia Giubergia alla famiglia affidataria senza essere pubblicizzata, coinvolta in clamori, trasformata in simbolo.

Purtroppo l'invito non venne raccolto. Ché, an­zi, l'allontanamento venne trasformato in spetta­colo. L'immagine della bambina venne esibita con martellante insistenza; il suo allontanamento si svolse sotto gli obiettivi di telecamere e di mac­chine fotografiche; la caccia al luogo in cui era stata trasferita divenne frenetico.

In quelle condizioni, come sarebbe stato possi­bile realizzare un allontanamento morbido e gra­duale, quale era stato auspicato da questa Corte? Sotto l'occhio delle telecamere e degli altri mezzi di comunicazione sociale, nel clima di diffusa emotività, come sarebbe stato possibile attuare l'auspicio di «trovare, con l'ausilio degli operato­ri sociali e di tutti coloro che hanno a cuore il bene della bambina, modalità idonee a consenti­re, quanto più possibile, l'attenuazione di trau­mi»?

E ancora: a parte l'esigenza di una breve pausa per individuare, tra le coppie aspiranti all'adozio­ne, quella più idonea al caso concreto, come avrebbe potuto evitarsi la soluzione-ponte della comunità? L'inserimento immediato in una fami­glia avrebbe facilmente portato alla scoperta im­mediata di quella famiglia, la quale non avrebbe potuto uscire con la bambina senza essere imme­diatamente riconosciuta, braccata, pubblicizzata, criminalizzata.

Gli inserimenti di minori in famiglie affidatarie non sono fatti meccanici, traducibili in «notizia» e in «spettacolo»; sono eventi personali molto delicati, che richiedono un contesto intessuto di discrezione e di privatezza.

 

8.  Il nuovo ricorso dei Giubergia

Dopo l'allontanamento, i Giubergia hanno pre­sentato al Tribunale per i minorenni una nuova istanza di adozione o di affidamento, asserendo che la bambina era traumatizzata e chiedendone la restituzione. Una perizia di parte, svolta sulla base di osservazioni effettuate in casa Giubergia prima dell'allontanamento, formula conclusioni di «evidente psicopatologia», con caratteristiche ossessive e fobiche e con rischio di strutturarsi in maniera definitiva nell'ambito della psicopa­tologia.

Questo quadro, piuttosto pesante, non trove­rebbe riscontro - secondo il Tribunale per i mi­norenni - in ciò che è stato rilevato nel compor­tamento della bambina dagli specialisti (psicolo­ga e medico) che l'hanno osservata dopo l'allon­tanamento dalla famiglia Giubergia. Ciò fa nasce­re nel Tribunale il dubbio che la famiglia Giuber­gia non sia stata così terapeutica come il suo perito di parte la descrive. D'altra parte il Tribu­nale rileva che la bimba risulta socializzare con i coetanei, mostrare iniziativa nel gioco, rappor­tarsi adeguatamente agli adulti, dormire e alimen­tarsi normalmente. Il Tribunale respinge pertanto la nuova istanza.

I Giubergia ricorrono alla Corte, chiedendo la revoca di tale provvedimento del Tribunale, non­ché la revoca dei provvedimenti della Corte e, in ogni caso, la restituzione urgente della bambina. Il nuovo atto di appello ha quindi una duplice ve­ste: per un verso è un reclamo contro il provve­dimento 31.3.1939 del Tribunale per i minorenni; per l'altro verso è una istanza di revoca dei pre­cedenti provvedimenti di questa Corte.

Su taluni argomenti svolti nel ricorso-reclamo questa Corte si è già espressa nelle pagine pre­cedenti. In particolare, ha già ricordato che - a suo avviso - non esiste un valido riconoscimen­to da parte del Giubergia e che quindi il Giuber­gia non risulta essere padre naturale della bam­bina. Ha già detto che proprio la risultanza pre­detta rende superata ogni disquisizione sulla prova del sangue, sulla competenza a pronuncia­re in ordine alla falsità del riconoscimento, sui problemi relativi alla decadenza dalla potestà ge­nitoriale e alla revoca di tale decadenza.

