Prospettive assistenziali, n. 91, luglio-settembre
1990
GLI ENTI LOCALI NON
DEVONO ABBANDONARE I RAGAZZI IN AFFIDAMENTO FAMILIARE CHE HANNO RAGGIUNTO LA
MAGGIORE ETÀ
MARIA GRAZIA BREDA
«Si porta a
conoscenza delle SS.VV. che, a partire dal 31 luglio 1989 cesserà l'erogazione
del contributo economico e il relativo contratto di assicurazione a suo tempo
stipulato a favore del minore B.V. perché da tale data raggiunge la maggiore
età.
«Nel ringraziare per l'impegno
dimostrato si inviano i migliori saluti».
Con queste poche righe, spedite un mese prima circa
del 18° compleanno del minore in questione, si pone termine all'impegno
intercorso tra la famiglia affidataria e l'ente locale (nel caso in esame il
Comune di Torino).
Una prassi molto burocratica, che stride - e non poco
- con lo spirito di collaborazione tra pubblico (Comune) e privato (famiglia
affidataria), che è la caratteristica prima dell'affidamento familiare.
Così, mentre da un lato assistiamo sempre più di
frequente (per fortuna!) a campagne promozionali di sensibilizzazione, gestite
da enti locali, per favorire e sollecitare la disponibilità delle famiglie ad
accogliere minori in affidamento, dall'altro non si può che restare perplessi
nel constatare in quale modo drastico l'ente locale decida di chiudere ogni
rapporto con le famiglie stesse, con il raggiungimento puramente cronologico
dell'età adulta.
È istintivo pensare che quell'interesse dimostrato
nel cercare una soluzione ambientale e affettiva consona alle esigenze del
minore, che doveva essere allontanato dalla sua famiglia, non era poi così
profondo. In realtà non c'è, o almeno non lo si coglie, un progetto educativo
complessivo, vincolato quindi non tanto all'età (i famosi 18 anni), ma
piuttosto al reale inserimento nella società del minore diventato adulto.
Perché parlare dunque di affidamento educativo, quando in realtà si chiede
alla famiglia affidataria una semplice custodia-parcheggio?
Noi non condividiamo questa impostazione e, invece,
crediamo fermamente nella validità dell'affidamento familiare non solo come
alternativa al ricovero in istituto di quei bambini che non possono continuare
a restare nella propria famiglia, ma anche come esperienza educativa, che, in
quanto tale, deve poter valicare anche i limiti come quello dell'età, se
necessario.
Il confine del 18° anno non equivale, quasi mai, al
raggiungimento dell'autonomia personale ed economica. Quale futuro, dunque, per
chi non ha potuto rientrare nella propria famiglia in tempo utile? O quali
prospettive per chi non potrà o non vorrà rientrarvi affatto?
Il compimento del 18° anno di età non è e non può
essere considerato il momento terminale di un intervento educativo, nei
confronti del minore affidato. La maturità reale, purtroppo, nella stragrande
maggioranza dei casi, non c'è e in ogni caso ci sembra che a 18 anni non è
facile, né proprio consigliabile avventurarsi nel mondo da soli. Il lavoro,
quando c'è, è spesso precario e il ragazzo non può mantenersi autonomamente in
tutto. Anche l'eventualità di metter su casa da soli (supposto che ci sia la
maturità sufficiente per poterlo fare...) è da scartare, poiché non si può
sicuramente avere accantonato denaro in quantità sufficiente a sostenere le
spese iniziali d'avvio: anticipi affitto, mobilia, elettrodomestici, batteria
da cucina, biancheria, coperte, installazioni luce, telefono, gas...
Purtroppo nel momento di maggior necessità l'ente
locale si defila. Vediamo insieme, nelle brevi storie che seguono, quali
possono essere le conseguenze per questi giovani, a causa del vuoto di
intervento che si viene a creare.
Alcune vicende di giovani affidati
Paolo è il primo di 8 figli. Abita in una casa popolare di
un quartiere problematico. La sua situazione familiare non è certo di quelle
più tranquille, ma scoppia definitivamente quando il padre finisce in carcere,
per omicidio. La madre, figura debole e labile psichicamente, non regge al
colpo e si aggrava irrimediabilmente.
