Prospettive assistenziali, n. 92, ottobre-dicembre 1990

 

 

SERVIZI SOCIO-SANITARI DI BASE: IL DISTRETTO

MARIANGELA CHIOLERO - RENATA FENOGLIO - FRANCO MONDINO - MAURIZIO MOTTA

 

 

Il 24 novembre 1989 ha avuto luogo a Torino un incontro di studio sul tema: «Sviluppo dei servizi sanitari, assistenziali e sociali di base: nodi politici, istituzionali e organizzativi - Realtà e prospettive dei distretti socio-sanitari in Piemonte».

L'incontro è stato promosso dal Gruppo permanente di lavoro per gli interventi alternativi al ricovero (1), da CGIL - Funzione pubblica Torino, da CISL - Funzione pubblica e FISOS territoriale, da UIL - Enti locali Torino e dalle riviste «Animazione sociale» e «Prospettive assistenziali».

Riportiamo la relazione tenuta da Maurizio Motta e l'ordine del giorno approvato al termine dei lavori.

 

 

RELAZIONE

 

Uno degli obiettivi principali e ricorrenti nella normativa di riordino dei servizi sanitari e socio­assistenziali è lo sviluppo dei servizi di base, cioè di quelli più vicini ai cittadini e distribuiti più capillarmente nel territorio.

Il potenziamento di questo livello di servizi è stato infatti sempre considerato, sin dall'avvio dei processi di riforma, come lo strumento necessario per raggiungere diversi risultati, ad esempio:

- ridurre i ricoveri in ospedale o in istituto attraverso consistenti interventi domiciliari;

- sviluppare le iniziative di prevenzione ed evitare dannose separazioni tra i servizi indiriz­zati alla sola prevenzione e servizi di cura e ria­bilitazione;

- consentire ai cittadini di incontrare in sedi accessibili servizi capaci di erogare tutte le pre­stazioni di base in modo integrato, e permettere agli operatori di conoscere meglio problemi e ri­sorse di un territorio circoscritto.

Mentre sul piano normativo (anche regionale) e nelle dichiarazioni di rito delle Amministrazioni locali questi principi non sono stati esplicitamen­te modificati, negli ultimi anni si è invece andata consolidando una situazione tutt'altro che favo­revole al potenziamento dei servizi di base.

Le scelte politiche nazionali e regionali, di fat­ta, non hanno privilegiato l'attuazione di una rete territoriale di risorse; si è per contro assistito al crescere di finanziamenti solo per strutture di ricovero, all'assenza di incentivi e vincoli agli Enti locali per realizzare servizi domiciliari, al progressivo abbandono di procedure di program­mazione che possano condurre a dotazioni ade­guate e controllate di risorse (si veda ad esempio l'arresto del processo programmatorio tra Regio­ne e USSL e l'assenza di vincoli e strumenti fina­lizzati per attrezzare le piante organiche del per­sonale delle USSL stesse).

Lo scarso investimento di attenzione politico­amministrativa alla rete dei servizi territoriali ha inoltre prodotto carenza di riflessioni tecniche sui modelli operativi da scegliere per gli inter­venti di base, e non si è adeguatamente promos­so un confronto delle esperienze e delle realtà locali che pure hanno attivato iniziative signifi­cative.

Il dibattito sulla struttura degli organi di ge­stione di sanità e assistenza e le linee di riforma istituzionale previste dal Governo sembrano del resto essere ispirate esclusivamente da preoc­cupazioni che riguardano le grosse strutture (ad esempio gli ospedali) e l'attribuire dimensioni di rilievo alla neo «azienda USSL», senza atten­zione alle conseguenze per i servizi territoriali.

Nessuna soluzione istituzionale per quanto cor­retta (e quella che si delinea è fortemente criti­cabile) è da sola garanzia di migliore qualità del­le prestazioni; tuttavia occorre sottolineare che anche nell'eventuale nuovo assetto delle USSL deve restare prioritario lo sviluppo dei servizi di base, e la messa a disposizione di risorse indi­spensabili per consentire interventi più efficaci e corretti.

A partire da questa impostazione, si propone perciò in questo intervento di approfondire un ra­gionamento che vuole evidenziare:

1) quali sono le condizioni di tipo istituzionale ed organizzativo necessarie per consentire un corretto sviluppo dei servizi di base;

2) come riflettere sulle modalità operative più utili per costruire i servizi di base e, in questo contesto, quali aspetti organizzativi del distretto di base meritano di essere discussi e sottoposti a verifica.

