Prospettive assistenziali, n. 89, gennaio-marzo 1990
NUOVE PROPOSTE PER IL COLLOCAMENTO
OBBLIGATORIO AL LAVORO DEGLI HANDICAPPATI
Nel quadro delle attività dell'APE, Associazione per
il progresso economico, si è tenuto a Torino, l'11 novembre 1989 presso il
Politecnico (g.c.), un incontro di studio teso a chiarire i rapporti tra
economia produttiva e problematiche sociali. L'iniziativa è stata promossa in
collaborazione con il CSA, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti
di base, la GIOC, Gioventù Operaia Cristiana, la Lega per il diritto al lavoro
degli handicappati ed ha ottenuto l'adesione delle ACLI di Torino,
dell'A.pi.C.E., Associazione per la lotta contro l'epilessia e delle Società di
S. Vincenzo di Torino, Piemonte e Valle d'Aosta.
All'incontro sono stati invitati sia personalità del
mondo politico sia di quello economico, in modo da poter chiarire agli
imprenditori talune modalità di collaborazione che possono favorire la
soluzione di un problema, quale quello degli handicappati, specie psichici,
attualmente esclusi dal collocamento obbligatorio. Nello stesso tempo si è
cercato di individuare le difficoltà di natura economica e organizzativa che
limitano l'impegno delle imprese, a partire dalle proposte contenute nella
relazione di base delle Associazioni promotrici di cui riportiamo il testo
integrale, allo scopo di ampliare il confronto con quanti volessero esprimere
il loro parere in merito (1).
Segnaliamo che tra gli invitati non hanno potuto
intervenire, causa impegni, l'On. Franco Piro del Partito socialista italiano e
Bruno Trentin, Segretario generale della CGIL.
RELAZIONE
INTRODUTTIVA (2)
Come affrontare il problema
Il problema dell'inserimento lavorativo dei portatori
di handicap (fisico, sensoriale, intellettivo, psichico) va affrontato su due
piani: quello legislativo e quello culturale. Ed è chiaro che la riforma
legislativa - che attende da anni - dipende da un cambiamento di mentalità e
di cultura. Il convegno di oggi è la prima tappa del rilancio culturale, che i
promotori e le associazioni aderenti intendono portare avanti consapevoli di
quanto tale rilancio culturale sia importante e scientificamente fondato.
I vent'anni che sono trascorsi dall'entrata in vigore
della legge 482 del 1968, nonostante tutti i suoi limiti, sono ugualmente
ricchi di esempi che dimostrano la concreta possibilità di mantenere persone
con handicap in contesti normali di vita s di lavoro. Dobbiamo pertanto
procedere per questa strada, affermare il diritto al lavoro per i cittadini
handicappati con capacità lavorative, portare tutte le innovazioni che
l'esperienza ci suggerisce per rendere sempre più facili e migliori gli
inserimenti al lavoro.
La legge n. 482/1968 va superata innanzitutto sul
piano concettuale
Due
sono sostanzialmente i concetti erronei da modificare nell'attuale legge:
- il mancato
riconoscimento della piena capacità lavorativa, che molti handicappati
(collocati in un posto di lavoro idoneo alle loro capacità) possono
esplicare;
- il
collocamento casuale dell'handicappato, senza che siano considerate le sue
capacità (piene o ridotte) in rapporto alle richieste dell'azienda.
Tale prassi ha purtroppo contribuito a rafforzare
quelle concezioni retrive che portano a considerare tutti gli handicappati
improduttivi, senza distinzioni di sorta; è facile poi pensare come passo
conseguente che essi siano solo un peso e debbano essere «assistiti» dallo
Stato.
Ma se incominciamo a porci nell'ottica del cambiamento
ci è facile scoprire, anche solo guardandoci attorno, che ci sono esempi
significativi di persone handicappate ben inserite, che non realizzano certo
una perdita di profitto: dipende dalla persona, dal suo handicap, dalle sue
capacità, dal suo titolo di studio...
Ci sono handicappati che svolgono lavori altamente
qualificati: pensiamo alle persone handicappate che lavorano nel campo delle
scienze, ai docenti universitari, ai medici, agli insegnanti, ai politici, agli
amministratori, a molti impiegati e operai...
Affermare quindi che tutti gli handicappati hanno
capacità residue o non ne hanno affatto, in ogni caso, non è solo scorretto, ma
ingiusto e non corrisponde alla realtà.
Come primo
passo di cambiamento che viene richiesto a tutti (imprenditori,
sindacalisti, amministratori pubblici e persone comuni) è di riconoscere che
una persona handicappata con piena capacità lavorativa - che viene inserita in
un posto di lavoro mirato alle sue reali potenzialità psico-fisiche e
professionali - non creerà problemi all'andamento della produzione.
Proporre che alcuni posti siano occupati dalle
persone handicappate con piena capacità lavorativa, piuttosto che da «normali»
lavoratori o impiegati, non dovrebbe scandalizzare il sindacato, né l'impresa.
Il sindacato perché così facendo non toglie nulla ai lavoratori (anche queste
persone sono a tutti gli effetti lavoratori); l'impresa perché di fatto non
viene penalizzata la produzione e l'impresa stessa assolve agli obblighi cui è
tenuta per legge, ma con più alte garanzie di quante gliene siano offerte oggi.
Una resa inferiore alla norma si verifica invece nel
caso delle persone handicappate con
ridotta capacità lavorativa, conseguenza di una loro limitata autonomia
sia fisica che/o psichica. Rientrano in questa sfera anche gli insufficienti mentali, oggi esclusi
dalla lista del collocamento obbligatorio, a nostro avviso in base ad una
errata interpretazione delle norme attuali, che accomunano l'insufficienza
mentale alla malattia mentale.
Si sa invece che per la parte che ci interessa (e
cioè la sicurezza nel posto di lavoro) c'è una profonda differenza tra le due
condizioni. Inoltre l'insufficienza mentale, a differenza del malato di mente,
pur presentando una minorazione nella riduzione della capacità intellettiva,
può possedere un grado di capacità lavorativa tale da assicurare una resa
produttiva che sarà talora inferiore al normale, ma continua e certa, e in
condizioni di sicurezza propria, dei compagni di lavoro e degli impianti.
Per quanto riguarda i malati di mente, va precisato
che essi, molto spesso, hanno piena capacità lavorativa. Ovviamente è determinante
la scelta del posto di lavoro.
Proposte per una riforma
Occorre superare le artificiose distinzioni tra
invalidi e anche tra invalidi fisici e invalidi psichici; ciò che conta non è
il grado di invalidità, né la tipologia dell'handicap: ma la capacità lavorativa,
e cioè la capacità del soggetto ad espletare una determinata attività
lavorativa.
