Prospettive assistenziali, n. 88, ottobre-dicembre 1989

 

 

Libri

 

 

PAOLO CENDON (a cura di), Un altro diritto per il malato mentale - Esperienze e soggetti della trasformazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Na­poli, 1988, pp. 956, L. 120.000

 

La pubblicazione degli atti del convegno dì Trieste del 12-14 giugno 1986 si è concretizzata in un volume corposo di quasi mille pagine.

L'interesse degli argomenti trattati è comun­que tale da meritare non solo una recensione, ma anche considerazioni più estese. Infatti è stata la prima volta che in una sede congressua­le si è aperto il discorso sui rapporti tra infermi­tà di mente e diritto privato, sullo sfondo della applicazione della legge i80/1978. L'apporto di giuristi estremamente qualificati in campo civi­le e penale, che hanno saputo intrecciare un dialogo con gli operatori psichiatrici e sociali, cogli amministratori, politici, giornalisti e rap­presentanti dei familiari di malati psichici, è stato quindi di particolare rilievo.

Non c'è argomento che non sia stato almeno sommariamente accennato, e i grandi temi del diritto privato sono stati trattati in modo appro­fondito. Il lettore è dunque posto di fronte alla enorme complessità della materia giuridica e dei suoi risvolti nella pratica dell'agire dei servizi di salute mentale e dei non sempre facili rap­porti tra operatori e utenti dei servizi e loro fa­miliari.

Il primo gruppo di relazioni ha affrontato il tema generale dei profili dell'infermità di mente nel diritto privato (Cendon) e quindi la tradiziona­le nozione di incapacità e i problemi della tutela. Impossibile anche solo tentare un riassunto dei molti e principali argomenti. Va segnalata come particolarmente incisiva l'argomentazione di Zatti, che, identificandosi con un potenziale pa­ziente, pone domande semplici ma inquietanti circa la tutela dei suoi diritti. E conclude affer­mando il diritto (del malato) «al possesso dei propri diritti». Quindi «i diritti della personalità debbono entrare nel rapporto terapeutico, a tu­tela dell'infermo di mente, non come limiti ne­gativi alla discrezionalità del medico, ma come vincoli interni ad essa; non come regole di ciò che non può o non deve essere fatto, ma come regole di ciò che deve essere fatto, essere dato, essere provocato con riguardo all'infermo». Inolt­re «il diritto del malato può non essere quello al libero svolgimento della personalità, ma deve essere quello al massimo svolgimento della per­sonalità» (1).

Che poi la nuova percezione (psichiatrica) del­la malattia mentale ponga in crisi taluni e non pochi fondamenti del diritto è ciò che riconosco­no Ponti e Bovio, affermando la necessità di ab­bandonare le «sterotipiep per acquisire valuta­zioni strettamente individualizzate, senza scade­re nel pericolo di istituire un «diritto parallelo».

Il secondo gruppo di relazioni ha affrontato i «trattamenti sanitari». Castronovo, autore di una interessante pubblicazione su «Secolarizzazione e diritto della follia», ricorda a questo proposito i! «dramma della follia» in libera uscita e il con­seguente difficile problema della «assimilazione sociale della follia (p. 215-216) che è il contesto nel quale, a partire dalla «1H0», si inseriscono le varie e complesse problematiche applicative.

Cattaneo affronta la responsabilità civile del­lo psichiatra e dei servizi pubblici. Venturini esa­mina quale diritto vada garantito al malato di mente in condizione di emergenza psichiatrica. Giannichedda ed altri si interrogano sul proble­ma del «consenso» dell'interessato al tratta­mento.

Gli istituti di protezione (inabilitazione, inter­dizione, perizie, amministrazione e protezione dei beni, deleghe e tutele complessive) sono trattati nella terza parte.

Un successivo gruppo di relazioni verte sull'attività giuridica dell'infermo di mente, sulle varie forme di incapacità, soprattutto quelle de­finite «naturali» dal linguaggio giuridico. Tra i relatori, Mazzoni non ha dubbi nell'invocare il diritto alla parità «totale» del malato di mente rispetto ai normali, richiamandosi al «prezzo» che la follia deve pagare (per la sua integrazio­ne sociale).

Da parte degli operatori psichiatrici viene evi­denziato il nuovo «protagonismo» all'interno del diritto di famiglia che il malato è chiamato ad esercitare, ma che deve essere supportato dallo stile dì lavoro del servizio (Dell'Acqua e coll.).