 

1. Condizioni necessarie per un corretto sviluppo di base

I requisiti, da ritenere pre-condizioni necessa­rie ai servizi di base, possono essere suddivisi tra quelli relativi ad aspetti istituzionali, cioè con­nessi agli organi di governo e alle loro funzioni, e quelli organizzativi, cioè legati all'uso delle risorse. Il tentativo di evidenziare queste condi­zioni non può che partire dai nodi tuttora aperti nella realtà regionale, e richiamare problemi an­che di vecchia data che tuttavia sono sempre pre­senti come ostacolo alla funzionalità dei servizi di base.

 

1.1. Condizioni istituzionali

a) Uno degli aspetti che qualificano i servizi di base deve essere la possibilità di ricomporre in quella sede gli interventi che nel vecchio siste­ma sanitario e assistenziale erano frantumati per competenza tra servizi diversi. Poter affron­tare a livello di base tutti i bisogni senza artifi­ciali settorialità resta infatti la condizione neces­saria sia per evitare agli utenti di doversi rivol­gere a sedi diverse per problemi dello stesso nu­cleo familiare, sia per consentire ai servizi di produrre interventi organici. Ciò richiede tuttavia due iniziative sul piano istituzionale relative alle funzioni socio-assistenziali:

a1. evitare una distribuzione delle competenze che produca frantumazioni di interventi: se si costruiscono USSL nelle quali restano ai singoli Comuni «pezzi» di funzioni socio-assistenziali, a singole prestazioni, si ricrea una separazione di compiti tra soggetti gestori che produce ser­vizi disorganici e frammentari.

E questa è la realtà piemontese di molte USSL., e la grave incertezza della Regione nella legisla­zione successiva alla L.R. 20/82contribuisce ad aggravare la dispersione di interventi a livello locale.

Va inoltre sottolineato che la proposta gover­nativa di « riformare n le USSL costruendole su dimensioni territoriali più grandi (sino a 400.000 abitanti) farà prevedibilmente crescere la resi­stenza dei Comuni singoli a far gestire a questi nuovi soggetti le funzioni socio-assistenziali. Se le USL diventano aziende più lontane (anche in termini fisici) dai Comuni, la prospettiva di tra­sformarle in Unità socio-sanitarie diventerà sem­pre meno credibile.

a2. È ancora presente una separazione di com­piti socio-assistenziali tra Province e Comuni, e quindi una dispersione di interventi che potreb­bero essere concentrati nei servizi di base se si estendessero convenzioni tra Province e USSL (o Comuni). La strada della convenzione come strumento per unificare nei servizi dell'USSL an­che gli interventi afferenti ai compiti delle Pro­vince resta l'unica praticabile sino ad una rifor­ma nazionale dell'assistenza. Nella realtà pie­montese, invece, questa scelta non si è concre­tizzata in modo adeguato ed esteso.

b) I servizi di base sono chiamati a misurarsi con problemi e bisogni articolati, ed anzi l'espe­rienza sembra indicare che, se anche diminuisce quantitativamente la «povertà» in senso econo­mico, sono invece sempre più presenti proble­matiche complesse e bisogni che richiedono l'uso di più risorse. Ne deriva la necessità di garantire politiche da un lato realmente capaci di prevenire il bisogno assistenziale e dall'altro che consen­tano ai servizi socio-sanitari di proporsi come uno dei punti di una più ampia rete di risorse territo­riali. Ciò comporta una ulteriore condizione isti­tuzionale che si riflette sui servizi di base e cioè la necessità di uno stretto rapporto tra gli inter­venti socio-sanitari e gli altri interventi degli En­ti locali.

Anche questa non è una esigenza nuova, e tut­tavia non si può affidarla solo ad incerte volontà locali ma occorre incardinarla in meccanismi isti­tuzionali espliciti: questo richiede da una parte lo sviluppo delle funzioni dei Comuni per il go­verno di politiche locali (anche con più ampie deleghe regionali) e dall'altra precise procedure di raccordo tra la programmazione delle USSL e quella dei Comuni.

A questo proposito è invece prevedibile che conferire alla USL una natura dì azienda più gran­de ed autonoma dai Comuni renda più difficile il raccordo sistematico tra le politiche socio-sani­tarie e le altre politiche degli Enti locali.

c) Adottare la programmazione come metodo ordinario di governo è un'altra condizione istitu­zionale necessaria per garantire un corretto im­pianto dei servizi di base.

Solo procedure organizzate per programmare consentono infatti di rendere complete alcune operazioni che hanno importanti ricadute sulla costruzione dei servizi, quali:

- distribuire le risorse nei diversi territori, con vincoli precisi per attivare i servizi e stan­dard ragionati (ad esempio per la pianta organica del personale dei servizi di base);

- rendere espliciti i modi e le sedi che deci­dono sulla programmazione, cioè come si costrui­scono i piani e i progetti, col coinvolgimento de­gli Enti locali oltre che delle USSL;

- prevedere modi e forme trasparenti per il controllo dei servizi e la partecipazione alla for­mazione delle decisioni politiche anche da parte delle forze sociali;

- utilizzare appieno la funzione dei servizi di base di a sensori p dei bisogni locali e di lettura dei problemi del territorio.