Da
tempo si propone l'introduzione del concetto di capacità lavorativa e la conseguente:
1)
suddivisione degli handicappati in tre gruppi:
-
handicappati con piena capacità lavorativa;
- handicappati con ridotta capacità lavorativa;
- handicappati con nulla capacità lavorativa, che per
le loro condizioni fisiche e/o psichiche non sono comunque in grado di svolgere
una qualsiasi proficua attività lavorativa. Solo per questi soggetti va
richiesto l'intervento del settore assistenziale, che mette a disposizione
servizi diurni (e non solo diurni: pensiamo alle comunità alloggio di tipo
residenziale per chi non può contare sulla propria famiglia) che prevedono
attività (terapeutiche, educative, di socializzazione...) il più possibile
integrate con la realtà territoriale e capaci di coprire l'arco delle 40 ore
settimanali.
Passare all'individuazione di criteri fondati non
sulle percentuali di invalidità, ma sulle capacità lavorative, anche residue,
dei l'handicappato, porta alla necessità di differenziare le commissioni per
l'accertamento dell'invalidità, da quelle per l'accertamento del diritto al
collocamento obbligatorio, garantendone ovviamente tutti i necessari
collegamenti.
Le commissioni per il diritto al collocamento al
lavoro, che dovranno valutare la capacità lavorativa della persona
handicappata, saranno pertanto composte da esperti del mondo del lavoro e cioè
da rappresentanti del Ministero del lavoro, dell'Ente locale, delle
Associazioni degli imprenditori, delle Organizzazioni sindacali e delle Associazioni
di handicappati.
2) Il
collocamento deve essere mirato e non casuale come avviene ora, per
tutelare gli interessi dell'azienda e del lavoratore che spesso è costretto a
rinunciare perché il posto di lavoro non è adatto.
Il settore
lavoro e formazione professionale
dell'Ente locale (in base ad apposita legge regionale) deve istituire un
apposito gruppo di operatori con il
compito di:
- ricercare i soggetti in possesso delle capacità
lavorative idonee al posto di lavoro che si è liberato in quell'azienda, in
collaborazione con l'Ufficio di collocamento;
- collaborare con gli Enti di formazione professionale
e prelavorativa per formare, se è il caso, il soggetto alle esigenze del nuovo
posto dì lavoro (buon uso si può fare per questo dei contratti di formazione e
lavoro), o per attuare iniziative di aggiornamento professionale;
- preparare l'ambiente di lavoro organizzando
momenti di incontro con il personale dirigente e con le maestranze;
- individuare un componente all'interno dell'azienda
disposto a diventare il referente del
soggetto durante le ore di lavoro;
- seguire l'andamento dell'inserimento, con verifiche
periodiche, nel caso di persone handicappate con ridotte capacità lavorative.
3) La
percentuale del 15% (mai applicata interamente né dalle aziende, né dagli
Enti pubblici) va necessariamente
abbassata con l'introduzione dei criteri precedenti.
Proponiamo la percentuale del 3% per gli handicappati
con piena capacità lavorativa e del 3% per gli handicappati con ridotta
capacità lavorativa.
Naturalmente va previsto che le Regioni - con
deliberazione del Consiglio - possano eventualmente aumentare le suddette
percentuali, nei casi in cui ciò sia necessario per assicurare un lavoro a
tutti gli handicappati.
4) La nuova legge
sul collocamento al lavoro deve riguardare tutti gli handicappati, senza
esclusioni. Vanno invece scorporate le categorie delle vedove, dei profughi e
degli orfani per i quali è opportuno ricercare altre forme di tutela per
l'inserimento lavorativo.
5) Al contrario di quanto succede oggi, richiediamo
quale correttivo dell'abbassamento delle percentuali sanzioni severe per le aziende inadempienti proporzionate al
numero degli handicappati non assunti e alla durata delle inadempienze. Deve
inoltre essere ripristinata la possibilità di scorrimento tra le categorie.
Quali rischi, oggi, in attesa della
riforma
Non
possiamo tralasciare di affrontare alcuni nodi, anche se spinosi.
Le cooperative
A fronte delle oggettive difficoltà dì inserimento
lavorativo dei portatori di handicap nelle normali aziende, in particolare
degli handicappati con ridotta capacità lavorativa, si sente spesso parlare
delle cooperative (in Piemonte sono soprattutto le cooperative di solidarietà)
come risoluzione del problema, quasi un atto liberatorio per tutti.
Noi in tutto questo vediamo invece alcuni pericoli.
Pensiamo che la cooperativa possa essere senz'altro un'opportunità di lavoro o
anche un mezzo di avviamento al lavoro, laddove soprattutto è carente la
formazione professionale. Ma la cooperativa non deve essere vista come l'unico
e il solo posto di lavoro da offrire alle persone handicappate, né tanto meno
può essere sostitutiva o alternativa ai posti di lavoro delle normali
aziende.
È, ripetiamo, una delle possibilità dell'attuale
mercato del lavoro. Per questo, la cooperativa deve poter garantire a tutti i
soci, compresi quelli handicappati, un compenso reale; le borse di lavoro
vanno quindi determinate nel tempo e trasformate in assunzioni; inoltre ali
incentivi eventualmente previsti per le cooperative dovrebbero essere erogati
solo nel caso di assunzione di persone con ridotta capacità lavorativa (da
escludersi quindi in caso di piena capacità lavorativa). Gli incentivi
concessi alle cooperative dovrebbero essere forniti, nella stessa misura, alle
aziende, in particolare a quelle di piccole dimensioni, non soggette agli
obblighi previsti dalla legge sul collocamento obbligatorio al lavoro.
I centri di laboratorio protetto
Purtroppo non possiamo che essere contrari, -- ma non
siamo i soli (si veda il documento «Handicappati e società: quali valori, quali
diritti, quali doveri») (3) - a quanto avanzato e previsto nella proposta del
piano sanitario nazionale, laddove si parla di realizzare a regime «almeno un
laboratorio protetto per 15 handicappati ogni 100 mila abitanti», tra l'altro
nuovamente senza alcuna distinzione tra chi possiede capacità lavorativa
piena, ridotta o nulla.
Pensiamo che non sia più utile a nessuno tentare di
ripristinare strutture, come i laboratori protetti, che propongono attività
spesso ripetitive e soprattutto che non trovano riscontro in mansioni
lavorative reali, spendibili nel mercato del lavoro e sono alla fine inutili ai
fini di un avvio al lavoro. Inoltre tali strutture non rispondono - purtroppo
- a quelle che si sono rivelate in questi anni come importanti esigenze di
socializzazione per le persone handicappate, che, isolate, non possono
certamente ricavare tutti i benefici che derivano dalla sollecitazione e dagli
stimoli conseguenti al contatto con la normalità.
