Prospettive assistenziali, n. 90, aprile-giugno 1990
DECISIONE DELLA COMMISSIONE EUROPEA
DEI DIRITTI DELL'UOMO SULLA VICENDA DI SERENA CRUZ
Pubblichiamo
il testo integrale della decisione della Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo
che dichiara manifestamente infondato il ricorso presentato dai coniugi
Giubergia.
La Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo,
riunita in camera di consiglio il 5 marzo '90 nelle persone dei Signori C.A. Norgaard - Presidente, J.A. Frowein, S. Trechsel, F. Ermacora, G. Sperduti, E.
Busuttil, A. Weitzel, J.C. Soyer, H. G. Schermers, H. Danelius, G.H. Thune, B.
Hall, F. Martinez, C.L. Rozakis, J. Liddy, L. Loucaides, H.C. Kriiger -
Segretario della Commissione e J. Raymond - Segretario aggiunto della Commissione;
Visto l'art. 25 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali;
Vista la richiesta presentata il 3 aprile 1989 da
Francesco Giubergia, Rosanna Giubergia-Gaveglio, Nasario Giubergia e Serena
Cruz contro l'Italia e registrata il 16 giugno 1989 al numero di registro 15131/89;
Vista la relazione prevista dall'art. 40 del regolamento
interno della Commissione;
Dopo aver deliberato;
Ha emesso la seguente decisione:
IN FATTO
I
fatti, così come esposti dai richiedenti, sono i seguenti.
La richiesta è stata presentata dai coniugi Francesco
Giubergia, n. il 13 febbraio 1951 a S. Albano Stura (CN) e Rosanna Gaveglio Giubergia,
n. il 16.5.1954 a Casalgrasso (CN) sia in proprio che a nome dei minori Nasario
Giubergia, figlio adottivo della coppia, e Serena Cruz, nata il 20 maggio 1986
a Manila, Filippine, che il primo richiedente ha dichiarato essere sua figlia
naturale.
Per la procedura davanti a questa Commissione, i
predetti sono rappresentati da Michele Catalano, avvocato in Milano.
Nell'autunno del 1986, i richiedenti avevano
adottato, in conformità alla legge italiana in materia di adozione
internazionale, il terzo richiedente, Nasario, di nazionalità filippina.
Nel gennaio 1988, essi effettuarono un secondo
viaggio nelle Filippine e rientrarono a Torino accompagnati da Serena, la
quarta richiedente, dichiarata alle autorità filippine e italiane come figlia
naturale riconosciuta dal primo richiedente.
Pochi giorni dopo il rientro in Italia dei richiedenti,
il Tribunale per i minorenni di Torino fu informato della presenza presso la
coppia di una minore per la quale non era stata presentata alcuna domanda di
adozione. Il Tribunale aprì un'inchiesta. I due primi richiedenti furono ascoltati
dal magistrato incaricato della pratica nei giorni 22 e 29 gennaio 1988. Il
primo richiedente sostenne che durante il soggiorno effettuato nel 1986 nelle
Filippine per adottare Nasario aveva avuto una relazione con una cittadina di
quello Stato e che da questa relazione era nata Serena. Poiché la madre non era
in grado di provvedere al sostentamento della piccola, egli era ritornato nelle
Filippine per riconoscere la bambina e portarla con sé in Italia.
Nel febbraio 1988, il primo richiedente chiese che
Serena, sua figlia naturale, venisse inserita nella sua famiglia legittima ai
sensi dell'art. 252 del codice civile, che dispone che «l'inserimento del
figlio naturale nella famiglia legittima di uno dei genitori può essere
autorizzato dal giudice qualora ciò non sia contrario all'interesse del minore
e sia accertato il consenso dell'altro coniuge e dei figli legittimi che
abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e siano conviventi, nonché
dell'altro genitore naturale».
Prima di accogliere questa richiesta, nel dubbio
circa la veridicità delle dichiarazioni fatte dal primo richiedente in merito
alla sua paternità della bambina, il 24 marzo 1988 il tribunale dispose un
atto istruttorio, consistente nell'analisi del sangue.
Il richiedente impugnò questa decisione davanti alla
Corte d'appello, che la confermò il 3 maggio 1988.
Il Tribunale per i minorenni, pertanto, convocò
nuovamente il richiedente per il giorno 27 giugno 1988. Quest'ultimo, allora,
sollevò diverse eccezioni di procedura. Finalmente il 19 luglio 1988 il
Tribunale confermò l'ordine per la perizia, nominando un esperto.
