Prospettive assistenziali, n. 87, luglio-settembre
1989
CRONICITA’, LUNGODEGENZA, RIABILITAZIONE ALLA LUCE DELLA LEGGE 595/1985 E DEL DECRETO 13 SETTEMBRE 1988
Il gruppo informale che ha redatto i documenti «Diritti
ed esigenze delle persone gravemente non autosufficienti» (1), «Criteri guida
per gli interventi sanitari relativi alle persone gravemente non
autosufficienti e indicazioni in merito agli interventi domiciliari, semiresidenziali,
residenziali» (2) e «I 140.000 posti letto della legge finanziaria 1988:
emarginazione dei più deboli o rispetto dei loro diritti?» (3), ha esaminato il
testo del decreto ministeriale del 13 settembre 1988 concernente la
definizione degli standards ospedalieri, in particolare l'art. 3, punti E ed
F, relativi rispettivamente alla definizione delle funzioni di «riabilitazione»
e «lungodegenza», ed ha riesaminato, in riferimento a questo decreto, la legge
di programmazione sanitaria n. 595 del 1985.
A
questo proposito il gruppo propone le osservazioni che seguono.
La legge 595 del 23 ottobre 1985 fissa il numero
ottimale di posti letto in 6,5 per mille abitanti, ove i posti letto
convenzionati con l'ospedalità privata vengono contati solo per metà.
All'interno di questa dotazione si prevede che un
posto letto per mille abitanti sia dedicato alla «riabilitazione», il cui contenuto
di lungodegenza è desumibile dalla legge stessa che prevede «sezioni di
degenza per la riabilitazione di malati lungodegenti ad alto rischio di
invalidità» (art. 10, punto 6, lettera a).
È chiaro a tutti che il legislatore non intendeva
dedicare alla specialità di «rieducazione funzionale» un numero così
consistente di posti letto. Traducendo il rapporto 1:6,5 risulta infatti che deve
essere dedicato alla riabilitazione-lungodegenza il 15% del totale dei posti
letto.
Questa percentuale non sembri esagerata in quanto già
raggiunta e superata in molti paesi industrializzati, ove l'invecchiamento
della popolazione, l'aumento della patologia cronico-degenerativa e la
maggiore sopravvivenza dei malati sono del tutto comparabili a quelli italiani.
L'osservanza della normativa di cui sopra costituirebbe
una autentica rivoluzione, soprattutto se attuata all'interna dei nostri
ospedali pubblici, che di fatto hanno progressivamente espulso questo tipo di
malati, che esigono un forte impegno di infermieri e riabilitatori (categorie
di cui si avverte una grave carenza) e che non danno sufficienti gratificazioni
a chi pretende che l'intervento sanitario guarisca il malato: qui si tratta
infatti di porsi obiettivi più «modesti», che consistono ad esempio nel
mettere in atto tutte le tecniche di riabilitazione al fine di arrestare o ritardare
il processo degenerativo, nell'applicare una corretta terapia del dolore, nel
dar corso ad una medicina spesso meno tecnicizzata ma più umanizzata, ove il
rapporto interpersonale tra curante e curato può essere più intenso (e quindi
anche psicologicamente più difficile a sostenersi da parte dell'operatore).
In alcune zone, ad esempio a Roma, le USL hanno
delegato la cura di questi pazienti alla ospedalità privata, col risultato di
poter portare il numero di posti letto disponibili a due per mille, dato che
la legge di programmazione sanitaria consente il computo per metà dei letti
convenzionati.
L'ospedalità privata ha convenienza a specializzarsi
su questi pazienti, dato che riceve dal Servizio sanitario nazionale un
pagamento fisso per ogni giornata di degenza di poco superiore alle centomila
lire, con le quali si può coprire il costo di un lungodegente molto più
facilmente di quanto non avvenga con i malati acuti, che normalmente
comportano costi per giornata maggiori.
D'altra parte l'esperienza insegna che l'ospedale
privato mostra maggiore elasticità di quello pubblico su quegli aspetti che
sono più importanti per i lungodegenti, come la facilità di accesso dei
parenti, il confort ambientale e il vitto.