Inoltre è davvero incomprensibile il fatto che il
settore della sanità intenda spendere cifre considerevoli per assistere
persone che, se adeguatamente preparate dal settore della formazione
professionale, possono contribuire con il loro lavoro e con il pagamento delle
«tasse» alla costruzione della società.
Infine, ci sembra questo un orientamento decisamente
in contrasto con altri interventi positivi che lo Stato e la società stanno
realizzando nei confronti e nell'interesse delle persone handicappate, come ad
esempio:
-
l'impegno a sviluppare e migliorare l'integrazione scolastica nella scuola
dell'obbligo;
-
la promozione di iniziative volte ad assicurare la continuità degli studi
nella scuola superiore (abbattimento delle barriere architettoniche, messa a
disposizione di ausili...);
- le attività di formazione professionale delle
Regioni che prevedono corsi e modalità atte a sviluppare le abilità e le
capacità lavorative potenziali degli handicappati, pensando ad un futuro
inserimento al lavoro;
- corsi prelavorativi o di preparazione al lavoro
per insufficienti mentali, che non possono accedere ai normali corsi di
formazione professionale, in modo che possano avere comunque una formazione
che li prepari a svolgere mansioni semplici, aumentando e migliorando le
abilità possedute.
Certo, se tutti questi interventi non verranno
potenziati e migliorati, sarà logico per tutti in assenza di risposte pensare
a «contenere» queste persone handicappate in laboratori protetti.
I reparti
speciali nelle aziende
Allo stesso modo siamo preoccupati per una tendenza
all'isolamento e all'emarginazione che riscontriamo nei reparti speciali, ad
esempio della Fiat: le cosiddette UPA (Unità produttive accessoristiche) la
cui forza lavoro è composta in massima parte da invalidi e inidonei.
Da un lato essi dimostrano che quanto andiamo
sostenendo è già realtà. L'handicappato adibito ad un posto di lavoro idoneo,
può raggiungere una piena capacità lavorativa. Dall'altra, tuttavia, non è
pensabile accettare un sistema di lavoro che isoli la persona handicappata
dalla fabbrica e dalla condizione di normalità, indispensabile per un
equilibrio globale della persona.
Il problema del lavoratori «inidonei»
Sappiamo che è un problema di una certa entità e di
non semplice risoluzione. Tuttavia non si può negare il diritto al lavoro per
le persone handicappate e «sostituirle» nella chiamata obbligatoria con le
persone che hanno contratto l'invalidità sul posto di lavoro, dopo una normale
assunzione. Chiediamo che sia aperto il confronto per studiare una soluzione
che non sia lesiva dei diritti delle persone coinvolte (4).
Concludo con la lettura dei primi tre punti del
documento «Handicappati e società» (5) perché ne condividiamo i valori di
riferimento e perché mi sembra opportuno e utile rilevare che anche altre
persone in questo momento (e mi riferisco ai firmatari) sentono l'urgenza di
riaffermare con forza quei principi che da sempre guidano il cammino
dell'integrazione e dell'inserimento sociale e lavorativo degli handicappati.
1. Il
lavoro è un valore che contribuisce a realizzare la persona umana, oltre che a
fornirle la possibilità di sostentamento, di produzione di materiali e quindi
di autonomia.
Il diritto al lavoro è sancito all'art. 4 della nostra
Costituzione, che pone tutti i cittadini su un piano di pari dignità e pari
opportunità.
Tutti i cittadini hanno diritti e doveri da assolvere
nei confronti dello Stato e tutti sono chiamati a partecipare alla costruzione
della società; tutti, compresi quindi i cittadini handicappati, secondo le loro
potenzialità e le loro capacità lavorative.
Lo Stato deve intervenire nella tutela dei cittadini
deboli e cioè privi di sufficiente autonomia e garantire loro una esistenza
dignitosa attraverso un sistema coordinato di servizi sociali alla persona e
alla famiglia.
Cittadino debole è colui che, per le sue condizioni
fisiche e/o psichiche non è in grado di provvedere a se stesso, né sarà mai in
grado di poter svolgere alcuna attività lavorativa, anche semplice, che gli
permetta di essere indipendente e autonomo.
2. La
società deve saper garantire a tutti i cittadini in grado di fornire
prestazioni lavorative, piene o ridotte, il posto di lavoro e comunque la
possibilità di un'occupazione confacente alle attitudini personali. In particolare
il diritto al lavoro va difeso e sostenuto ancor più oggi per il cittadino handicappato.
Se riconosciamo la centralità del lavoro per il
benessere individuale e sociale della persona, a maggior ragione va ribadito il
principio dell'inserimento della persona handicappata a pieno titolo nella
società attraverso il lavoro, il solo mezzo che permette il raggiungimento di
una vera autonomia, nonché fattore determinante per la realizzazione della
persona.
Anche di fronte alla crisi attuale del lavoro non si
può accettare come inevitabile il non inserimento e l'espulsione dalle aziende
ed enti dei lavoratori handicappati, la rinuncia all'affermazione del diritto
a rivendicare posti di lavoro per handicappati, la restrizione applicativa
della normativa vigente (che ha escluso gli handicappati psichici),
l'accettazione passiva di risposte puramente assistenziali che sacrificano le
possibilità lavorative del cittadino handicappato.
L'ideologia dell'assistenzialismo permea ancora
troppo spesso le proposte di vita e le scelte politiche per gli handicappati e
ciò domina in particolare nel campo del lavoro.
3. Va
rifiutata la sola, semplice e facile monetizzazione dell'handicap, quando
l'handicap non elimina la capacità lavorativa della persona. Ciò porta
all'annullamento del diritto della persona a sentirsi viva, partecipe e protagonista
secondo le sue possibilità e quelle della società in cui vive.
L'impostazione economicistica dominante, l'attuale
crisi dell'occupazione non prendono in considerazione tali esigenze. Esse si
basano sulla logica della produttività che viene contestata alla persona
handicappata.
Difendere e proteggere socialmente il lavoratore
handicappato equivale oggi a battersi per il riconoscimento delle sue
possibilità lavorative e della sua produttività.
GLI INTERVENTI DEI RELATORI
Prima di dare la parola ai relatori, Giuseppe
Maspoli, Presidente dell'APE e moderatore del convegno, ha voluto ricordare che
scopo dell'incontro è non solo quello di aumentare la sensibilità verso
questo tipo di problema da parte di tutti gli ambienti, ma anche di cercare di
approfondire le esigenze delle imprese. «Tali argomenti - ha proseguito
Maspoli - devono essere affrontati con estrema responsabilità; occorre trovare
un giusto contemperamento tra due esigenze che sono altrettanto fondamentali».