I servizi sociali devono agire in fretta e trovare
una soluzione per tutti nel giro di 24 ore, perché la donna, inavvertitamente,
dà fuoco all'appartamento.
Paolo ha 13 anni. Nel suo quartiere ha già una certa
fama come capo-banda di un gruppetto di coetanei, che si divertano a fare gli
«sbruffoncelli». Niente di grave, ma a scuola ormai non va quasi mai, e non si
presenta sicuramente con un carattere docile, anzi. Così non si trova nessuno
disposto a prenderlo in affidamento. Finisce dapprima a casa di una persona
anziana, che vive sola con la madre; affiancata da una giovane coppia di
fidanzati, che si impegna per il tempo libero. Non reggono più di due mesi:
Alla fine si offre una signora, vedova, che abita in un'altra città e che può
contare sull'appoggio dei due figli già grandi. Naturalmente c'è molto da ricostruire
della personalità di Paolo, che con il tempo migliora moltissimo nel comportamento,
grazie all'esempio dei due figli maggiori della signora, che sono per lui un
modello di riferimento.
Paolo è diventato oggi un ragazzo che ha imparato ad
apprezzare il mangiare bene e regolarmente (a casa si saltavano i pasti e si
consumavano di solito alimenti in scatola), a vestirsi scegliendo da solo gli
abiti, a provvedere alla cura del corpo (i primi tempi pretendere che si
facesse il bagno era un'impresa), ma non ha acquisito quella maturità
indispensabile per poter vivere autonomamente.
Non è riuscito a continuare la scuola dopo la media:
si è tentato di fargli imparare qualche mestiere, affiancandolo a degli
artigiani, ma non ha retto, in quanto ha bisogno ancora di molto tempo per
crescere e maturare.
Oggi ha 23 anni e non vive più con la famiglia
affidataria, che gli ha trovato un piccolo appartamento e continua però ad
aiutarlo anche sul piano economico, nella speranza che almeno mantenga
definitivamente il lavoro attuale. Continua ad avere un carattere ribelle,
insofferente alle regole e intollerante, quindi, agli ordini dei superiori
negli ambienti di lavoro. Per questo Paolo è tuttora «provvisoriamente»
occupato e dipende economicamente dalla famiglia affidataria.
Roberto vive in famiglia fino alla morte della madre,
decesso che causa il suo trasferimento nella famiglia affidataria dove rimane
anche dopo i 18 anni. La sua vita in famiglia, però, non è rosea. La lunga
malattia della madre, morta per etilismo, lo segna profondamente. Quando arriva
nella famiglia affidataria all'età di 7 anni, Roberto è un bambino deprivato,
presenta sia carenze affettive, che ambientali. È magrissimo, fragile di
salute e schedato a scuola come «subnormale» dalla maestra, che lo relega da
solo, vicino alla cattedra.
È difficile interessarlo a qualunque cosa, non sa
giocare, non ha amici, non parla se non a monosillabi.
Faticosamente si riesce a portarlo fino alla scuola
dell'obbligo e poi a fargli frequentare un breve corso di formazione
professionale.
All'età
di 17 anni Roberto mostra apprensione circa il suo futuro.
Il rapporto con il padre non è mai stato semplice,
anche se progressivamente negli anni è migliorato al punto da non escludere
l'eventualità di un rientro in famiglia. Ma il padre si risposa e questo muta
ovviamente i termini della questione. Comincia un periodo di conflittualità
tra la famiglia d'origine, Roberto e la famiglia affidataria, soprattutto a
causa della questione economica.
La famiglia d'origine non vuole che il figlio. venga
mantenuto dalla famiglia affidataria, quando cesserà il contributo del Comune
con il compimento del 18° anno. Così preme su Roberto perché torni a casa. Ma
il ragazzo, pur manifestando un certo attaccamento affettivo verso il padre,
non accetta la nuova moglie e vuole restare con la famiglia affidataria.
Risolve il problema trovandosi il lavoro prima dei 18 anni a così non termina
gli studi.
Naturalmente è un lavoro precario, scomodo, che non
dà alcuna affidabilità sotto il profilo strettamente economico, ma che è
parzialmente utile a risolvere, sia pur solo su un piano formale, la questione
dei suoi rapporti con il padre e la famiglia affidataria.