Ciononostante la perizia non poté essere svolta a
causa del comportamento dilatorio del richiedente.
L'11 novembre 1988 il Tribunale, visto il comportamento
del richiedente e ritenendo verosimile che il riconoscimento di paternità da
lui effettuato fosse stato fatto falsamente per eludere una regolare procedura
di adozione internazionale, prese le seguenti decisioni:
-
rifiutò di inserire Serena nella famiglia legittima del primo richiedente;
-
decise l'immediato allontanamento della minore dalla famiglia dei tre
richiedenti;
- nominò alla minore un curatore speciale per
l'impugnazione del riconoscimento di paternità;
- aprì la procedura di adozione della minore essendo
quest'ultima in situazione di abbandono e senza alcuna assistenza morale e materiale
da parte della sua famiglia naturale.
I provvedimenti così assunti dal Tribunale per i
minorenni di Torino furono impugnati dai richiedenti davanti alla Corte
d'appello di Torino.
Prima di esaminare il ricorso, la Corte d'appello di
Torino decise, in data 6 dicembre 1988, di svolgere un'indagine più
approfondita sul riconoscimento di paternità effettuato dal primo richiedente.
All'esito dell'indagine, risultò che il primo richiedente
non aveva mai effettuato alcun riconoscimento valido per il diritto italiano.
Pertanto la Corte d'appello annullò la decisione del Tribunale che aveva
autorizzato la minore ad impugnare il riconoscimento di paternità, non apparendo
più necessaria questa iniziativa, e confermò nel resto la decisione appellata.
Il 9 febbraio 1989, i primi due richiedenti presentarono
al Tribunale per i minorenni di Torino domanda di adozione di Serena,
chiedendone l'affidamento preadottivo.
Il 21 febbraio 1989, il Tribunale per i minorenni
respinse la domanda di adozione rilevando che ai sensi dell'art. 9 della legge
184/1983 i richiedenti non potevano adottare la bambina. Ed effettivamente
l'art. 9 prevede che «chiunque, non essendo parente entro il quarto grado,
accoglie stabilmente nella propria abitazione un minore, qualora l'accoglienza
si protragga per un periodo superiore a sei mesi, deve, trascorso tale periodo,
darne segnalazione al giudice tutelare, che trasmette gli atti al tribunale per
i minorenni con relazione informativa. L'omissione della segnalazione può
comportare l'inidoneità ad ottenere affidamenti familiari e l'incapacità
all'ufficio tutelare».
Il Tribunale rilevò in particolare che i richiedenti
avevano introdotto con la frode la bambina nella propria abitazione, senza
avere con lei alcun legame di parentela. Rilevò inoltre che i richiedenti,
convocati dal Tribunale per i minorenni a distanza di pochi giorni dall'arrivo
della bambina in Italia, erano stati messi perfettamente al corrente che nei
confronti della stessa avevano persistito per più di dieci mesi nelle loro dichiarazioni,
rilevatesi infine menzognere, al solo scopo di eludere la procedura regolare di
adozione.
Il Tribunale sottolineò inoltre che i richiedenti
avevano agito in piena conoscenza di causa in quanto, avendo già effettuato una
adozione internazionale, erano a conoscenza delle regole da osservare per
adottare un minore.
Invece essi, con la loro tattica dilatoria, avevano
cercato di creare una situazione di fatto insostenibile, calpestando il vero
benessere di Serena. Per tutti questi motivi non potevano essere dichiarati
idonei alla sua adozione.
Il Tribunale decise, da ultimo, che - non potendo i
richiedenti adottare Serena - il collocamento della minore nella loro famiglia
non era auspicabile, non potendo la stessa ottenere presso di loro quello stato
giuridico che le competeva.
La
Corte d'appello confermò la decisione il 14 marzo 1989.
I due primi richiedenti, allora, si rivolsero
nuovamente al Tribunale per i minorenni di Torino e chiesero la revoca delle
misure decise con il provvedimento del 21 febbraio 1989. Avvalendosi della
relazione di un consulente, sostennero che - a seguito del suo allontanamento
dalia famiglia - Serena aveva subìto un trauma così grave da compromettere il
suo equilibrio fisico presente e futuro. Sostennero che questa situazione
costituiva a loro giudizio una circostanza tale da indurre il Tribunale a revocare
la propria decisione del 21 febbraio 1989.