Superiamo la logica assistenziale,
quando la persona handicappata può esercitare il suo diritto al lavoro
«Battersi per il lavoro, come strumento di
autosufficienza del l'handicappato, la sua fuoriuscita dal circuito
assistenziale, la sua autonomia; ma ancor più per il lavoro come strumento
fondamentale per l'assunzione di una piena identità sociale, per renderlo
protagonista della sua vita, della società, del suo tempo» è, per l'On. Angela
Migliasso del PCI, uno dei punti nodali su cui centrare tutti gli sforzi. «Non
va dimenticato che le persone handicappate sono state tra le prime ad essere
espulse nei momenti di crisi economica», ha aggiunto Migliasso, e quanto «i
periodi di recessione economica e le fasi di ristrutturazione del processo
produttivo abbiano comportato un uso indiscriminato della cassa integrazione e
siano diventate uno strumento delle dimissioni incentivate (spesso accettate
dopo pressioni e mortificazioni di ogni tipo da parte delle persone
handicappate); né bisogna scordare il vero e proprio confino per coloro che
sono rimasti o sono rientrati dalla cassa integrazione nelle cosiddette U.P.A.»
già ricordate nella relazione introduttiva.
Anche per l'On. Guido Bodrato, Vice-Segretario
nazionale della DC, è indispensabile innanzittutto favorire «la maturazione di
un orientamento più profondo, che sia capace di riflettersi poi nei
comportamenti dei cittadini e li spinga a mobilitarsi e a sostenere quelle
riforme che hanno sempre qualche costo, ma che si propongono di raggiungere
obiettivi umanamente di grande valore». «Bisogna riconoscere - continua - che
c'è una certa contraddizione tra un discorso generale sulla solidarietà che quasi
tutti accettano, e una pratica dove il discorso diventa più immediato e
concreto, rispetto al quale questa idea di solidarietà rischia di fermarsi al
livello dell'assistenzialismo, alle risorse da destinare all'assistenza,
perché urta con quella cultura della produzione dell'economia, che è certamente
una cultura dominante e a volte anche nel semplice modo di pensare della gente
comune. Questo è il problema che abbiamo di fronte, e questo diventa certamente
il problema politico. Si può riconoscere che c'è un inevitabile e importante
spazio da dedicare all'assistenza, ma non è qui che si risolve l'aspetto più
umano del problema, perché altrimenti è alto il rischio che si realizzino
delle operazioni di emarginazione e che queste operazioni di emarginazione
risultino alla fine poco amministrabili».
Qual é la difficoltà del rapporto handicap e mondo
del lavoro?
Secondo il parere dell'On. Migliasso i punti possono
essere così riassunti: «Gli interessi in campo, soprattutto quelli delle
imprese private; la scarsa propensione dell'Amministrazione pubblica a fare la
sua parte fino in fondo, salvo poche eccezioni; la scarsa o nulla propositività
degli Enti locali a farsi parte attiva per l'affermazione dei diritti degli
handicappati. Tutto ciò ha contribuito al fatto che, anche a livello
legislativo, ci sia stato un blocco istituzionale dei lavori, sia per quanto
riguarda la legge quadro sull'handicap; sia per quanto riguarda la riforma
della legge 482/68, che ormai da due legislature è ferma al Senato e ben
lontana dall'essere affrontata secondo criteri innovativi». Eppure le
esperienze lavorative in atto di persone con handicap, anche intellettivo, «smentiscono
- ha tenuto a precisare Migliasso - la principale ragione del rifiuto di tante
aziende ad assumere e integrare nel lavoro chi è più svantaggiato, rifiuto che
risiede principalmente in un pregiudizio di carattere culturale: si sostiene
che la persona handicappata non è efficiente, non produce come gli altri, crea
solo problemi...». Anche l'On. Bodrato pone l'accento sulla cultura
dell'azienda, che è ancora oggi una cultura dell'efficienza e rileva che «le
aziende sono disposte a pagare di più, ma ad avere meno problemi; sono disposte
a concorrere di più in termini di risorse da destinare all'assistenza, mentre
cercano di non concorrere alla soluzione concreta dei problemi della invalidità
e degli handicappati. Ci vuole quindi un supplemento di maturazione culturale e
ci sono resistenze che riguardano non solo i responsabili dell'azienda (quelli
più interessati alla efficienza e al risultato economico), ma riguardano anche
chi vive nella azienda».
Riconosciuta, finalmente, la produttività della
persona handicappata
Riconoscere che la persona handicappata può avere
piena o ridotta capacità lavorativa; riconoscere il suo diritto al lavoro e
alla fuoriuscita dal circuito assistenziale, è il primo passo per il
cambiamento, condiviso da entrambi i parlamentari, e la base, naturalmente,
per impostare correttamente la riforma della legge 482/1968, che dovrà
pertanto superare la distinzione che oggi esclude gli insufficienti mentali e
individuare altre soluzioni per categorie che non hanno nulla a che fare con i
portatori di handicap (vedove, orfani, profughi...).
L'On. Bodrato pone proprio l'accento sulla «esigenza
di affrontare il problema non con riferimento al concetto limitativo
dell'invalidità, ma con riferimento al concetto di capacità lavorativa». E
riferendosi più precisamente ai contenuti della relazione di cui rileva una
sua reale organicità, egli individua due concetti iniziali che hanno una loro
fondamentale chiarezza:
- «il fatto che ci possano essere, e ci sono, molti
portatori di handicap che hanno piena capacità lavorativa, indica che non
bisogna accettare che all'accertamento dell'handicap corrisponda una minore
generale capacità lavorativa»,
- «il collocamento non deve essere casuale, ma
mirato». Egli riconosce pertanto alla relazione iniziale di aver prestato
giustamente attenzione a questo aspetto importante: «deve esserci qualcuno in
grado di far corrispondere la situazione professionale, la domanda di lavoro
dello handicappato con la collocazione concreta in una attività lavorativa
rispetto alla quale ci sia piena capacità lavorativa». Concezione corretta, ma
che pone ugualmente - secondo l'On. Bodrato - problemi di gestione che non
saranno di facile soluzione.
Per quanto riguarda invece la ridotta capacità
lavorativa, «è implicito che richieda degli incentivi che in qualche modo
integrino questa minore capacità lavorativa», ma secondo l'On. Bodrato «non
bisogna ignorare che anche dove c'è piena capacità lavorativa, rispetto ad
alcuni handicappati fisici, è necessaria una presenza di sostegno, perché
quella capacità si possa esprimere, in modo completo».
