Prospettive assistenziali, n. 87, luglio-settembre 1989

 

 

GLI ENTI PUBBLICI NON POSSONO PRETENDERE CONTRIBUTI ECONOMICI DAI PARENTI TENUTI AGLI ALIMENTI DI PERSONE ASSISTITE

MASSIMO DOGLIOTTI (*)

 

 

Da tempo è invalsa la prassi degli enti pubblici erogatori di assistenza di richiedere un contribu­to per l'assistito (spesso anche piuttosto cospi­cuo) ai parenti «tenuti agli alimenti». E si tenta di giustificare tale comportamento sostenendo che il presupposto della prestazione assistenzia­le è l'inabilità a qualsiasi proficuo lavoro e «la mancanza di mezzi di assistenza o l'assenza di parenti tenuti agli alimenti e in condizioni di po­terli prestare».

Su tali basi l'ente locale svolge, tramite i ser­vizi sociali, indagini ampie sull'esistenza di pa­renti e sulle loro possibilità economiche e, una volta raggiunti, li invita a pagare un contributo, spesso ottenendo il loro assenso, con la minac­cia, neppure tanto velata, di non accogliere l'assi­stito in istituto o magari di dimetterlo, se già si trova ricoverato.

In realtà, già il presupposto teorico, che vor­rebbe giustificare tale prassi, appare illegittimo. L'art. 38 della Costituzione precisa che ogni cit­tadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi ne­cessari di sussistenza ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. Nessun riferimento vie­ne fatto all'obbligo alimentare dei parenti (e del resto la nozione di famiglia che emerge dalla Car­ta costituzionale (art. 29-30 e 31) sembra piutto­sto quella di famiglia nucleare, limitata al rappor­to coniugale e di filiazione).

È vero che il codice civile (legge che regola - è il caso di sottolinearlo - le relazioni tra singoli soggetti privati) disciplina l'obbligo alimentare (inteso come obbligo delle prestazioni stretta­mente necessarie al soddisfacimento dei bisogni essenziali, quelli che concorrono al mantenimen­to in vita dell'individuo). A tale obbligo (art. 433 e ss. cod. civile) sono tenuti, nell'ordine, il coniu­ge, i figli legittimi naturali, adottivi o, in mancan­za, i discendenti prossimi, l'adottante nei confron­ti del figlio adottivo, i genitori o, in mancanza, gli ascendenti prossimi, i generi e le nuore, il suo­cero e la suocera, i fratelli. Infine il destinatario di una donazione è tenuto, con precedenza su ogni altro, a prestare gli alimenti al donante.

In realtà l'obbligo alimentare, e la previsione di una così ampia fascia di parenti, appare palese espressione di una società diversa dall'attuale, nella quale era diffuso il modello di famiglia pa­triarcale caratterizzato da una solidarietà allarga­ta, mentre l'assistenza pubblica era in sostanza inesistente. E infatti, come si è detto, la Costitu­zione (che meglio rispecchia l'odierno contesto sociale) non prende in considerazione l'obbligo alimentare e attribuisce le funzioni assistenziali direttamente all'organizzazione pubblica.

In ogni caso non si può fare contrasto tra l'ob­bligo alimentare (dei parenti) e prestazione assi­stenziale (pubblica), che rispondono a logiche e si muovono in prospettive tra loro totalmente dif­ferenti, senza possibilità di collegamento alcuno.

Non si può dunque affermare che l'intervento pubblico è giustificato laddove non possa giunge­re la solidarietà familiare.

L'assistenza è funzione fondamentale dello Sta­to moderno e i suoi compiti non possono essere delegati o piuttosto «scaricati» sulla famiglia. Tale assunto non emerge soltanto da un'analisi dei principi costituzionali (che in ogni caso sono sovraordinati a tutta la legislazione nazionale) ma pure da un esame dell'ordinamento nel suo com­plesso. Non esiste una norma (altrimenti ad essa farebbero volentieri riferimento gli enti locali) che direttamente o indirettamente legittimi l'en­te erogatore di assistenza a chiamare in giudizio i parenti tenuti agli alimenti per sentirli condan­nare all'adempimento della prestazione alimen­tare nei confronti del congiunto povero. Si inten­de lasciare a quest'ultimo la facoltà del tutto di­screzionale di agire nei confronti degli obbligati agli alimenti. E nel caso che l'inabile non sia in grado di provvedere ai propri interessi, potrà agire il tutore, nominato a seguito di una pronun­cia di interdizione, ma ancora una volta non l'ente erogatore di assistenza.