Al riguardo si ricorda che non esiste alcuna
legittima possibilità di limitare a priori la degenza convenzionata.
Il decreto ministeriale del 13 settembre 1988 sulla «Determinazione
degli standards del personale ospedaliero», dal canto suo, definisce più
esplicitamente i posti letto di cui alla legge 595/85, chiamandoli
«riabilitazione» e «lungodegenza» ed operando una netta divisione fra i posti
letta per acuti e quelli per lungodegenti.
Si può accettare la distinzione, a fini organizzativi,
fra pasti letto per trattamenti acuti e posti letto per trattamenti in
lungodegenza, mentre, come più oltre si cercherà di dimostrare, non si può
operare una divisione fra pazienti acuti e pazienti cronici.
Il decreto recepisce, da una parte, l'unicità dell'intervento
geriatrico nel paziente in fase acuta (diagnosi, cura, riabilitazione) e
stabilisce che:
- la riabilitazione sia suddivisa in «intensiva»,
come nel caso dei paraplegici, medullolesi etc. ed «estensiva», come nel caso
di «trattamenti protratti post-acuzie e
trattamento di prevenzione di aggravamenti possibili in disabili stabilizzati e
simili»;
- la lungodegenza sia rivolta a due categorie di
degenti: quelli che hanno necessità dell'intervento «limitatamente alla fase di convalescenza, di primo trattamento di
rieducazione funzionale o di fase terminale» e per essi prevede precisi
standard di personale (punto (F.1); quelli «con
forme croniche stabilizzate, o anziani ultrasessantacinquenni abbisognevoli di
trattamenti protratti di conservazione, che sono impropriamente ricoverati in
strutture per acuti a causa della carenza di residenze sanitarie assistenziali
extraospedaliere o dell'insufficiente approntamento di forme alternative di
spedalizzazione domiciliare o di assistenza domiciliare integrata» (punto
(F.2).
Si
nota a questo riguardo che
- vengono citate come alternative all'ospedalizzazione
le «residenze sanitarie assistenziali»,
di competenza sanitaria (di cui non vengono tuttavia definite le caratteristiche);
questa disposizione garantisce a coloro che sono affetti da malattie
cronico-degenerative lo status di
malati (con le relative garanzie di tutela sanitaria e di gratuità della cura),
indipendentemente dalla istituzione che li ospita;
- si mette in atto un tentativo, non certo convincente,
di suddividere i malati in due diverse categorie.
Questa
ultima osservazione induce ad alcune considerazioni:
- si assiste ad una fuorviante contrapposizione tra
malattia acuta e malattia cronica, come se i dati epidemiologici a disposizione
(la malattia acuta è sempre più spesso una malattia cronica riacutizzata) non
avessero alcuna capacità di critico suggerimento;
- si ignora altresì che, così come esiste una
continuità tra manifestazioni acute e croniche, deve esistere una continuità
dell'intervento terapeutico che può realizzarsi di volta in volta nelle sedi
più idonee, intraospedaliere ed extraospedaliere.
Ciò che in ogni caso non si comprende è perché
quando si parla di malati in genere si usa il termine di «riabilitazione» e
quando si parla di malati cronici e ultrasessantacinquenni si parla di
«conservazione». Non esistono malati da riabilitare e malati solo da
conservare.
Esistono malati che hanno perduto delle funzioni e
che necessitano di programmi per il possibile recupero delle stesse. Alcuni
malati più fortunati possono richiedere dei programmi di riabilitazione a termine
(che tendono ad una risoluzione completa o comunque soddisfacente del
problema).
Purtroppo, poi, esistono molti malati, soprattutto
anziani, che non guariscono e non recuperano integralmente le funzioni
perdute. Per loro sono necessari programmi
a lungo termine (programmi aperti) in cui verranno sviluppati i vari
aspetti della riabilitazione (stimolazione sensoriale, riabilitazione
protesica, fisiochinesiterapia, stimolazione mentale, ergoterapia, ecc.).