È facile in questa situazione cogliere nel genitore
d'origine una sorta di colpa per non poter intervenire nei confronti del figlio
e accettare che «altri» provvedano a lui.
D'altronde il contributo alla famiglia affidataria è
previsto anche per evitare che si creino incomprensioni e conflitti tra le due
famiglie e l'affidato, che, come in questo caso, si trova a dover gestire una
situazione già complicata sul piano degli affetti, che diventa ancora più complessa
per le implicanze economiche.
Infatti, pochi mesi dopo, la ditta fallisce e trascorre
parecchio tempo prima che Roberto trovi un nuovo lavoro, il quale, tuttavia,
non gli assicura ancora una vera indipendenza. E lui decide di restare nella
famiglia affidataria fin tanto da poter disporre del denaro sufficiente a
metter su casa. Da suo padre, dopo il matrimonio, e dopo il rifiuto di
ritornare a vivere con lui, non può più aspettarsi nulla.
Carla è stata affidata a causa della morte della madre. Ha
13 anni ed una personalità difficile, ma è intelligente e riesce a sopperire
con questa qualità ad alcuni lati negativi del suo carattere. Va benino a
scuola e la famiglia affidataria, d'accordo con lei, pensa di farle proseguire
gli studi, oltre il diploma professionale.
A 17 anni, però, entra in crisi. La famiglia di
origine (il padre e i nonni), tutte le volte che si incontrano, le ricordano
che a 18 anni non c'è più nessun contributo del Comune e sicuramente «quelli»
(la famiglia affidataria) non la terranno più. Insistono perché finisca gli
studi, si cerchi un lavoro e, naturalmente, torni a casa, con il padre.
Carla si spaventa perché non ha un buon rapporto con
il padre e non vuole ritornare a vivere con lui. Decide quindi di interrompere
gli studi e cercarsi un'occupazione.
La famiglia affidataria fa il possibile per garantirle
che non ci sono problemi, ma Carla ha comunque un profondo senso di
appartenenza alla sua famiglia d'origine, nonostante gli screzi, e per
orgoglio non cede su questo punto, né vuole essere «mantenut». Accetta
piuttosto di lavorare saltuariamente come «baby sitter» pur di contribuire al
suo inserimento presso gli affidatari.
Ha ora 22 anni, ma, anche per sposarsi deve aspettare
ancora qualche anno perché è soltanto da pochi mesi che ha finalmente trovato
un lavoro economicamente valido e stabile, che le permette di iniziare a
mettere da parte un po' di denaro.
Valeria è ricoverata in un istituto fuori città all'età di
due anni. I genitori li ha visti solo su iniziativa delle suore e, quindi, di
rado. Quando, più grande, ha potuto viaggiare da sola, spesso all'arrivo del
treno, non trova alcuno ad attenderla... e torna in istituto.
A 14 anni l'istituto non la vuole più: è irascibile,
litigiosa, insoddisfatta di tutto e di tutti, non sopporta e non si fa
sopportare da nessuno. La famiglia intanto non c'è più. Madre e padre si sono
separati e la madre ha chiaramente detto di non volersi più occupare dei figli
(c'è un altro fratello, anche lui ricoverato).
I servizi sociali trovano una famiglia affidataria
attraverso amicizie e conoscenze. Quando arriva in questa famiglia, Valeria è
profondamente immatura, molto in ritardo per quanto riguarda la scuola, gracile
di salute, con scarse se non nulle conoscenze della vita di tutti i giorni.
A fatica finisce la scuola e poi un breve corso di
formazione professionale, ma a 18 anni non ha ancora un lavoro stabile. Fa la
«baby sitter», ma presto non la vogliono più; purtroppo è una ragazza insicura
e per questo racconta bugie, nasconde e addirittura ruba piccoli oggetti. Fa
altri lavoretti qua e là, ma tutti non in grado di garantirle la possibilità di
vivere autonomamente.
Valeria non ha quindi, a 18 anni, grandi programmi
per il suo futuro, se non quello di tornare a casa, o meglio dal padre. Egli ha
contribuito ad aumentare le sue speranze in questo senso, promettendole di mese
in mese che «presto» sarebbe ritornata a vivere con lui. Non è mai successo.
