Prospettive assistenziali, n. 88, ottobre-dicembre 1989

 

 

ANZIANI VERSO IL DUEMILA

BRUNO FINZI (*)

 

Nell'autunno del 1988 i giornali, la radio, la televisione si sono improvvisamente accorti che esistono i vecchi e questo dovrebbe piacere a noi geriatri che da 30 anni predicavamo nel de­serto.

Ma mentre i nostri sforzi erano e sono indiriz­zati a cercare di rimuovere ostacoli psicologici e materiali e a migliorare l'esistenza degli an­ziani, attualmente il problema viene sollevato in toni apocalittici.

Ecco alcuni titoli: «L'Italia senza bambini», «Il futuro ci prepara un mondo di vecchi », «In­quietanti scenari del 2000».

Gli inquietanti scenari sono dati dal fatto che gli anziani saranno il 22% e ciò costituirà un gravissimo problema sociale, umano ed econo­mico. «Stiamo diventando una popolazione di anziani: le cifre non sono certo confortanti», ecc.

Tutto questo è condito, in televisione, con im­magini di orribili cronicari, di vecchi dementi o comunque molto deteriorati, allettati, piagati.

L'ulteriore invecchiamento della popolazione in tutte le civiltà occidentali è un fatto certo: da un lato si è imboccata la strada del controllo delle nascite, dall'altro si prevede un allunga, mento della durata media della vita fino a 90 anni e più. Il gruppo della popolazione che si va sempre più accrescendo è quello dei «grandi vecchi».

Questo dato in generale non è messo in evi­denza perché si continua a riferirsi agli ultrasessantenni o ultrasessantacinquenni.

Perché si vive più a lungo? Appena prima del­la seconda guerra mondiale le malattie infettive mietevano ancora migliaia di vittime, poi sono venuti i sulfamidici e gli antibiotici, il cortiso­ne e gli anticoagulanti, più recentemente i far­maci antirigetto che non solo hanno potenziato e moltiplicato le possibilità di guarigione di mol­te malattie in campo medico ma hanno enorme­mente ampliato, assieme ai nuovi anestetici, il campo degli interventi chirurgici, senza limiti di età.

Certo non tutto il merito del prolungamento della vita umana può essere attribuito a fattori strettamente terapeutici: non si deve dimenti­care l'alimentazione migliorata, con la scom­parsa di molte forme da carenza (scorbuto, pel­lagra, avitaminosi in genere); la migliorata igie­ne e abitabilità delle case (riscaldamento in inverno, condizionamento in estate), le acque po­tabili più controllate, i tentativi, se pur ancora troppo limitati, del disinquinamento dell'aria.

Il controllo delle nascite significa per la don­na diminuzione drastica dei rischi della gravi­danza, del parto e del puerperio. La donna acqui­sisce così una migliore salute e una maggiore sopravvivenza (5-7 anni più dell'uomo) e con­temporaneamente ritarda la menopausa che vie­ne aiutata e controllata e perde la sua lugubre connotazione psicologica. La donna si trova così avvantaggiata anche dall'insorgenza più tarda dell'arteriosclerosi e da una prolungata prote­zione versa l'infarto, legata alla presenza di estrogeni. La «pillola» resa sempre più duttile e meno tossica, assicura non solo la contracce­zione, ma un prolungato benessere e un miglio­rato aspetto estetico nel climaterio e nel post climaterio.

Molto recente è da noi la netta riduzione del­la mortalità infantile, legata ad un migliore e ge­neralizzato controllo della gravidanza e del puer­perio: si fanno meno figli ma si fanno molto me­glio: questo porta però a un progressivo invec­chiamento della popolazione. A metà degli anni '80 la speranza di vita alla nascita raggiunge in Italia 78 anni per la donna e 71 per l'uomo.