Il Tribunale per i minorenni dispose pertanto delle
indagini per stabilire quale fosse la situazione della bambina nel nuovo
ambiente in cui era stata collocata e chiese un rapporto allo psicologo ed al
medico incaricati di seguirla. Ascoltò anche come testimoni le persone che per
conto dei servizi sociali avevano il compito di sorvegliare la minore.
In base alle informazioni così raccolte, il Tribunale
concluse che non era stato riscontrato in Serena alcun segno di sofferenza
particolare, tale da rendere necessaria la revoca dell'allontanamento dai
richiedenti. Al contrario, l'evoluzione della bambina dimostrava che la strada
scelta per lei era quella maggiormente conforme ai suoi interessi.
Di conseguenza, il 31 marzo 1989 il Tribunale
respinse la domanda di revoca della decisione del 21 febbraio 1989. I
richiedenti presentarono appello.
La Corte d'appello respinse il ricorso. Nella sua
motivazione di undici pagine, la Corte ricordò che la legge 184/83
sull'adozione dettava un certo numero di regole miranti a sventare ogni falso
riconoscimento di paternità che, in quanto tale, potrebbe eludere le procedure
di adozione e le misure di controllo previste per proteggere i minori dai
traffici che li riguardano. Nel rifiutare nel caso di specie di «legalizzare»
la frode verso questa legge, i giudici avevano operato al servizio di questa e
nell'interesse di tutti i minori.
La Corte osservò anche che, pur ammettendo che la
stretta applicazione della legge avesse potuto causare qualche sofferenza alla
bambina, queste sofferenze erano da attribuirsi alla frode prolungata dei
richiedenti, i quali avevano ostacolato una rapida soluzione del caso,
iniziatosi soltanto qualche giorno dopo l'arrivo della bambina in Italia.
Essa sottolineò in particolare che la soluzione
adottata dal Tribunale era, a lungo termine, quella più conforme all'interesse
della bambina.
DOGLIANZE
I due primi richiedenti lamentano che, nel rigettare
la loro domanda di adozione della quarta richiedente, i giudici del Tribunale
di Torino hanno agito arbitrariamente ed hanno violato il loro diritto al
rispetto della vita familiare. Invocano, al riguardo, l'art. 8 della
Convenzione.
Lamentano, inoltre, che allontanando la bambina dopo
che essa aveva vissuto per un anno e mezzo presso di loro, i giudici di Torino
hanno inflitto a Serena e al terzo richiedente un trattamento disumano e
degradante.
DIRITTO
1. I due primi richiedenti hanno presentato la loro
richiesta in nome della quarta richiedente, Serena.
La Commissione osserva, peraltro, che dal complesso
degli atti risulta in maniera inequivoca che non esiste alcun legame di
filiazione tra il primo richiedente e la minore indicata.
D'altronde i richiedenti non hanno nemmeno dimostrato
che essi abbiano esercitato od esercitino a qualsiasi titolo l'autorità
parentale su Serena.
I richiedenti non avrebbero perciò alcun titolo per
rappresentare Serena in una procedura davanti alla Commissione (cfr., mutatis mutandis, n. 9580/81, decisione
13.3.1984, D.R. 36, p. 100).
Ne consegue che la richiesta non può essere
considerata come validamente presentata a nome di Serena.
Sotto questo profilo, la stessa è incompatibile con
le disposizioni della Convenzione contenute nell'art. 27, comma 2°, della
Convenzione.
2. I richiedenti lamentano, poi, che la decisione
del 21 febbraio 1989 del Tribunale per i minorenni di Torino, respingendo la
loro domanda di adozione e di affidamento della quarta richiedente, avrebbero
leso il loro diritto al rispetto della vita familiare garantito dall'art. 8
della Convenzione, così come anche le ulteriori decisioni giudiziali.
Secondo
l'articolo sopra citato:
«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua
vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
2. Non vi può essere ingerenza di alcuna autorità
pubblica nell'esercizio di questo diritto, al di fuori di quelle previste dalla
legge in una società democratica per necessità legate alla sicurezza nazionale,
alla sicurezza pubblica, al benessere economico della nazione, alla difesa
dell'ordine, alla prevenzione degli illeciti penali, alla protezione della
salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui ».