Non c'è stato un momento di preparazione e di accordo nel passaggio tra le due
famiglie. Praticamente Valeria ha preso le sue cose e di punto in bianco se
n'è andata.
Il padre ha condizionato pesantemente la sua
decisione: più volte si è sentita dire: «Vedrai, quelli (riferito alla famiglia
affidataria) a 18 anni non ti tengono più!». Oppure: «Non vorrai farti mantenere
da estranei, vero?».
Valeria prova sulla sua pelle che non può contare
sul padre che, in capo a due giorni, la butta fuori casa perché la convivente
non la sopporta.
Valeria, che ha trascorso un lungo periodo con la
famiglia affidataria, ha almeno il coraggio di ripresentarsi, anche se
disperata e umiliata, ma la situazione non è semplice.
La mancanza di un lavoro e della possibilità quindi
di mantenersi in assenza del contributo dell'ente locale non è facile da
accettare per lei e complica anche i rapporti con gli affidatari.
Ben presto Valeria se ne va di nuovo, questa volta
dai nonni, anche se da loro non sta certo meglio. Sono in otto in tre stanze;
lei continua a lavorare occasionalmente ed è peggiorata fisicamente di salute.
Torna spesso dalla famiglia affidataria che continua,
con regali e doni ad aiutarla, cercando di non offenderla.
Vincenzo è rifiutato alla nascita dalla madre, che ha avuto
un crollo psichico dopo il parto. Allontanato dalla famiglia (oltre al padre vi
erano altri tre fratelli), viene accolto dagli zii che abitano nel Sud.
Qui rimane fino all'inizio delle elementari, poiché
le difficoltà di inserimento scolastico che incontra scoraggiano gli zii.
Torna
a casa, ma la famiglia si trova ben presto incapace di gestirlo.
Il padre è una figura assente, tutto lavoro e bar,
mentre la madre continua ad avere per il figlio un rifiuto profondo, per cui
Vincenzo viene alla fine «sistemato» in istituto.
Qui rimane praticamente fino ai 15 anni, età in cui
viene dimesso per «raggiunti limiti di età». I servizi sociali della zona,
pressati dalle dimissioni, tentano l'inserimento nella sua famiglia
d'origine, ma dopo pochi mesi i genitori chiedono che venga sistemato altrove.
«È un ragazzo impossibile, ribelle, crea problemi di ogni tipo».
I servizi sociali trovano temporaneamente una
famiglia affidataria disposta ad ospitarlo. Vincenzo, a questo punto, ha già
16 anni, ma non ha ancora terminato le medie. È piccolo, timido, insicuro,
chiuso in se stesso e manterrà negli anni una mancanza generale di fiducia in
sé.
È incapace di organizzare la sua vita, anche nelle
piccole cose: non sa, a 16 anni, comperare pane e latte, utilizzare i mezzi
pubblici e usare il denaro. Non ha interessi o aspirazioni per il futuro. La
sua preoccupazione continua ad essere una sola: perché i genitori non lo
tengono con sé, come gli altri fratelli, che, come lui, non hanno voglia di
studiare?
Vincenzo da anni continua ad idealizzare il suo
rientro in famiglia, eventualità tra l'altro senza alternativa a causa della
mancanza di altre opportunità allo scadere dei 18 anni. «Cos'altro potrei
fare?» è una domanda ricorrente che conclude spesso i ragionamenti sul suo
futuro.
Dopo la scuola dell'obbligo Vincenzo frequenta un
corso di falegnameria, che interrompe presto. Poi tenta con un lavoro, ma
anche questa esperienza è brevissima e mette in evidenza tutti i problemi che
comporta per lui un impegno continuo.
Si ritenta, e questa volta con successo, un
inserimento «protetto» (corso di formazione professionale del Comune con
inserimento lavorativo presso un artigiano). In quel periodo Vincenzo si
riavvicina alla sua famiglia d'origine e comincia a pensare che, grazie alla
piccola somma di denaro guadagnato in questi mesi, può aiutare i «suoi». È
convinto che la sua nuova situazione di lavoratore e, quindi, di persona con
una fonte di reddito, sia la carta vincente per farsi riaccettare. Così, a 18
anni appena compiuti torna a casa, con la sua famiglia. Nel giro di due mesi
il conto in banca si volatilizza, Vincenzo non riesce a mantenere il lavoro
presso l'artigiano e diventa per i suoi familiari il ragazzo «cattivo» di
prima... e viene messo fuori casa.