Questi programmi aperti, a seconda delle difficoltà
applicative, della intensività, del particolare stato del paziente, potranno
trovare attuazione sia all'interno dell'ospedale che all'esterno, in una
continuità terapeutica e riabilitativa irrinunciabile.
Non esiste, se non idealmente, un momento di ferma
stabilizzazione della malattia cronica inteso come risultato definitivo.
La
malattia cronica è di per sé evolutiva o primitivamente o nelle complicanze.
La stabilizzazione, qualora esista, è sempre,
comunque nella grandissima parte dei casi, un risultato conseguente ad un
attivo intervento di riabilitazione.
Un malato cronico non autosufficiente, privato di specifici
programmi per la sua riabilitazione e assistenza, precipita inevitabilmente
verso ulteriori inabilità e complicanze (ipocinesia, piaghe).
Da queste considerazioni risulta chiaramente che la
«conservazione» che il legislatore propone è auspicabile debba essere intesa
come «riabilitazione».
Sola in questo modo, anche se non è accettabile la
terminologia usata, può essere evitata la discriminazione che conduce un 64enne
alla «riabilitazione» e un 65enne alla «conservazione».
L'unica distinzione possibile è, eventualmente,
quella fra programmi a breve termine e "programmi a lungo termine, la cui
necessità e attuabilità sarà il risultato di una specifica valutazione geriatrica.
È proprio in questo preciso momento di rilancio e
programmazione che trova la sua ragione d'essere l'unità valutativa geriatrica.
Nella gran parte dei casi, infatti, il programma
riabilitativo per malati cronici non autosufficienti è un programma
continuativo; le situazioni sociali ed ambientali dovranno essere soppesate in
modo tale da rendere concretamente attuabile il programma di recupero e la
prevenzione delle ricadute (soluzione a domicilio, soluzione in residenza
sanitaria extraospedaliera, soluzione ospedaliera a 'tempo parziale; ecc.).
Per quanto riguarda ancora, specificamente, la
funzione di «lungodegenza» il decreto prevede che essa possa essere esercitata
in posti letto aggregati alle unità operative normali, ad esempio di medicina
o geriatria (la quale diventa una unità operativa per acuti) oppure in apposite
unità operative, diventando reparti «dedicati» sotto la direzione di un
responsabile e della direzione sanitaria ospedaliera. Tali reparti devono
garantire la socializzazione e la migliore qualità di vita dei pazienti, con
personale apposito e con l'apporto delle famiglie e del volontariato.
Per 32 posti letto di unità operativa di lungodegenza
(il modulo tipo) si prevedono 3 medici, 13 infermieri, 4 riabilitatori,
personale per la socializzazione e 8 ausiliari (art. 4 lettera E). Il decreto
contempla la possibilità di accostare più moduli senza considerare i rischi
della megaistituzione, e l'invio da parte della funzione «riabilitazione» di
proprio personale nelle altre unità operative, così come prevede esplicitamente
la formula del «dipartimento interdisciplinare» (lettera E).
Nella funzione di lungodegenza vengono ricompresi
anche i malati trattenuti ad esaurimento nelle ex istituzioni manicomiali
(circa 28.000 persone). Questa inclusione, tuttavia, non viene a incidere
sulla disponibilità di posti letto; infatti la legge 595/85, senza considerare
i problemi psichiatrici, stabilisce per la riabilitazione-lungodegenza un
posto letto pubblico ogni mille abitanti; il decreto ribadisce tale standard
escludendo dal computo i «residui psichiatrici» (art. 1 punto 3).
Il decreto, che si dichiara come anticipazione del
piano sanitario nazionale, include, inoltre, fra le priorità; l'assistenza agli
anziani non autosufficienti e ai disabili, incentivando l'assistenza domiciliare
e semi-istituzionale (day hospital,
centri non ospedalieri).
A fronte di questa normativa, la prima Regione che ha
deliberato una direttiva alle USL è l'EmiliaRomagna, ove il Consiglio
regionale ha approvato il 29 settembre 1988 una disponibilità per lungodegenti
pari a tre posti letto per 100 posti letto acuti (un sesto della previsione
della legge 595/ 1985, ribadita dal recente decreto). Tali posti letto sono
previsti in apposite sale aggregate alle divisioni mediche, geriatriche,
pneumologiche, oncologiche ecc., non chirurgiche, in ambienti dotati di
maggiore confort e maggiore accessibilità da parte dei parenti e dei volontari.