La Commissione ricorda innanzi tutto che, secondo
gli atti del fascicolo, non esiste alcun legame di filiazione naturale (né
giuridica né di fatto) fra i due primi richiedenti e la piccola Serena, né
alcun legame di parentela fra i tre primi richiedenti e la suddetta minore.
Ciò premesso, la Commissione potrebbe esaminare la
questione se la semplice coabitazione fra i tre primi richiedenti e la minore
Serena (coabitazione che, peraltro, si è protratta, prima di formare oggetto di
contestazioni, per nemmeno un mese) sia da qualificarsi come «vita familiare»
ai sensi dell'art. 8 della Convenzione.
Ma il punto non sarebbe influente. Ed in effetti,
anche ammettendo che da tale coabitazione abbiano potuto nascere delle
relazioni rilevanti ai sensi dell'art. 8 della Convenzione, la Commissione
ritiene che una eventuale ingerenza delle autorità era nella specie
giustificata in virtù del secondo comma di questo articolo.
In proposito la Commissione rileva che le doglianze
dei richiedenti sono rivolte sia contro il rifiuto del Tribunale di accogliere
la loro domanda di adozione di Serena che contro il rifiuto del Tribunale di
inserire Serena nella loro famiglia.
Per quanto riguarda il rifiuto opposto dal Tribunale
di Torino alla domanda di adozione presentata dai due primi richiedenti, la
Commissione osserva che esso si fonda sull'art. 9 della legge 184/83, alla
stregua del quale i requisiti previsti per dar corso all'adozione non esistevano
nel caso di specie. Si tratta, dunque, di rifiuto che rientra nella previsione
di cui al secondo comma sopra citato.
Per quanto riguarda la seconda decisione di cui ci si
duole, la Commissione rileva - come del resto è stato sottolineato in tutte le
varie pronunce giudiziarie di questo caso - che tale decisione è in linea con
le disposizioni della legge, finalizzata a smascherare i falsi riconoscimenti
di paternità ed a prevenire l'elusione delle regolari procedure di adozione e
delle misure di controllo stabilite per la protezione dei minori. Si deve
infine esaminare se la misura adottata era necessaria in una società
democratica per la protezione degli altrui interessi.
Poiché si tratta di minori, la Commissione osserva
che è l'interesse di questi ultimi che deve prevalere nella valutazione delle
misure che li riguardano.
Al riguardo, la Commissione constata che le decisioni
assunte dai giudici di Torino, diffusamente motivate, dimostrano che i giudici
hanno soppesato le ripercussioni che avrebbero avuto su Serena sia l'allontanamento
dalla famiglia dei tre richiedenti che l'interesse a lungo termine della
minore.
Tutto ciò considerato, i giudici hanno ritenuto che
l'interesse di Serena non esigeva che si derogasse ai princìpi di ordine
pubblico stabiliti dalla legge 184/83.
La Commissione è dell'opinione che, così facendo, i
giudici non abbiano assolutamente travalicato i limiti di apprezzamento di cui
disponevano nel caso concreto.
In conclusione, anche ammettendo che i richiedenti
abbiano esaurito ai sensi dell'art. 26 della Convenzione i mezzi di ricorso
previsti dalle leggi nazionali, la Commissione ritiene che le doglianze dei
richiedenti siano manifestamente infondate.
Ne consegue che questa parte della richiesta è
palesamente inaccoglibile ai sensi dell'art. 27, comma 2°, della Convenzione.
3. Quanto alla doglianza relativa al trattamento
disumano e degradante che sarebbe stato inflitto dalle autorità italiane, in
violazione dell'art. 3 della Convenzione, al terzo richiedente nell'allontanare
Serena dalla famiglia formata dai primi tre richiedenti, la Commissione non
riesce a ravvisare in che cosa la misura incriminata, di cui si è sopra
riconosciuta la fondatezza in quanto frutto di giusto equilibrio tra gli
opposti interessi che ha fatto prevalere quelli - legittimi - del minore, abbia
potuto attentare alla predetta disposizione. Anche a questo proposito, dunque,
la richiesta è ugualmente infondata (art. 27, comma 2°, della Convenzione).
Per
questi motivi la Commissione dichiara irricevibile la richiesta.
Il Segretario
della Commissione H.C. Krüger
Il Presidente della Commissione C.A.
Norgaard
(Traduzione
dal francese a cura dell'A.N.F.A.A.).
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