Tale affermazione (o meglio, preoccupazione per cui
Bodrato ha tenuto a precisare che forse trattasi di una sua non conoscenza
specifica del problema) è stata successivamente contraddetta dalla psicologa
Zagaria, che ha precisato che nel caso di handicap fisico con piena capacità
lavorativa il cosiddetto «sostegno» iniziale (in termine di persona che si
affianca al lavoratore handicappato) non è mai necessario, in quanto ciò che
conta, in realtà, è prevalentemente l'adattamento del posto di lavoro e
l'accessibilità ai mezzi di trasporto necessari per recarsi sul posto di
lavoro: risolti questi due problemi, non ci sono altre difficoltà: ferma restando
l'idoneità del posto di lavoro scelto in corrispondenza alle capacità
lavorative della persona handicappata.
Quali indicazioni e orientamenti per la riforma della
legge 482/1968?
L'On. Migliasso sostiene di fatto che la riforma
della legge 482 e la concretizzazione del diritto al lavoro dipenda dal
verificarsi di tre condizioni:
- una battaglia culturale di vasto respiro, che
comprenda oltre agli interessati le forze politiche, i partiti, il sindacato;
- una legislazione che si fondi sul principio della
prevenzione intesa nel suo significato più ampio (sanitaria e riabilitativa, ma
anche ambientale; che preveda accessibilità ai mezzi di trasporto ed
eliminazione delle barriere architettoniche, che persegua l'inserimento al
lavoro);
- una contrattazione, tanto più significativa ora che
si apre una grande stagione di rinnovi contrattuali del settore pubblico e
privato, che abbia come obiettivo l'inserimento degli handicappati fisici e
insufficienti mentali, la rimozione delle barriere architettoniche, con
adattamento dei posti di lavoro.
Infine, secondo l'On. Migliasso, molto si può e si
deve chiedere:
a) al sindacato perché non consideri marginali e
residuali queste tematiche, ma le senta e le pratichi come elementi costitutivi
di una politica di uguaglianza, di solidarietà, di pari opportunità che dice di
voler realizzare. Primo banco di prova sarà quindi la predisposizione delle
piattaforme contrattuali del settore pubblico e privato;
b) agli enti pubblici, che devono svolgere un ruolo
di stimolo e promozione anzitutto assumendo persone handicappate, ma anche
incentivando politiche di inserimento lavorativo in normali contratti
formazione-lavoro, di istituzione di corsi prelavorativi per valutare le
concrete possibilità di intervento e per fornire la necessaria preparazione
agli handicappati. Di più, essi devono diventare negoziatori di risorse
promuovendo veri e propri tavoli di lavoro che vedano la partecipazione di
tutti i protagonisti;
c) alle imprese private, che si sono ristrutturate
in questi anni attingendo abbondantemente ai finanziamenti pubblici (in modo
diretto, sotto forma di cassa integrazione, prepensionamenti, fiscalizzazioni
degli oneri sociali). Nessuno si sogna di negare alle imprese il diritto di
conseguire profitti; il problema, oggi, è di sapere se esse intendono svolgere
anche un ruolo sociale.
Ed è per queste ragioni, ha continuato l'On.
Migliasso, che «le imprese non possono, anche se accade spesso, creare gli
invalidi e poi ghettizzarli, emarginarli, ricoprire con questi le quote di
assunzione obbligatoria; non hanno diritto di scaricare sulla società i
problemi da loro stessi creati. La sfida positiva che viene da questo convegno,
ha concluso poi, è che tutti insieme siamo chiamati a garantire dignità,
autonomia, possibilità di realizzazione come persone, a chi è più debole e per
questo ha più diritto degli altri».
Più problematiche, anche se in senso positivo, le
conclusioni dell'On. Bodrato che affronta - precisando da «non addetto ai
lavori» - il discorso sugli strumenti. «Chi classifica gli handicappati, chi
gestisce i posti di lavoro realizzando il collocamento mirato, che è
necessario e che è il punto chiave di tutto il discorso, per dare risposte che
siano coerenti con l'impostazione? Se si riesce a risolvere il problema della
gestione di questa situazione: il rapporto tra l'accertamento e la
valutazione degli handicappati e la individuazione dei posti di lavoro che
possono permettere la valorizzazione massima delle qualità umane, della
capacità professionale e di lavoro degli handicappati, l'impostazione - egli
dice - è una impostazione corretta e credo che in questo senso non dobbiamo
soltanto ascoltare, ma anche cercare di corrispondere alle indicazioni che
emergono».
Il parere degli imprenditori: l'occupazione degli
handicappati non si realizza con la costrizione
Il rappresentante dell'Unione industriale, Giuseppe
Gherzi, ha esordito mettendo in evidenza che «una delle accuse più frequenti
che viene rivolta al sistema delle imprese è quella di avere una scarsa
sensibilità nei confronti del problema dell'inserimento al lavoro dei soggetti
che sono portatori di handicap». «Riteniamo - ha continuato - che sia invece
compito della legislazione esprimersi in questa materia che è così delicata,
ispirandosi ad una visione di equilibrio tra i diversi interessi che deve
coprire:
-
da un lato l'interesse di mandare a lavorare alcuni cittadini;
-
dall'altro nel rispetto delle imprese, che devono far lavorare quei determinati
soggetti. Una cosa è certa: la legge 482/1968 ha già fatto il suo tempo».
Severino Conti, rappresentante dell'API, Associazione
piccole e medie industrie, mette in dubbio proprio il sistema
dell'obbligatorietà. «Il fatto che il sistema delle imprese debba farsi carico
di quote di occupazione obbligatoria in modo coattivo e indiscriminato ha
certamente - a suo avviso - castrato la spontaneità degli operatori economici
a porre la propria attenzione su questa realtà sociale».
Gherzi è del parere che sia proprio questo sistema
di collocamento uno dei problemi che ha reso inefficace il meccanismo di questi
ultimi anni e che quindi la riforma del collocamento potrà essere tale solo se
due obiettivi saranno centrati:
- «ridefinire in termini maggiormente riequilibrati
quale deve essere il contributo delle imprese all'assolvimento del dovere di
solidarietà, che l'art. 38 della Costituzione in parte affida anche allo Stato;
- «realizzare le condizioni idonee per valorizzare
nel miglior modo possibile le capacità e le attitudini dei portatori di
handicap in forme consone alla loro dignità sociale».
Anche per Severino Conti è stata proprio «la mancanza
delle caratteristiche essenziali per porre questi soggetti sul mercato del
lavoro, quali: il riconoscimento delle attitudini al lavori disponibili, la
fungibilità alle mansioni, la nominatività della selezione e, per i soggetti
con ridotta capacità lavorativa, la formazione professionale, la mancanza di
contributi per il loro utile inserimento lavorativo, l'assenza di strutture di
assistenza sociale adeguata, ad avere certamente segnato in modo negativo le
finalità che la legge si proponeva».