Resta da esaminare l'argomento centrale del ricorso-reclamo: quello secondo cui i giudici, to­gliendo Serena alla famiglia Giubergia dopo 14 mesi, avrebbero «tradito lo spirito e l'insieme dei principi a cui si informa la legge 184/83»: avrebbero cioè «sacrificato il preminente inte­resse della minore a vantaggio di freddi schemi fissi e rigidi » (pag. 12 ricorso).

È la critica che anche una parte dell'opinione pubblica ha rivolto ai giudici minorili torinesi, e sulla quale occorre ora soffermarsi.

 

9. Giudici insensibili e disumani?

È facile pensare che i giudici abbiano preso freddamente le loro decisioni, sacrificando le ra­gioni del cuore a dei principi astratti, e calpestan­do le esigenze umane di Serena per dare una prova di forza e di arroganza.

In realtà, chi abbia avuto la pazienza di leggere fin qui si è certamente reso conto che questa vi­cenda è stata, per mesi, tormentosamente vissuta dai giudici che hanno dovuto occuparsene; e che i molti provvedimenti di cui questa vicenda è stata punteggiata, sia in primo grado che in gra­do d'appello, hanno impegnato a fondo i giudici nella ricerca della verità e, al tempo stesso, nella ricerca di ciò che potesse costituire, di momento in momento, la soluzione migliore per la bambina.

Alla luce di questa considerazione, che non sembra seriamente contestabile, sia consentito - nel dar conto del pensiero dei giudici di fronte alla obiezione predetta - far riferimento ad un punto di partenza che può apparire freddo e for­malistico, ma che costituisce un cardine essen­ziale nell'ordinamento costituzionale. I giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, 2° comma Costituzione). E devono applicare la leg­ge secondo coscienza, anche a costo di rischiare l'impopolarità. Infatti la legge, emanata dal Par­lamento, è espressione della sovranità popolare.

Quando i giudici avvertono che una legge è ingiusta, sollevano questione di legittimità costi­tuzionale, aprendo la possibilità che quella legge venga cancellata (e questa Corte lo ha fatto più di una volta). Ma quando i giudici sono convinti in coscienza che la legge è giusta, devono appli­carla con fedeltà, anche andando contro corrente.

Le sentenze e i provvedimenti giudiziari non possono essere frutto di emozione popolare, né tanto meno di pressioni o di minacce. E proprio per questo la Costituzione si preoccupa di ga­rantire i giudici contro pressioni e ricatti; proprio perché possano essere davvero indipendenti nel­le loro decisioni. L'indipendenza dei giudici è un valore importantissimo per tutta la collettività.

Ciò non significa che il giudice sia autorizzato ad arroccarsi in uno sprezzante isolamento. Anzi, siccome egli ha il compito, difficile e tremendo, di applicare la legge dello Stato, voluta dal Par­lamento in funzione del bene collettivo, il giudice deve essere un «servitore» del bene comune. Sa che talvolta l'applicazione della legge può pro­vocare sofferenze a persone innocenti. Sa che, in certe situazioni, qualunque decisione è criti­cabile, perché qualunque decisione presenta, ac­canto ad aspetti positivi, aspetti negativi. Sa di non avere il monopolio della verità e vive dram­maticamente le sue decisioni, specialmente in un caso come questo, che è un caso difficile per­ché coinvolge una bimba di tre anni, indifesa e incolpevole.

Il «nodo» che questa vicenda ha posto ai giu­dici è, a prima vista, quello del conflitto tra l'in­teresse della legge (tra «l'uomo» e «il sabato», secondo la vivida immagine evangelica).

 

10. I motivi di una decisione difficile

I giudici hanno affrontato il drammatico nodo ed hanno maturato la loro difficile decisione in base alle considerazioni seguenti.

A) Il conflitto non è soltanto tra la persona di Serena e l'applicazione della legge. Nella situa­zione attuale di diffuso traffico di bambini, il con­flitto si pone anche tra le persone di innumerevo­li bambini (esposte ad essere oggetto di merca­to) e la disapplicazione della legge.

Infatti la legge difende le persone di tutti i bam­bini. Rifiutando di tradire la legge e di «legaliz­zare» la frode ad essa, i giudici operano a servi­zio dell'interesse di tutti i bambini. Se tale rifiuto produce una sofferenza per Serena, quella soffe­renza non è conseguenza della applicazione della legge, bensì conseguenza della prolungata frode dei Giubergia.