Tutto bene, dunque? Sparite le malattie infet­tive rimangono quelle di tipo degenerativo, caratteristiche della vecchiaia: le arteriopatie, le cardiopatie, gli ictus cerebrali, con le loro gra­vissime conseguenze invalidanti, le cerebropa­tie croniche di tipo demenziale, i tumori, il dia­bete e i traumi di vario tipo sempre in aumento.

Voglio qui ancora una volta ribadire che la vecchiaia non è una malattia: anche se l'afori­sma «senectus ipsa morbus», vecchio di più di duemila anni è duro a morire, possiamo oggi tranquillamente sostenere che anzi «la vecchia­ia dell'individuo è la vittoria dell'organismo su tutte le insidie ambientali che ne minacciano la validità e l'esistenza, contrastandogli il raggiun­gimento dei limiti di vita dalla natura assegnati a ciascuna specie». (Condorelli); questi limiti secondo le più moderne condizioni sono di 115 anni: è la teoria dell'orologio biologico e della morte programmata, secondo cui le cellule di ciascuna specie non sono capaci di riprodursi più di un certo numero di volte. Centenari dun­que si può diventare: in Italia ce ne sono attual­mente più di 1000, per la precisione 1304 (328 maschi e 976 femmine) secondo il censimento del 1981.

È inoltre innegabile che le persane attualmen­te invecchiano molto meglio che in passato e sarebbe tempo di rimuovere il dato anagrafico secondo cui si è vecchi a 60 o 65 anni secondo le statistiche, il che crea già una certa confu­sione, perché questa è l'età del pensionamento. Se si stabilisse che la vecchiaia comincia a 75 anni si otterrebbe una percentuale di anziani prevista nel 2000 del 4,5%.

La proposta non è rivoluzionaria come sem­bra: Greppi vent'anni fa distingueva già diverse fasi dell'invecchiamento dal punto di vista bio­logico e clinico:

45-60 anni: età di mezzo, età critica, età pre­senile, età del primo invecchiamento;

60-75 anni: senescenza graduale;

75-90 anni: vecchiaia conclamata;

oltre 90: grandi vecchi.

Questa proposta: vecchi a 75 anni non sposterebbe però l'altro versante del problema: i bambini che non vengono messi al mondo.

La vecchiaia dunque non è una malattia, ma le diminuite difese rendono il vecchio più sensibile alle aggressioni dell'ambiente e della società; l'adattabilità, la plasticità dell'anziano sono di­minuite. Qualsiasi sforzo limitato alle situazio­ni mediche non risolve i problemi in modo car­retto e completo: non si tratta di curare un orga­no o un apparato ma la persona, lo scopo stesso non è e non può essere la guarigione ma la pre­venzione dell'invalidità e il ritrovamento di un nuovo equilibrio: in una parola la difesa e il re­cupero dell'autonomia. Spesso è inutile intestar­dirsi a guarire gli anziani: si debbono curare e riabilitare per utilizzarne le residue riserve fun­zionali. La prevenzione nell'anziano si fa difen­dendo il suo benessere e non trovandogli un pa­rametro alterato che lo trasformi in malato (Vecchi).

È perlomeno strano che da tutte queste cifre che ci bombardano ormai quotidianamente dai giornali, i politici, i sindacalisti e i demografi traggano una sola conseguenza: bisogna inte­ressarsi di più e meglio degli anziani perché or­mai sono un quinto della popolazione e presto diventeranno un quarto: il che significa che se fossero invece 1/10 si potrebbe anche interes­sarsene poco o niente affatto. Gli anziani vengo­no visti come pensionati, inquilini, elettori, uten­ti del servizio sanitario o di quello postale, i più furbi li vedono anche come consumatori, magari di farmaci, di pannoloni, di pasta per dentiere, di soggiorni marini o montani nelle stagioni morte.

Tutti si affannano a calcolare quanto costano e costeranno di pensioni, di assistenza sanitaria e sociale, pochi cercano di scoprirli come esse­ri umani, uomini e donne, persone ricche di pro­blemi ma anche di capacità e potenzialità, dotati di un passato ma anche di un avvenire.