Circa l'obbligo di assunzione Giuseppe Gherzi afferma
che per l'Unione Industriale il primo aspetto da ridefinire «in termini più
equilibrati nel nostro sistema, è l'allineamento delle aliquote d'obbligo a
quelle esistenti negli altri paesi europei, tutte decisamente molto più basse,
(Olanda 2%, Inghilterra 3%, Germania 6%, Francia 10% di cui 3% agli invalidi
civili), fino a paesi come Svizzera, Belgio e Stati Uniti dove non esiste
nessun obbligo di avviamento al lavoro obbligatorio».
Il rappresentante dell'API, invece, dopo aver
condiviso con la relazione iniziale la suddivisione dei soggetti handicappati
tra quelli con piena, ridotta, o nulla capacità lavorativa, sostiene che non è
invece condivisibile la proposta del CSA che «vuole nuovamente venga
riaffermato, in modo indiscriminato, il concetto della quota di occupazione
obbligatoria di invalidi e di handicappati, seppure con percentuali inferiori».
Egli si chiede «quanto sia meglio insistere sull'imposizione
obbligatoria o quanto sia meglio ricercare soluzioni per il recupero professionale
e non assistenziale» e ritiene che «gli interventi da attuarsi per favorire l'inserimento
degli handicappati e degli invalidi in genere, nel mondo del lavoro, debbano
essere esaminati una volta per tutte con un'altra ottica», con «proposte che si
collochino in una ragionevole possibilità di essere realizzate e contengano
elementi che presentino i soggetti invalidi o handicappati come lavoratori».
E
cita ad esempio:
- «gli stages prelavorativi: un periodo di inserimento
tirocinante per confermare la fungibilità del soggetto alle tipologie
produttive dell'azienda;
- il tirocinio vero e proprio, una sorta di contratto
formazione-lavoro, commisurato alle ridotte capacità del soggetto;
- sostegni di carattere economico che permettano
all'azienda di ridurre il costo dell'inserimento del soggetto e del suo
adattamento all'interno del proprio sistema produttivo;
- una assistenza sociale che contribuisca a rendere
il soggetto autonomo nella vita in società in relazione al mondo del lavoro».
Sono queste alcune proposte che non richiedono - a
detta di Severino Conti - «l'aumento, dei costi sociali di sostentamento delle
categorie degli handicappati, ma richiedono una loro diversa utilizzazione,
una razionalizzazione degli interventi, una finalizzazione dell'investimento».
E che «questa sia la strada da intraprendere lo ha dimostrato - continua - il
recente accordo che l'API ha sottoscritto in questi giorni con CGIL -CISL-UIL
proprio sul tema specifico degli handicappati e che prevede l'inserimento
presso le aziende associate di un primo gruppo di una trentina di handicappati
intellettivi lievi».
Il rappresentante dell'Unione Industriale pur
concordando con gli aspetti innovativi introdotti dalla relazione iniziale
(accertamento rigoroso della capacità lavorativa, collocamento mirato) ha
voluto tuttavia precisare che due altri punti sono rigorosamente importanti e da
salvaguardare per le imprese: la richiesta nominativa e il computo dei
lavoratori divenuti invalidi, dopo l'assunzione tramite collocamento ordinario.
Inoltre ha ribadito che devono essere introdotte «procedure idonee in materia
per garantire parità di trattamento tra imprese private e imprese pubbliche e
cita due dati a sua conoscenza: nel sistema delle imprese private gli risultano
avviati, in base alla legge 482, 269 mila invalidi, mentre nel sistema
dell'Amministrazione pubblica sono 88 mila».
E conclude con un'ultima osservazione sulla
esperienza che è stata indicata come negativa, da cancellare... che sono le
U.P.A. «Ricordo - dice Gherzi - che sono state costituite su esplicita
richiesta del sindacato, perché si era ritenuto più opportuno per favorire il
rientro dei lavoratori che erano in cassa integrazione».
Il diritto al lavoro degli handicappati può essere
oggetto di contrattazione?
Per il rappresentante del mercato del lavoro della
Cisl di Torino, Antonio Buzzigoli, il diritto al lavoro degli handicappati
impone doveri anche per le imprese. Ha chiesto pertanto «maggiore verità
rispetto ai termini solidarietà e imposizione», così tanto usati nel corso del
dibattito. «Solidarietà - a suo modo di vedere - non ce n'è molta; è inutile
quindi - egli dice - che giochiamo sulla solidarietà... La crisi economica ha
comportato una situazione per cui le persone si ritrovano ad essere una contro
l'altra. Certamente va costruita una realtà più solidale, ma per ora non c'è».
Circa il termine imposizione, usato da entrambi i rappresentanti degli
imprenditori egli sottolinea quanto sia importante ritornare ai principi cui si
ispira la legislazione sul collocamento. «O le persone handicappate sono
titolari di un diritto, o non sono titolari di un diritto». Ma «se sono
titolari di un diritto, ci sono dei doveri e ci sono degli obblighi». Ed è qui
che, secondo Buzzigoli, si pone un primo problema: «gli handicappati se sono
oggetto di diritto, non possono essere oggetto di contrattazione, così come è
accaduto finora con la legge 482/1988!». Per esempio se ci riferiamo proprio
all'accordo citato con l'API, continua Buzzigoli, «Conti, che è qui a
rappresentarla, deve anche ammettere che le imprese hanno realizzato uno
scambio, non indifferente; scambio che si è realizzato con la concessione - da
parte del sindacato - della chiamata nominativa e diretta». Che cosa può fare,
ormai, il sindacato, dopo aver concesso tutto? Si chiede Buzzigoli, che precisa
inoltre: «Il sindacato non ha più molta contrattazione, a meno che non si
trasformi anche il salario degli altri lavoratori in oggetto di scambio; ma
questo non favorirà di certo la solidarietà. La solidarietà è un sentimento in
cui ognuno deve vedere anche soddisfatte le proprie esigenze; non può essere
un sentimento solo gratuito, per cui anche gli altri lavoratori devono poter
realizzare un loro reale beneficio dall'inserimento dei portatori di handicap».
Per tali ragioni il rappresentante sindacale ritiene
che debba esserci un'imposizione, se c'è un diritto, e alla rigorosità della
legge deve pertanto corrispondere una sanzione altrettanto rigorosa. Egli
cita ad esempio quanto succede in Germania, dove è vero che le aliquote di
percentuale obbligatoria sono molto inferiori a quelle italiane (6%), ma è
altrettanto vero che le aziende che non le rispettano sono soggette a pesanti
sanzioni. Tutto questo non succede in Italia dove ad un meccanismo farragginoso
e complesso fa seguito una sanzione irrisoria per le aziende insolventi (L. 50
mila!).
Accenna infine alla possibilità per il Ministro del
lavoro di decretare lo scorrimento delle categorie che non hanno più iscritti,
sottolineando che, se questo si verificasse, ci sarebbero posti di lavoro per
migliaia di persone handicappate iscritte alle liste attuali del collocamento.