Il gruppo finale di relazioni concerne la tutela risarcitoria della salute psichica e la responsa­bilità civile dell'infermo di mente. Viene qui ri­chiamato il fondamentale contributo di Cendon ne «Il prezzo della follia» (Alpa) e si succedono relazioni estremamente innovative e per certi aspetti provocatorie rispetto alla tradizione. C'è danno-psichico (che dovrebbe essere risarcito) nelle contorte e prolungate vicende processuali (Pecorella), c'è grave danno nelle lunghe isti­tuzionalizzazioni (Mangoni e Scala); nella «car­riera» dei malati di mente che hanno subito in vario modo la violenza istituzionale (Dell'Acqua e altri). Ma ci sono anche delicatissimi problemi di responsabilità degli operatori circa la «sor­veglianza» e possibile mancata assistenza (Bre­goli). Quest'ultima relazione è particolarmente ricca di spunti per gli operatori psichiatrici, che non sempre appaiono consapevoli delle loro mol­te responsabilità. Ma c'è infine responsabilità, e quindi anche colpa, «colpa oggettiva» nel com­portamento dello stesso malato di mente. Come ricorda Venchiarutti, il diritto francese non ha dubbi in proposito: «Chi ha commesso un danno a terzi sotto "l'imperio" di una turba mentale, è cionondimeno tenuto al risarcimento. Dunque cade ogni discriminazione».

Queste sono, appena accennate, alcune delle molte considerazioni che il convegno di Trieste ha consentito di esporre.

In sintesi, si può ben cogliere l'enorme por­tata della riforma psichiatrica nel suo impatto non soltanto con il sociale in generale, ma sulle istituzioni del diritto, e, come in questo caso, del diritto privato. La «follia in libera uscita» pone problemi imprevisti e insoliti per l'ordina­mento dei «normali» il cui «codice» non appare tarato per queste «incapacità» e diversità un tempo confinate e chiuse. Tra i convenuti è pre­valsa l'idea che i folli debbano pagare un prezzo per la loro integrazione sociale (Cendon e molti altri). Ma è altrettanto evidente che anche la società deve pagare un prezzo per accogliere al suo interno questa nuova e imprevista diversità, i cui effetti destabilizzanti sul tradizionale potere normativo non mancano di farsi sentire.

Sul versante degli operatori dei servizi di sa­lute mentale è posta l'esigenza di un cambia­mento ancor più radicale nello stile di rapporto con i malati (Zatti: regole come vincoli all'inter­no di un patto tra due contraenti, il terapeuta e il paziente).

ENRICO PASCAL

 

 

AA.VV., Handiwork - Modelli differenziati di formazione, professionalizzazione ed inserimento lavorativo degli handicappati, Provincia di Mo­dena, 1986, pp. 150

 

È la presentazione commentata del progetto realizzato nella Provincia di Modena (assessorato alla sanità e servizi sociali) in collaborazione con le Usi della Provincia nel 1986.

L’impostazione del progetto si è avvalsa di al­cuni principi guida importanti:

- l'uscita dalla logica assistenzialistica,, che vede l'handicappato sempre come persona im­produttiva;

- il rifiuto di proposte (ad esempio, laborato­ri protetti) che non siano a pieno titolo rispon­denti ad un posto di lavoro reale;

- centralità della formazione professionale anche per il portatore di handicap come premes­sa per aumentare e sviluppare le possibilità di inserimento lavorativo.

La ricerca ha posto l'accento su alcuni dei no­di aperti che è indispensabile affrontare per mi­gliorare qualitativamente l'attuale sistema ope­rativo, sistema che si è rivelato spesso inade­guato perché principalmente lasciato alla buana volontà e operosità del singolo operatore: isola­to, scollegato, «abbandonato», dall'addestramen­to alla formazione, dalla ricerca del posto di lavo­ro all'inserimento dell'handicappato.

Alcuni limiti dell'esperienza sono quindi indi­viduati dagli stessi ricercatori:

- necessità che sia costituito un «servizio per l'inserimento lavorativo», che noi suggeriamo sia istituito presso gli assessorati al lavoro, che sono il riferimento istituzionale competente a ga­rantire il processo formazione professionale - in­serimento lavorativo;

- garanzia di corsi di formazione professio­nale che siano rispettosi delle esigenze spesso diversificate dei portatori di handicap, i quali non sempre riescono a trovare spazi idonei nei nor­mali corsi, troppo selettivi e nozionistici.

Da parte nostra rileviamo che, se da un lato è apprezzabile lo sforzo realizzato da quanti han­no dato vita al progetto oggetto della ricerca, dall'altra si deve evidenziare come elemento nega­tivo il fatto che la formazione professionale sia ancora affidata all'educatore e gestita quindi in un ambito prettamente assistenziale-sanitario, come viene denunciato dagli stessi Autori, rischia di sconfinare in una «dimensione clinico-terapeu­tica anziché formativa e professionalizzante».

Sentita è pertanto «la carenza di un ruolo da parte degli Enti locali (...) perché non si sentono titolari di un progetto politico e culturale».

Altro aspetto negativo, a nostro avviso, sareb­be l'attribuzione alle Province (anziché ai Comuni singoli o associati) di funzioni in materia di for­mazione professionale per gli handicappati (e per gli altri soggetti).

Il testo è in ogni caso utile per quanti operano nell'ambito della preparazione professionale e dell'inserimento lavorativo dei portatori di han­dicap per il suo contributo critico dell'esperienza.