È tempo di ribaltare certi termini del proble­ma: negli anni '70 l'idea di civiltà e di modernità era legata alla figura del giovane. Attualmente non si può negare che in tutto il mondo la pre­senza in alcune nazioni della classica struttura piramidale a base giovanile molto allargata è diventato un indice di arretratezza: queste na­zioni sono quelle meno sviluppate.

È quindi logico e necessario non emarginare gli anziani, ma riportare invece i loro problemi all'interno di quelli di tutti gli altri; anche per­ché gli anziani di oggi non sono quelli di ieri: più alto è anche il loro livello culturale, profes­sionale, imprenditoriale, per non parlare dei po­litici che sono sempre quelli. Si è determinato come uno slittamento verso le fasce di età più avanzate (i grandi vecchi) dei problemi attribuiti un tempo e che si continua a voler attribuire an­cora agli ultrasessantenni.

La maggior parte degli anziani non vogliono essere identificati con quelli che hanno bisogno di ricovero, di carità, di pubblica assistenza, non vogliono essere chiamati «cari vecchietti» co­me tuttora si legge sui nostri giornali. Vogliono dignità, inserimento sociale, ruolo attivo. L'an­ziano deve poter vivere dove vuole e possibil­mente in mezzo ai giovani. Ora nella migliore delle ipotesi si tende a lasciargli solo il ruolo di nonno, quello che accudisce i bambini quando ambedue i genitori lavorano, li coccola, li vizia.

Ma si cominciano a creare gruppi che stimo­lano la vita sociale. Hanno sempre maggiore im­pulso i sindacati dei pensionati.

Da qualche anno da noi sono sorti i «Comitati anziani autogestiti di quartiere» che organizza­no incontri, attività motorie, nuoto, giardinaggio, sport di vario genere, spettacoli e sono diventati protagonisti molto combattivi nelle assemblee di quartiere e nei rapporti col Comune.

Un altro grande contributo per ritrovare un ruolo, per rispondere al desiderio di fare, di ap­prendere, di rappresentare qualcosa, è dato dal­le Università della Terza Età che sono ormai più di 100 in Italia. A Venezia ne esistono tre, una nel centro storico e due a Mestre con un totale di più di 2000 iscritti. Questo numero è molto alto per un Comune di poco più di 300.000 abi­tanti e dimostra che gli anziani vogliono e pos­sono apprendere e applicarsi in campi in cui non hanno avuto tempo o possibilità di entrare du­rante l'età del lavoro.

Quel che caratterizza l'insegnamento in queste Università è che chi si iscrive non lo fa per obbligo o per imposizione di altri né per consegui­re un diploma che serva a fini di lavoro o di car­riera, ma solo per la soddisfazione di dimostra­re a se stesso e agli altri di valere ancora qual­cosa. Ognuno si sceglie poi liberamente le più congeniali fra le materie di insegnamento. Nella Università di Venezia, che io dirigo, queste sono attualmente 18 e spaziano dalla storia alla medi­cina, dall'antiquariato alla storia delle religioni, dalla musica al disegno.

Diceva Aristotele (Etica Nicomachea): «Il tempo libero non è la fine del lavoro, è il lavoro che è la fine del tempo libero. Questo deve essere consacrato all'arte, alla scienza e di preferenza alla filosofia... La felicità consiste nell'attività contemplativa, nella vita dello spirito, in tutto ciò che non è necessario né utile (anche se può diventarlo), ma serve unicamente a vivere nel modo più adeguato il proprio tempo libero, il proprio tempo personale, il proprio individuale ed inalienabile bene, la propria vita ».

In questo spirito gli anziani si avviano verso il 2000.

 

 

 

(*) Primario Geriatra Emerito, Docente della Scuola di Specializzazione di Gerontologia e Geriatria dell'Universi­tà di Pavia, Vice-Presidente della Società Italiana Medici e Operatori Geriatrici.

 

 

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