Per contro, negli ultimi anni si assiste all'ab­bandono delle forme di programmazione esplicita (basta ricordare le vicende del Piano sanitario na­zionale e di quello regionale). Un dato di realtà che può suggerire riflessioni è la cresciuta ten­denza a far gestire servizi, anche di base come l'assistenza domiciliare, a cooperative tramite convenzioni. Ci si può chiedere se ciò avviene per ottenere prestazioni migliori rispetto alla gestione diretta, a costi inferiori, oppure se que­ste valutazioni siano difficili proprio per l'assen­za di strumenti programmatori e, in questa assen­za, l'affidamento a terzi di servizi non rischi di essere solo una scelta di «comodità» gestionale, o peggio, di delega.

 

1.2. Condizioni organizzative

Può essere utile segnalare anche alcune condi­zioni relative ad alcuni aspetti organizzativi che paiono necessari per ottenere servizi di base ido­nei, e che si possono così riassumere:

a) anche se l'assistenza si occupa di una uten­za quantitativamente più limitata rispetto alla sanità, ed anche in uno scenario istituzionale di separazione tra i due comparti (come quello che va delineandosi), non è possibile rinunciare alla costruzione di servizi di base sanitari e socio­assistenziali integrati, garantendo raccordi alme­no tra questi due tipi di intervento.

b) I servizi di base possono diventare credi­bili ed efficaci solo se forniti di risorse che dav­vero qualificano la loro attività; occorrono quindi in quantità adeguata le professionalità necessa­rie; ad esempio, la presenza di infermieri è deci­siva mentre i servizi di base sono penalizzati dal­le pressanti urgenze dei servizi integrativi. Occor­re del resto poter offrire prestazioni consistenti almeno verso i bisogni più scoperti. Inoltre una reale alternativa al ricovero per gli anziani non più autosufficienti è possibile solo con servizi domiciliari attivi in fasce orarie ampie e per tutti i giorni, festivi inclusi.

c) Specialmente nel settore socio-assistenzia­le esiste il rischio di appiattire il bisogno solo sugli interventi esistenti e possibili, rispondendo con prestazioni uniformi e precostituite a pro­blemi che invece sono complessi e mutevoli. Pa­re quindi essenziale da un lato poter disporre di una gamma il più articolata possibile di presta­zioni (da adattare al singolo caso), e dall'altra va­lorizzare la capacità dei servizi di base nel leggere nuovi problemi, formulare proposte, potersi muovere con flessibilità organizzativa di fronte a compiti nuovi (ad esempio le problematiche deri­vanti dagli stranieri e dal nuovo Codice di proce­dura penale).

d) I servizi di base non possono funzionare da soli, ma hanno necessità di stretti raccordi con altri servizi dell'USSL. In particolare i collega­menti di rilievo riguardano:

- gli uffici centrali dell'USSL, evitando pe­rò che ciò comporti procedure amministrative che appesantiscano le decisioni sulle prestazio­ni; ad esempio nel settore socio-assistenziale pare utile spostare al livello di base le decisioni sulle singole prestazioni, evitando defatiganti iter burocratici;

- i servizi integrativi, con l'attenzione a ga­rantire per alcuni di essi (ad esempio Neuropsi­chiatria infantile, Psichiatria adulti, servizi di ria­bilitazione) consistenti compresenze a livello di base ed interventi anche domiciliari.

e) Supporti logistici e strumenti per il lavoro comune tra i diversi operatori sono anch'essi condizione per adeguati servizi di base integrati. Può sembrare banale ma la realtà di molte USSL evidenzia ancora l'esigenza di sedi comuni alme­no per gli operatori di base con più frequenti esi­genze di lavoro integrato, di archivi o sistemi organizzati per il passaggio delle informazioni tra operatori diversi, di formazione comune.

f) È sicuramente cruciale, per fornire presta­zioni di base efficaci, il raccordo con i medici di famiglia. La terza relazione della mattinata affron­terà più in dettaglio questo tema sul quale per ora, parlando in condizioni che facilitano lo svi­luppo dei servizi territoriali, si può ricordare che è a due livelli contestuali che vanno promosse:

- la definizione delle Convenzioni nazionali uniche, che rappresentano lo strumento norma­tivo per il rapporto tra le USSL e Medicina di base; a questo livello potrebbero, per esempio, essere introdotti meccanismi che meglio consen­tano alle USSL di orientare le attività dei medici di base ai progetti obiettivo necessari per il pro­prio territorio;

- la gestione locale delle convenzioni (in sede regionale e di USSL), ambito nel quale si­nora non si sono certo sfruttate tutte le poten­zialità già possibili.