Da allora lui vaga da un lavoro ad un altro, da una
pensione ad un'altra... quando lavora e quando non lavora dorme qua e là...
anche in stazione.
Affidamento e autonomo inserimento sociale
Noi partiamo dalla convinzione che investire risorse
umane ed economiche nell'affidamento familiare, sia investire bene nel futuro
della società. I minori che hanno la fortuna di «scampare» al ricovero in
istituto, quando è indispensabile allontanarli dai genitori d'origine ed essere
accolti da una famiglia affidataria, hanno già vinto una piccola scommessa con
la vita.
Ma anche la comunità in cui sono inseriti riscontrerà
vantaggi notevoli, poiché questi minori possono essere domani cittadini
normali e persone di cui ben difficilmente l'ente pubblico dovrà preoccuparsi ancora.
Però non si è ancora compreso, sul piano culturale e
poi di conseguenza su quello economico, che per avere garanzie di successo
bisogna intervenire con tutte le risorse disponibili quando sono bambini, e
aiutarli fintanto che sono giovani traballanti e malfermi sulle loro gambe.
Guai a lanciarli nel mondo degli adulti prima che siano effettivamente pronti ad
affrontare pericoli e difficoltà che indubbiamente ci sono, mai prima che
siano assicurati un lavoro ed una casa.
Ragionamento semplice, tanto ovvio e banale se si
pensa anche solo alle preoccupazioni che ci danno i nostri figli, i nostri
nipoti... i bambini e giovani che ci sono intorno. Ma che non si estende ai
minori di cui parliamo, protagonisti delle storie appena dette.
Per questi minori, che non hanno avuto l'affetto che
in genere ricevono gli altri bambini, che hanno perso parecchie opportunità
strada facendo, che faticosamente stanno risalendo la china grazie al supporto
della famiglia affidataria in cui sono capitati e dei servizi sociali è
sanitari di appoggio, per questi minori la società, nelle vesti dell'ente
locale, non può essere così cieca da abbandonarli quando i ragazzi hanno
raggiunto la maggiore età.
È assurdo ritenere che allo scoccare dei 18 anni
siano pronti a vivere da soli. Ma come sono pronti e a quale prezzo lo abbiamo
appena visto.
Invece, se veramente l'ente locale è interessato al
raggiungimento di un reale inserimento di questi giovani, non dovrebbe privarli
del sostegno quando, pur maggiorenni d'età, non sono ancora autonomi,
evitando di costringerli a scelte che non sono ancora in grado di fare. Essi
devono contare sull'aiuto concreto dell'ente pubblico e delle famiglie
affidatarie.
Abbiamo visto come i giovani sovente affrettino il
rientro nella famiglia d'origine, soltanto perché si tratta dell'unico sbocco
possibile. E abbiamo visto, però, come i fallimenti con la famiglia d'origine
siano stati la norma, con gravi conseguenze sul piano personale per i ragazzi.
Scoprire a 18 anni di essere soli, privi di sostegno
e nella impossibilità, sovente, di recuperare un rapporto affettivo con la
famiglia di origine e con la famiglia affidataria, è un trauma molto forte e
difficile da superare. Né è giusto che vivano conflittualmente la loro
dipendenza economica, come è il caso di Roberto, che si è cercato un lavoro,
anche mal pagato, pur di potersi conquistare uno spazio di decisione nei
confronti della propria famiglia.
Molti inoltre sono i casi di ragazzi e ragazze che
non sono aiutati, per esempio, a porsi il problema della continuazione degli
studi non essendoci la serenità d'animo necessaria. Non è facile accettare che
sia la famiglia affidataria (per ora è così) a mantenerli fino ai 25 anni (e
anche dopo), soprattutto perché, nella situazione attuale, la famiglia affidataria
non ha - dopo i 18 anni - un ruolo definito, né è comprensibile per quale
ragione dovrebbe occuparsene, dato che l'ente locale ha chiuso ogni rapporto.