I giudici hanno fatto tutto il possibile per evi­tare sofferenze alla bambina: hanno subito avvi­sato i Giubergia delle gravi conseguenze di una loro eventuale falsità; hanno sollecitamente di­sposto una perizia ematologica; hanno ordinato dopo pochi mesi l'allontanamento della bambina; hanno sospeso l'allontanamento solo perché i Giubergia hanno ribadito la loro tesi; hanno ese­guito l'allontanamento solo quando sono stati assolutamente sicuri che i Giubergia avevano frodato la legge emanata dal Parlamento a dife­sa dei bambini.

Una rapida definizione della vicenda nell'in­teresse della bambina è stata impedita solo ed esclusivamente dai Giubergia, sui quali ricade intera la responsabilità delle sofferenze della bambina (e di quelle di Nasario).

Con questo non si vuol dire che i Giubergia abbiano voluto quelle sofferenze: ché anzi, è fuori questione che essi, pur essendo in mala fede (cioè avendo consapevolezza di violare la legge), hanno agito con buone intenzioni (cioè a fin di bene). Si vuol dire soltanto che le con­seguenze negative di questa vicenda sono im­putabili esclusivamente al loro comportamento.

B) Il conflitto tra gli interessi di Serena e gli interessi della legge è, quindi, più apparente che reale.

Gli interessi di un minore vanno valutati in una prospettiva di tempi lunghi, e non soltanto alla stregua della immediata emozione di un al­lontanamento. Non di rado i provvedimenti rela­tivi ai minori provocano necessariamente disagi e traumi (nei bambini, come negli adulti); ma in prospettiva (una prospettiva che deve proiettar­si anche sulla pubertà e sull'adolescenza), ten­dono a realizzare il bene del minore.

Serena ha sviluppato rapporti affettivi con i Giubergia e con Nasario. Ha vissuto con loro poco più di un anno: un periodo che per un bam­bino è importante, ma non tale da condizionarne totalmente la vita. Il trauma della perdita di quelle figure di riferimento è un trauma reale, ma non va sopravvalutato. Infatti nel periodo tra­scorso coi Giubergia la bimba ha inevitabilmen­te captato e sofferto un clima non privo di ten­sioni, dovute all'inquietudine, all'insicurezza, all'ansia di perdere un possesso illegalmente ac­quisito.

La bimba ha avuto, in sostanza, un'esistenza ben diversa da quella che avrebbe avuto in una famiglia limpida, distesa, non inquinata dal tor­bido retroterra di un adulterio conclamato, riba­dito, confermato. Aspetto, quest'ultimo, tutt'al­tro che trascurabile, se si considera che quel torbido retroterra (qualora non fosse stato sma­scherato) avrebbe proiettato sullo stato civile di Serena, e quindi su tutta la sua vita, l'ombra, intimamente lacerante e socialmente non grati­ficante, di una nascita adulterina.

Potrà tacciarsi di pretenziosità il voler stabi­lire quale sia il bene di una bambina. Ma tutti i provvedimenti in materia minorile devono porsi in tale prospettiva. E d'altronde l'esercizio di innumerevoli professioni è intessuto di valuta­zioni e di prognosi: sempre suscettibili di criti­ca e sempre fallibili (dati i limiti dell'umano giu­dizio), ma doverose e indispensabili.

C) Oggi, di frante al nuovo ricorso-reclamo, gli sviluppi della situazione nel frattempo inter­venuti consentono di aggiungere una considera­zione. Di fatto la bimba non ha rivelato - come risulta dai giudizi peritali in atti - traumi pro­fondi e irreversibili. Nessuno vuol negare che la perdita delle figure di riferimento sia stata uno strappo, specialmente in una bambina che ave­va già alle spalle un'esperienza negativa. Ma è uno strappo che, con ogni probabilità (stando alle rilevazioni psicologiche), potrà essere rapi­damente riassorbito, se la bimba potrà vivere indisturbata (come ha diritto) la sua nuova espe­rienza: la quale - è opportuno ricordarlo - non è quella dell'orco o del lupo mannaro; è quella di una valida famiglia, nuova sì, ma con tutti i requisiti per dare immediatamente a Serena tut­to ciò di cui ha bisogno sul piano psicoaffettivo.