 

 

ORFEO CARNEVALI - PASQUALE MORLUNGHI, L'ospedale oggi: funzioni, organizzazione, strut­ture, personale, NIS, Roma, 1986, pagine 158, L. 18.000

 

Se si parte dalla considerazione che i malati devono essere il punto di riferimento dell'ospe­dale, è necessaria una radicale revisione della sua funzione, delle sue strutture interne e dei relativi metodi organizzativi.

È altresì necessario che l'ospedale «sia inte­grato nel servizio sanitario», integrazione che «deve significare un ottimale impiego della strut­tura ospedaliera per le esigenze della medicina di base e una disponibilità totale della stessa struttura alle esigenze complessive della popo­lazione comprensoriale o di dimensioni superiori (...) in cui è inserito».

Ne deriva l'esigenza, sostenuta dagli Autori e da noi pienamente condivisa, che «Vanno com­battute, pur nello spirito di una necessaria rifor­ma dell'assetto istituzionale e organizzativo at­tuale delle Unità sanitarie locali, quelle proposte e linee di tendenza tecnico-politiche miranti allo scorporo degli ospedali (soprattutto dei "grandi") dalla gestione delle singole Unità socio-sanitarie, perché ciò rappresenterebbe un ostacolo e un contrasto alla realizzazione dei principi e degli obiettivi della riforma sanitaria».

Concordiamo altresì sull'affermazione conte­nuta nel piano socio-sanitario della Regione Um­bria per il triennio 1985-1987 secondo cui «non vi è spazio per la programmazione di ospedali per "lungodegenti" ovvero per "convalescenti" ov­vero per "cronici", così come non vi è spazio per un ospedale specializzato per la popolazione an­ziana», mentre non riteniamo valida la proposta degli Autori di limitare gli interventi ospedalieri alle cure intensive, salvo che essi intendano che le «cure minime» devono essere destinate anche ai pazienti definiti «cronici non autosufficienti ».

Non si tratta di intasare gli ospedali, ma occor­re una programmazione che coniughi le esigenze dei malati acuti con quelle dei cosiddetti cronici, partendo dal fondamentale principio ribadito da Carnevali e da Morlunghi della «rivalutazione (anche e soprattutto in campo sanitario) dell'uo­mo e dei suoi bisogni, delle sue esigenze, la pre­ferenza dell'uomo a partire da se stesso quale punto di partenza per la configurazione di un si­stema che non sia più solamente (e insufficien­temente) assistenziale, ma che divenga un com­piuto sistema di sicurezza sociale».

 

 

GIUSEPPE ALFONSO MAIORANO, A proposito della nuova didattica della medicina, Bulzoni Edi­tore, Roma, 1988, pp. 505, L. 50.000

 

È l'insegnamento della medicina adeguato ai tempi? L'interrogativo non è semplice artificio culturale, ma assume una sua pregnante rilevan­za quando si pensi all'influenza che va assumen­do sempre più la diagnostica non invasiva nella pratica clinica. Esiste pertanto il rischio che pos­sa verificarsi una diaspora tra il momento clinico tradizionale d'approccio al paziente ed il mo­mento puramente diagnostico, nel senso che possa essere privilegiata la seconda fase: la conclusione di una tale condotta è quella di tec­nicizzare oltre misura la professione del medico. Si sente quindi il bisogno di formare in modo di­verso e più equilibrato il futuro medico.

Il recupero di una medicina funzionale, che va­luti più ciò che resta rispetto a ciò che si è per­so, traspare in ogni pagina di questo voluminoso libro di Maiorano, Autore pluridisciplinare per i numerosi titoli accademici acquisiti.

L'opera si sviluppa in modo semplice e didat­tico e dimostra in modo appassionato e convin­cente l'esigenza che l'Università formi essen­zialmente «medici della persona», privilegiando l'insegnamento della psicologia medica e della psicosomatica. E questo mi sembra il merito più grande del lavoro di Maiorano.

I difetti del libro sono da ricercare principal­mente nella bibliografia troppo modesta in rap­porto ad una eccessiva prolissità del volume e allo scarso aggiornamento della stessa.

CARMINE MACCHIONE

 

 

S. LAGATI, Bibliografia italiana sui disturbi dell'udito, della vista e del linguaggio, VERT Editri­ce, Treviso, 1989, pp. 125

 

Il volume, il dodicesimo della serie, presenta 394 nuove voci bibliografiche rappresentate da libri e articoli.

Tutto questo materiale, assieme a quello pub­blicato nei volumi precedenti, in particolare dal 1984 in poi, ordinato sia per autori che per argo­menti, costituisce un valido aiuto per chi vuol far ricerche, compilare tesi o semplicemente aggior­narsi nel campo dei disturbi dell'udito, della vista e del linguaggio.

Anche quest'anno sono riportate le leggi più importanti ancora in vigore, comprese le più re­centi.

Per informazioni rivolgersi a Servizio di consu­lenza, Via Druso 7, Trento 38100, tel. 0461-39595.

 

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