Sappiamo che molte persone inorridiscono alla sola
idea di sentir parlare di «soldi» in un intervento come l'affidamento familiare
che si vuole esclusivamente fondato su valori quali la solidarietà e
l'altruismo. Ci duole dirlo, ma come abbiamo cercato di argomentare fin qui, la
questione «soldi» è fondamentale per la riuscita finale dell'affidamento
familiare, quasi tanto quanto la presenza di valori prima ricordati.
Oggi, ciò che succede, è davvero profondamente
ingiusto e scorretto. Ricordiamo che i minori ricoverati in istituto, spesso,
non restano un solo giorno in più, oltre i 18 anni, se l'ente locale non
garantisce il pagamento della retta.
Non si comprende perché la famiglia affidataria, che
svolge un servizio pubblico, debba, viceversa, impegnarsi a pagare di persona
il mantenimento del minore, diventato maggiorenne, che ha in casa.
Né è accettabile che gli enti locali si disimpegnino
sfruttando i sentimenti di solidarietà e di affetto della famiglia affidataria.
Sul piano umano e degli affetti è auspicabile che nessuna famiglia
affidataria scacci, come fanno gli istituti, il ragazzo di casa. Ma è proprio
questo fatto che deve farci riflettere.
L'ente locale non può giocare sui sentimenti delle
persone; né approfittare dei legami affettivi che si sono creati, così come
non dovrebbe fare con chi è ricoverato in istituto. È un'azione ignobile
basarsi sulla generosità della famiglia affidataria, che ha già offerto molto
nel servizio prestato all'ente locale, servizio che ricordiamo non è pagato. Il
contributo che esse ricevono non è un pagamento del servizio educativo (ben altre
sono le rette giornaliere dei ricoveri!), ma un rimborso delle spese vive
sostenute per il minore affidato.
È inaccettabile che, proprio quando è così importante
impegnarsi al massimo per la buona riuscita dell'inserimento, l'ente locale
abbandoni tutto e tutti per una mera questione di poche lire di risparmio.
Anche da un punto di vista strettamente economico, lo Stato ci rimette in
termini costi/benefici.
A questo riguardo è bene chiarire anche un altro
equivoco. Diversi sono i luoghi comuni che piovono a questo proposito: alcuni
vorrebbero addirittura che gli affidamenti familiari si trasformassero in
adozione.
Ebbene merita ricordare che esiste una profonda
differenza giuridica tra i due istituti: l'adozione è un fatto umano e sociale
che sul piano giuridico ha come risultato quello di costruire un rapporto
familiare là dove non vi è un rapporto biologico. Con l'adozione l'adottato
assume lo stato di figlio legittimo e stabilisce pieni rapporti di parentela
con ascendenti e discendenti degli adottanti, e cessa ogni suo rapporto con la
famiglia d'origine.
L'affidamento familiare, invece, è una risposta ai
problemi del minore il cui nucleo familiare è temporaneamente o indefinitamente
non più in grado di provvedere al suo allevamento, educazione o terapia;
d'altra parte la situazione di disagio familiare non è risolvibile con un aiuto
economico/sociale alla famiglia d'origine, oppure con l'adozione per l'assenza
di requisiti giuridici.
Le famiglie affidatarie sono di fatto selezionate
anche in base alla loro capacità di saper vivere non solo razionalmente, ma
anche sul piano delle emozioni la differenza sostanziale che esiste tra i due
differenti interventi.
Troppo sovente ci si dimentica che nell'affidamento
familiare una componente importante e coinvolgente è la famiglia d'origine del
minore e che, proprio per equilibrare i rapporti tra i tre soggetti (bambino,
fa-miglia d'origine, famiglia affidataria) è quanto mai indispensabile la presenza
dell'ente locale e il sostegno dei suoi operatori. E tutto questo, che piaccia
o no all'ente locale, non cessa solo perché il minore ha compiuto i 18 anni.
Anzi, come le storie dimostrano, sovente si complica.
Non condividiamo pertanto il modo subdolo (perché mai
c'è una richiesta esplicita e rimandiamo alla lettera citata all'inizio con
cui si intende concluso ogni rapporto) e irresponsabile (abbiamo visto come
vanno a finire molti casi) con cui l'ente locale scarica alla famiglia affidataria
- che non ha per legge nessun obbligo giuridico - la responsabilità materiale e
morale del futuro del minore affidatole. Questo non deve più accadere.
www.fondazionepromozionesociale.it