D'altra parte la prestazione assistenziale è co­munque dovuta indipendentemente dalla rinuncia dell'assistito ad agire nei confronti dei suoi pa­renti (trattandosi, come si è detto, di funzione fondamentale dell'organizzazione pubblica). E in tal senso un rifiuto al ricovero (perché, ad esem­pio, il richiedente povero non si è rivolto ai pa­renti per ottenere il pagamento della retta, o per­ché questi contattati dal richiedente o dall'ente non l'hanno consentito) potrebbe integrare, se del caso, ipotesi di reato di omissione di atti d'ufficio.

Appaiono del tutto privi di fondamento i tenta­tivi di giustificare un potere di sostituzione pro­cessuale dell'ente erogatore: ove quest'ultimo chiami in giudizio il parente tenuto agli alimenti, la domanda non potrebbe che essere respinta. Non potrebbe far riferimento all'art. 7 della legge 6872 del 1890, per cui spetta alla congregazione di carità (poi ECA, oggi Comune) la cura degli interessi dei poveri e la loro rappresentanza le­gale dinanzi all'autorità amministrativa e a quel­la giudiziaria. In realtà, tale norma è da intendersi come previsione di salvaguardia e protezione verso i «poveri» visti come collettività, e non nei confronti del singolo individuo. Non possono es­servi eccezioni: o l'individuo è capace e allora agisce da sé, o è incapace, e allora agisce in sua vece il rappresentante legale, il tutore nominato dal giudice. Altre possibilità non sono date.

Né può richiamarsi l'art. 2041 del Codice civile: l'azione di ingiustificato arricchimento, per cui chi senza giusta causa si è arricchito a danno di una altra persona, è tenuto a indennizzare quest'ulti­ma della correlativa diminuzione patrimoniale, ma il riferimento è del tutto errato: non si potrebbe parlare di ingiustificato arricchimento per il pa­rente tenuto agli alimenti finché questi non siano richiesti dal beneficiario.

Ad analogo risultato conduce l'esame dell'art. 155 del testo unico della pubblica sicurezza. È ve­ro che la norma prevede una possibilità di diffida da parte dell'autorità di pubblica sicurezza ai con­giunti di un mendicante inabile al lavoro e privo di mezzi, tenuti per legge agli alimenti, ma tale obbligo si porrebbe nei confronti del povero diret­tamente, e non nei confronti dell'istituto di rico­vero. Riprova di ciò è data dal contenuto del secondo comma della norma: decorso il termine della diffida, l'inabile al lavoro è ammesso di di­ritto al beneficio del gratuito patrocinio per pro­muovere il giudizio degli alimenti; ancora una volta non è prevista alcuna sostituzione proces­suale da parte dell'ente erogatore.

Accade peraltro nella prassi che l'ente aggiri l'ostacolo e ottenga il pagamento della retta dal parente, magari, come si diceva, sotto la minac­cia di dimissioni del ricoverato. In genere il con­senso del parente viene ottenuto, stipulando un vero e proprio contratto, con il quale egli appun­to si obbliga alla prestazione.

A questo punto la facoltà di ottenere il paga­mento trova la sua fonte nel contratto, e non già nell'obbligo alimentare del parente. Non rileva minimamente la qualità di figlio, fratello, ecc. dell'assistito, anche un estraneo potrebbe impegnar­si al pagamento.

Dunque, in definitiva, se il parente non sotto­scrive, non potrebbe mai essere chiamato dall'en­te al pagamento di una retta. E, d'altra parte, il rifiuto al ricovero o magari la dimissione del rico­verato perché il parente non paga, potrebbe con­figurarsi come atto (o comportamento) illegittimo, viziato da eccesso di potere e come tale impu­gnabile davanti al giudice amministrativo.

Ma, trattandosi di atto dovuto, potrebbe talora pure prospettarsi, come si è visto, il reato di omissione di atti d'ufficio.

 

 

(*) Giudice del Tribunale di Genova e Docente universi­tario, è autore fra l'altro dell'articolo «I diritti dell'anzia­no» pubblicato su «La rivista trimestrale di diritto e procedura civile», settembre 1987.

 

 

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