Conclude il suo intervento con la richiesta di una nuova legge che non sia più
contrattata come è l'attuale.
Infine lancia una riflessione per tutti coloro che
sono impegnati nel settore: «Qualche cosa di nuovo dovrà essere ripensato per
le persone che attualmente rientrano tra gli handicappati psichici con forme di
malattia mentale. A detta di Buzzigoli si possono trovare soluzioni migliori di
quelle attuali, soluzioni anche occupazionali, benché con tempi parziali e
protezioni adeguate, indispensabili tuttavia per evitare la loro esclusione
totale».
Continuità tra formazione professionale e occupazione
L'Assessore al lavoro e formazione professionale del
Comune di Torino, Sergio Gaiotti, ha ricordato quanto sia difficile trovare,
oggi, una possibilità di lavoro per gli handicappati fisici e psichici, anche
dopo i corsi di formazione professionale. «Sappiamo che la civiltà cresce
nella misura in cui è attenta ai bisogni del più debole. Si tratta di barriere
culturali che spesso ci pongono l'handicappato come diverso, mentre pur nella
diversità è egli persona simile alle altre. C'è una mentalità nuova da far
emergere».
Mettendo a confronto i dati Istat dal 1982 al 1986
egli rileva come «mentre venivano concessi dallo Stato 2 mila miliardi alla
FIAT, la FIAT espelleva 70 mila persone con un calo sostanzioso di persone
handicappate». E oggi, ha continuato l'Assessore al lavoro «risulterebbe che
sono ben 2 mila le persone handicappate che dovrebbero essere assunte dalle
aziende di Torino e provincia» per cui sarà urgente che il Comune di Torino e
i rappresentanti delle imprese trovino - a detta di Gaiotti - un tavolo comune
su cui avviare una seria riflessione.
Diverso, anche per l'Assessore, l'approccio con gli
handicappati psichici, per i quali tuttavia egli vede bene la realizzazione,
anche attraverso le forme di cooperazione, di attività che valorizzino le
capacità creative comunque presenti in questi soggetti, in collaborazione e con
il sostegno dell'ente locale, delle famiglie, dei volontari.
Come Ente locale egli crede inoltre «che debba
essere ripreso e perseguito un confronto con l'Unione industriale e l'API per
evidenziare e potenziare quei posti in cui la formazione professionale può
intervenire realizzando casi uno sbocco occupazionale finale». E si sofferma
così in particolare sulla situazione in cui si trovano oggi i soggetti
insufficienti mentali che frequentano i corsi prelavorativi dell'Assessorato
al lavoro; ragazzi che finiscono per ritrovarsi al termine dei corsi «a casa
come prima, con difficoltà più grandi di quelle di prima perché hanno
dimostrato di saper fare e tornano così di nuovo in famiglia, soltanto con
l'affetto della famiglia, ma sentono di essere una persona inutile». «Dobbiamo
quindi impegnarci per evitare che questi anni di formazione non siano serviti a
nulla», ha concluso l'Assessore.
Modificare la dichiarazione di invalidità, quindi la
commissione che predispone questa dichiarazione
Vincenza Zagaria, psicologa dell'Ussl 24 e componente
dell'équipe che segue gli inserimenti lavorativi dei portatori di handicap,
precisa che «fare un po' di chiarezza in merito a problemi più tecnici è quanto
mai necessario per non fare del pressappochismo quando si parla di handicappati,
perché, altrimenti, diventa ancora più complessa proprio perché la materia non
è chiara. Per distinguere tra ridotta capacità lavorativa e piena capacità
lavorativa è importante riferirsi a quanto prevede la medicina legale. Non
risulta né obbiettivo né utile innescare meccanismi di valutazione automatici
sulla base di schemi stereotipi e inespressivi». Ella continua soffermandosi
in particolare sulla definizione dell'insufficienza mentale.
«Che cos'è l'insufficienza mentale? È la condizione
per cui già dalla prima età dell'individuo sono presenti funzionamenti
intellettuali inferiori alla media. Condizione questa diversa dalla malattia
mentale che si definisce invece in presenza di comportamenti e disturbi legati
alle sfere cognitive, emotive e sociali».
Per modificare il tipo di collocamento è quindi
importante riuscire a stabilire tramite una dichiarazione di invalidità le
capacità (piene, ridotte o nulle) lavorative del soggetto handicappato.
Da qui l'importanza di modificare anche l'attuale
commissione che è addetta alla predisposizione di tale dichiarazione. Anzi,
meglio sarebbe, a detta della psicologa Zagaria. «introdurre una procedura
declaratoria in quanto si dovrebbe trattare di una descrizione di problemi che
questa persona ha nei confronti della fabbrica, del posto di lavoro in cui
verrà inserita (...). Per descrivere occorre una impostazione assolutamente
diversa dall'attuale commissione anche nelle persone che la costituiscono. Sarà
infatti necessario introdurre la presenza di figure più professionali e
interpellare le persone e le figure professionali che hanno seguito le persone
handicappa-te nella loro preparazione professionale».
Riferendosi poi ad alcune osservazioni del dottor
Gherzi rappresentante dell'Unione Industriale, che aveva rilevato la eccessiva «obesità»
del numero degli invalidi iscritti al collocamento, Zagaria fa presente che «se
ci fosse una declaratoria chiara non ci sarebbe più il problema dei falsi
invalidi, problema che interessa tutti, perché la declaratoria conterrebbe in
sé tutti gli elementi descrittivi capaci di aiutarci a individuare gli
handicappati e le loro potenzialità effettive».
La psicologa si rivolge infine anche agli operatori
sollecitandoli a proporre inserimenti al lavoro solo per quelle persone con
insufficienza mentale la cui capacità lavorativa è tale da garantire un grado
di resa produttiva, proporzionale alle loro possibilità e alle richieste del
posto di lavoro. Non si deve proporre «l'inserimento al lavoro per quelle
persone la cui gravità sarebbe oltre che di pregiudizio per l'ambiente anche
dannosa per la stabilità psichica e relazionale del soggetto stesso. Sgombriamo
il campo dalla confusione che, sovente, anche noi operatori contribuiamo a
creare... proponiamo la candidatura di persone per le quali si riduce realmente
sia il costo dell'assistenza che dell'intervento di sostegno e si verificano
concrete possibilità di riuscita».