Si ricordi che le esigenze affettive di un bam­bino richiedono serenità, stabilità, sicurezza: cose che la bimba non ha potuto - per motivi di cui si è detto - sperimentare prima d'ora pienamente, e che oggi potrà sperimentare se tutti rispetteranno questo suo diritto. Tale espe­rienza potrà essere per lei un fattore decisivo di equilibrio, di gratificazione, di crescita armo­nica della personalità.

I giudici sono dunque convinti di non aver vio­lato lo spirito della legge n. 184/83. Sono con­vinti di aver agito nell'interesse di Serena, oltre ché nell'interesse di tutti gli altri bambini, cioè di aver operato come giudici per i minorenni. Ritengono pertanto di non poter accogliere le istanze dei ricorrenti, non ravvisando nel caso concreto (di cui si sono illustrati i gravissimi aspetti) spazi praticabili - alla stregua della legge vigente - per un provvedimento di adozio­ne o di affidamento come chiesto dai ricorrenti.

 

11. Torino e Napoli: due giustizie minorili diverse?

Nel ricorso 11 aprile 1989 la difesa dei Giu­bergia cita (pag. 24) - in asserita contrapposi­zione ai provvedimenti dei giudici minorili tori­nesi - il caso del minore Oreste Migliaccio, di cui la Corte di appello di Napoli, Sezione per i minorenni, revocò l'allontanamento dalla fami­glia in cui il minore si trovava, e ciò al fine di non causargli traumi. Dicono i ricorrenti: «Ve­dete? La Corte di Napoli ha dato la prevalenza all'interesse del minore; è stata ben più umana di voi!». Questa è la sostanza della loro argo­mentazione.

L'obiezione non è centrata. Questa Corte ha preso visione del testo integrale del provvedi­mento della Corte di Napoli ed ha verificato che quella Corte ritenne di non allontanare il bam­bino dalla famiglia dell'asserito padre, perché era in corso davanti al giudice ordinario un pro­cedimento per l'accertamento della falsità o me­no del riconoscimento. La Corte di Napoli disse che, siccome la falsità del riconoscimento era soltanto un'ipotesi, era opportuno rimandare l'allontanamento del bambino, allontanamento che avrebbe potuto essere attuato soltanto do­po che la falsità fosse stata accertata con sen­tenza passata in giudicato.

In altre parole: la Corte di Napoli ha ritenuto opportuno non allontanare il bambino perché non era ancora sicura della falsità del ricono­scimento.

Ora, la Corte di appello di Torino, nel caso Giubergia, ha proprio seguito un criterio analo­go: nel novembre scorso ha deciso di non to­gliere subito Serena ai Giubergia, e ciò perché il preminente interesse della minore richiedeva che essa non fosse allontanata prima di essere ben sicuri che il Giubergia diceva il falso. Quan­do la Corte di Torino ha accertato che non esi­steva un valido riconoscimento ed è stata quindi sicura che il Giubergia non era padre della bam­bina, si è proceduto all'allontanamento di Se­rena: e vi si è proceduto con rapidità proprio nel preminente interesse della minore, perché ogni ulteriore permanenza della bimba nel nu­cleo Giubergia avrebbe aggravato il trauma del distacco.

Non si vede, dunque, perché il provvedimen­to della Corte di Napoli venga invocato per contestare l’operato dei giudici torinesi. Torino e Napoli non sono, in questo caso, espressione di due giustizie minorili diverse: rivelano, inve­ce - pur in situazioni differenziate (a Napoli, esistenza di un riconoscimento sospettato di falsità; a Torino, inesistenza di un valido rico­noscimento) - una piena consonanza ed un comune rispetto per il preminente interesse del minore.

 

12. Giudici rapidi con Serena e lenti con la delinquenza?

È stato anche detto che i giudici sano stati rapidissimi e intransigenti nel caso di Serena, mentre sono lentissimi e indulgenti nei proces­si penali, nei quali scarcerano migliaia di impu­tati di reati anche gravi. L'esistenza di «due giustizie» è anche adombrata nel ricorso (p. 5).