La maggiore critica può essere rivolta alla previsione
quantitativa, gravemente insufficiente di per sé, ed aggravata per di più sia
in relazione alle esigenze di una popolazione già anziana ed in rapido processo
di invecchiamento, come quella emiliano-romagnola, sia in relazione alla carenza
di strutture alternative all'ospedalizzazione disponibili per non
autosufficienti.
Emergano all'atto pratico le carenze del decreto
ministeriale che non fissa gli standard di personale per la funzione di
lungodegenza definita «impropria» e neppure quelli delle residenze assistenziali.
Tali omissioni sembrano dovute al fatto che la stessa distinzione tra le
funzioni di lungodegenza è stata introdotta successivamente alla prima
stesura del decreto.
Per garantire standard adeguati si rende necessario
definire la tipologia degli utenti che, per quanto sopra esposto, non può
avvenire sulla base del compimento anagrafico dei 65 anni e neppure sulla base
della carenza «de facto» di servizi alternativi alla ospedalizzazione come la
spedalizzazione domiciliare, l'ospedale diurno, ecc., carenza che costringe
molti malati ad abbandonare il loro domicilio contro la volontà loro e quella
dei loro familiari.
Da
quanto detto possono essere tratte alcune considerazioni conclusive:
- esistono insuperabili perplessità sulla funzione
di lungodegenza, in cui confluiscono non tanto delle funzioni operative precise
(terapia di lungodegenza? specialità di lungodegenza? paziente malato di
lungodegenza?) ma piuttosto, unicamente, dei tratti temporali di presenza in
reparto;
- esistono insuperabili perplessità su quale debba
essere la specifica professionalità di chi debba assistere, contemporaneamente,
un malato «per il primo trattamento di rieducazione funzionale» e un malato
«in fase terminale», trattandosi di una casistica agli opposti antipodi;
- si prevede l'ingenerarsi di comportamenti tesi al
disimpegno verso i pazienti lungodegenti. Infatti se la lungodegenza diverrà
una apposita «unità operativa polifunzionale» con degenti provenienti dai più
diversi reparti (ortopedia, oncologia, neurologia), tali reparti, preoccupati
prevalentemente dall'intervento sul problema acuto e non sul problema cronico
preesistente, troveranno facile soluzione ad eventuali dimenticanze su
problemi «minori» (cadute, piaghe da decubito mortali, invalidità totale dopo
immobilizzazione, etc.) con il possibile e autorizzato affidamento del «caso»
ad altri, nella fattispecie al reparto di « lungodegenza».
Occorre, ad evitare tutto ciò:
- definire precisamente le competenze dei diversi
reparti e definire a chi competa la valutazione della casistica eventualmente
oggetto di trasferimento;
- programmare uno scenario completo del sistema di
cura ottimale per tutti i malati, acuti, convalescenti, cronici non
autosufficienti e terminali che preveda tipologie e standard per i diversi
servizi;
- eliminare qualunque discriminazione di età e di
forme di partecipazione alla spesa da parte dell'assistito.
Va sottolineato, inoltre, che le Regioni potranno
autonomamente scegliere fra «moduli» omogenei di 32 pasti letto, oppure sale
di degenza aggregate alle divisioni esistenti e dotate di maggiore confort,
purché venga rispettata la quantità di posti letto prevista alla funzione
«riabilitazione-lungodegenza» dalla legge 595/85.
È chiaro che anche i 140.000 posti letto previsti
dalla legge finanziaria del 1988 dovranno armonizzarsi con le indicazioni
precedenti, anche per quanto riguarda gli aspetti qualitativi e quantitativi
del personale e delle strutture.
(1) Cfr. Prospettive
assistenziali, n. 75, lugliosettembre 1986.
(2) Ibidem, n. 79,
luglio-settembre 1987.
(3) Ibidem, n. 82,
aprile-giugno 1988.
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