Gli orientamenti del Governo
Ha concluso il convegno il Ministro del lavoro Carlo
Donat Cattin, che ha ricordato che «l'unica proposta all'esame è quella che
prevede l'estensione del collocamento obbligatorio ai soggetti affetti da
menomazioni psichiche (...) per cui il Senato sta elaborando una legge che
dovrebbe modificare questa situazione di carenza del settore più delicato e
difficile. L'orientamento è diverso da gruppo a gruppo - continua il Ministro
- perché la mera obbligatorietà rischia di trovare una rigidità di applicazione
che può dar luogo a rigetto, se non c'è la volontà di assorbire l'handicappato
psichico. L'ambiente di lavoro non è un convegno in cui si discute con affetto
e con passione della causa degli handicappati, è una cosa estremamente diversa
e non soltanto il datore di lavoro, ma anche il lavoratore spesso manifesta
resistenze. La tesi che sosteniamo come governo è quella che prevede
convenzioni di riabilitazione, le cui radici si possono ritrovare in quanto
esposto nella relazione di apertura di questo convegno. Un collocamento mirato,
assistito nel senso che l'ambiente di lavoro sia capace di ricevere, non di
respingere; non un atto burocratico, ma soddisfazione di un dovere. Non
obbligatorietà, dunque, ma convenzioni con collocamento mirato».
Naturalmente, precisa il Ministro, ci sarà la
tendenza a irrigidire l'istituto della convenzione principalmente in rapporto
con le grandi unità produttive, che si sottraessero alla convenzione stessa.
Mentre «la convenzione nella minore unità produttiva ha bisogno di un certo
grado di volontariato, la convenzione nella grande unità produttiva ha anche
bisogno di una obbligatorietà».
Quindi, secondo il Ministro, sarà opportuno attingere
ai due diversi sistemi, anche se per ora non c'è ancora un pronunciamento circa
le percentuali che saranno imposte per garantire, anche nel sistema della
convenzione, un certo numero di assunzioni.
Per quanto riguarda i contenuti espressi nella
relazione di base circa i laboratori protetti ritenuti esperienze negative e
inutili per persone handicappate in possesso di capacità lavorative piene o
ridotte, il Ministro dichiara: «Posso convenire anch'io che i laboratori
protetti hanno molti aspetti negativi, senza dubbio! Ma tra una struttura del
collocamento che al di là delle leggi è quella che è, oggi, e lo zero assoluto
dei laboratori protetti, io sceglierei sempre la soluzione che è stata
adottata nella elaborazione del piano degli handicappati, inserita nel piano
sanitario nazionale. Tale soluzione prevede di avere in tutto il paese un
numero di 570 laboratori protetti per un totale di 8600 posti, come dato obbligatorio.
Perché, è in ogni caso, meglio che contare semplicemente sulla famiglia o in
qualche ricovero senza alcuna attività, avere laboratori protetti, piuttosto
che non avere nulla».
Ad ogni modo il Ministro precisa anche che con questo
non si vuole certo affermare che «il laboratorio protetto sia la perfezione o
la soluzione» ricordando inoltre che i confini «sono dati proprio anche dalla
durata del piano, per cui negli anni successivi si potrebbe anche decidere
diversamente»: «tutto può essere cambiato, cancellato» (6).
Il Ministrò si sofferma poi sull'indicazione che
viene dalla proposta presentata in apertura, che si orienta giustamente,
secondo il suo parere, su quote piuttosto ridotte per le percentuali di
assunzione obbligatoria e ricorda al rappresentante dell'Unione Industriale
(che aveva citato l'esempio di alcune nazioni non soggette all'obbligatorietà)
che a quanto gli risulta in quelle realtà gli handicappati sono tuttavia
assunti direttamente dalle imprese!
Condivide anche l'introduzione della distinzione tra
piena e ridotta capacità lavorativa, ma ritiene che un altro elemento
fondamentale per una piena riforma del collocamento sia la messa a punto di un
disegno di organici professionalmente preparati.
Tiene inoltre a precisare che la riforma della legge
482 non rientra fra gli accordi di governo, per ora, anche perché i contrasti
sono molto forti in materia di collocamento. «È necessario un consenso di base
che sostenga una eventuale iniziativa del Governo» ha affermato Donat Cattin.
Pertanto, pur impegnandosi a tenere in considerazione gli elementi positivi
riscontrati nella relazione introduttiva sia nella prossima discussione che
avrà luogo per la legge che disciplina il mercato del lavoro (e che contiene
anche norme sul collocamento obbligatorio), sia nella elaborazione della
legge sul collocamento obbligatorio, il Ministro ritiene in ogni modo
opportuno che i gruppi parlamentari presentino loro iniziative specifiche e
invita pertanto i presenti ad attivarsi, ciascuno nel proprio ambito politico,
affinché le esigenze lavorative degli handicappati acquistino una loro
dimensione concreta e un peso significativo da parte di tutti i partiti.
(1) Il testo integrale degli
interventi dei relatori e dei partecipanti al dibattito, che qui non
pubblichiamo per esigenze di spazio, sarà riportato negli atti che si spera
possano essere pubblicati.
(2) La relazione introduttiva, a cura
del Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base e della Lega nazionale
per il diritto al lavoro degli handicappati di Torino, è stata presentata da
Maria Grazia Breda.
(3) Il documento è riportato sul n. 88, ottobre-dicembre
1989, di Prospettive assistenziali
(4) La questione della computabilità
degli addetti che sono divenuti invalidi durante lo svolgimento del rapporto di
lavoro nelle aliquote del personale che le imprese sono tenute ad occupare ai
sensi della legge 482/68, è stata ripetutamente affrontata anche dalla
giurisprudenza, che finora si è orientata nel senso della non computabilità. Il
problema che si presenta, ovviamente anche con risvolti delicati sul piano
umano, può essere risolto se, anche in questo caso, si valuta la capacità
lavorativa della persona e si ricerca di conseguenza una attività lavorativa
diversa, ma idonea alle sue mutate condizioni fisiche, all'interno
dell'azienda.
(5) II documento «Handicappati e
società: quali valori, quali diritti, quali doveri» è stato elaborato da un
gruppo informale di persone appartenenti ad associazioni e movimenti impegnati
da anni nella promozione dell'integrazione reale delle persone handicappate,
convinte tuttavia della necessità di rilanciare, nuovamente oggi, un messaggio
culturale e valoriale su queste tematiche, per evitare pericolose fasi di
arresto, se non di regressione.
Il gruppo informale continua a
riunirsi e sta predisponendo un nuovo documento più specifico sull'inserimento
lavorativo. Chi desidera esserne informato può rivolgersi e M. G. Breda, via
Foligno 70 - 10149 Torino, tel. 011-211.398.
(6) Rimandiamo alla lettura del
paragrafo relativo ai laboratori protetti della relazione iniziale, ricordando
che il fatto più grave - a nostro avviso - consiste nel destinare risorse non
indifferenti nella creazione di «contenitori», che non sono utili ai fini della
preparazione al lavoro delle persone handicappate con capacità lavorative.
www.fondazionepromozionesociale.it