Purtroppo nel «caso Giubergia» i giudici mi­norili non sono stati affatto rapidi. La frode dei Giubergia è stata così ostinata che sono occorsi alcuni mesi per smontarla e per fare chiarezza. E - come si è detto - proprio perché c'era di mezzo una bambina i giudici hanno proceduto coi piedi di piombo, attuando l'allontanamento solo quando sono stati pienamente sicuri della frode. Non hanno potuto essere più rapidi perché hanno dovuto rispettare il diritto dei Giubergia di essere considerati veritieri finché non fosse provato che dicevano il falso.

Oggi i Giubergia dicono nel ricorso (pag. 13): «Dovevate allontanare subito la bambina, in at­tesa di fare chiarezza». È paradossale: si rim­provera ai giudici di Torino ciò che si loda nei giudici di Napoli, cioè di aver proceduto con molta cautela per non causare alla bambina inu­tili traumi. E poi, con singolare contraddizione, ci si lamenta (pag. 24) che una volta fatta chia­rezza si sia proceduto con rapidità, inserendo, il più presto possibile, la bambina in una fami­glia affidataria.

Dunque, i giudici minorili hanno cercato di essere rapidi, nei limiti di ciò che loro consen­tiva il comportamento dei Giubergia.

Normalmente, è vero che i giudici minorili sono più rapidi di altri rami della giustizia, per­ché la giustizia minorile ha organici adeguati al carico di lavoro.

La giustizia penale, invece, va più lenta; ed è vero che ci sono migliaia di scarcerazioni per decorrenza di termini. È giusto criticare la len­tezza della giustizia penale.

Tuttavia la gente non sa quale enorme spro­porzione vi sia oggi tra il numero dei giudici pe­nali e il numero dei processi penali pendenti.

La gente non sa che in Piemonte e Valle d'Ao­sta c'è un magistrato ogni 86.000 abitanti, e che a Torino la 2a Sezione penale delta Corte di ap­pello (tanto per fare un esempio concreto) è for­mata da sette giudici, i quali devono far fronte a 4.000 (dicesi: quattromila) processi penali, al­cuni dei quali con 30, 70, 100 imputati.

La gente non sa che da anni la Corte di appel­lo di Torino invia a Roma frequenti e sfortunati «S.O.S.», chiedendo disperatamente il raddoppio degli organici al fine di riequilibrare un rapporto giudici-processi che è oggi disastroso e invi­vibile.

Hanno ragione coloro che vorrebbero una giustizia penale più rapida. Ma la giustizia pe­nale non sarà più rapida se non quando le sue strutture verranno adeguate alla quantità e alla mole dei processi penali.

 

13. Un auspicio per Serena

Il discorso si è andato allargando, sul filo di un dibattito sviluppatosi in questi mesi sul «ca­so Giubergia» e ripreso, in talune sue linee, nel ricorso presentato dai Giubergia l'11 aprile '89. Ma ara va concluso tornando su Serena. E per Serena ritiene questa Corte di formulare un au­spicio. Le decisioni del giudice potranno essere condivise o no. Ma se si ha realmente a cuore il bene della bambina, è indispensabile rispetta­re Serena nella sua nuova dimensione di vita.

Notizie recenti e aggiornate, confermate dall'osservazione psicologica, documentano che la bimba, inserita nella nuova famiglia, si sta rapi­damente ambientando e sta costruendo un rap­porto, delicato e fondamentale, con la coppia che - con innegabile coraggio ed abnegazione - l'ha accolta e con gli altri componenti la fa­miglia.

Si rispetti, da parte di tutti, il diritto di Sere­na alla riservatezza, il suo diritto a vivere indi­sturbata, il suo diritto ad essere una bambina come le altre. Questo rispetto potrà essere un nuovo modo di voler bene a Serena.

È augurabile che tutto quanto di positivo c'è nel grande potenziale di solidarietà che questo «caso» ha suscitato riesca ad esprimersi in quella nuova direzione e possa tradursi altresì in una viva sensibilizzazione ai problemi del mondo minorile e in un concreto impegno nel campo delle adozioni, degli affidamenti, del di­sagio giovanile.

P.Q.M.

 

La Corte respinge le istanze di cui al ricorso-­reclamo Giubergia 11 aprile 1989.

 

Torino, 18 aprile 1989

Il Presidente estensore

Rodolfo Venditti

 

www.fondazionepromozionesociale.it