 

2. Modalità organizzative per i servizi di base: qualche riflessione sui distretti socio-sanitari

Per non limitare questo intervento solo ad un approccio di tipo prescrittivo, che elenca ciò che «dovrebbe essere», può essere utile proporre ora ai dibattito alcune riflessioni sulle modalità per organizzare i servizi di base.

Come è noto, il modello organizzativo previsto anche in Piemonte per dare forma ai servizi di base è il distretto socio-sanitario. Si può dunque provare a ragionare non tanto sul modello astrat­to ma su quanto emerge dall'esperienza, anche perché è difficile non avere la sensazione che sul distretto molto sia stato detto e scritto ma forse privilegiando soprattutto l'enunciazione di obiet­tivi e di «valori» più che l'approfondimento di meccanismi organizzativi. Si è cioè forse corso il rischio di costruire un'ideologia del distretto, o almeno di lanciare idee guida sottovalutando il lavoro sui concreti passaggi per allestire que­sta forma di integrazione dei servizi di base.

Seppur sommariamente dunque può servire segnalare alcune riflessioni e problemi aperti, tutti da approfondire nella discussione:

a) secondo quanto risulta da una recente ri­cerca dell'ANCI-Sanità piemontese, è negli ulti­mi anni cresciuto in modo rilevante il numero dei distretti attivati nella Regione. Le rilevazioni di tale ricerca indicano infatti che nel 1989 sono attivati in Piemonte 250 distretti, cioè il 90,3% di tutti quelli programmati, ed il 73,8% eroga prestazioni sanitarie e socio-assistenziali total­mente integrate. È però forse opportuno appro­fondire il confronto di esperienze ed il significa­to che si attribuisce alla parola «distretto», poiché è probabile che non sia dei tutto univoco e condiviso. Quando infatti possiamo ritenere che sia attivato davvero un distretto? La ricerca di una valutazione comune può forse essere aiutata ricordando che il distretto non è la sola compresenza fisica di operatori decentrati nello stesso territorio, e che l'integrazione non è la sede comune o le riunioni tra operatori diversi.

L'integrazione fisica di risorse è infatti solo uno strumento per garantire il vero obiettivo, che deve essere l'integrazione delle prestazioni per gli utenti.

Può quindi essere utile provare a valutare la realizzazione dei distretto proprio dal grado con cui sono attivate le sue funzioni: lettura coordi­nata dei problemi dei territorio e, soprattutto, prestazioni integrate per gli utenti. Gli aspetti logistici non possono che essere strumenti a questi obiettivi di contenuto e possono rischiare di essere insufficienti se mancano altre modalità organizzative (ad esempio protocolli e forme cer­te per l'intervento coordinato dì diversi opera­tori).

b) Se dunque il distretto è una forma organiz­zativa per raggiungere obiettivi di contenuto del­le prestazioni, può essere utile approfondire al­cuni particolari meccanismi, da adattare alle di­verse realtà territoriali:

b1. l'équipe di distretto: tra i diversi opera­tori compresenti nel distretto vi sono, in relazio­ne alle funzioni da svolgere, diversi tipi di rela­zioni:

- alcune coinvolgono tutti gli operatori, ad esempio per costruire una comune lettura del territorio, formulare la relazione di distretto, elaborare progetti collettivi;

- altre ne coinvolgono solo alcuni, ad esempio il lavoro comune tra diverse professionalità (l'as­sistente sociale, l'assistente domiciliare, il me­dico di base, l'infermiere) per prendere in carico congiuntamente un utente.

Non vi è dunque sempre una unica ed identica «équipe di distretto», o meglio vanno evitati meccanismi organizzativi ridondanti che preveda­no forzatamente sempre un lavoro collettivo per tutte le funzioni anche quando questo può essere pleonastico ed eccessivo.

In particolare ciò deve significare che nel di­stretto convivono operatori ed attività che devo­no essere capaci ed abilitati anche ad un lavoro monoprofessionale; ad esempio il nucleo per le attività socio-assistenziali deve essere dotato per svolgere anche da solo (con accesso diretto dell'utenza) quegli interventi che non necessita­no dei coinvolgimento di altri operatori. Perciò dovrebbe, tra l'altro, essere evitata una polve­rizzazione eccessiva delle singole figure profes­sionali; ad esempio dovrebbe essere prevista, per ogni distretto, almeno la dotazione di assi­stente sociale, educatore, assistente domiciliare, capaci di operare anche con attività proprie.

b2. Il momento dell'accesso dell'utenza è certo particolarmente delicato e quindi dovrebbe essere ometto di specifica riflessione, poiché prefigura la lettura di bisogni ed apre i rapporti col servizio. Un aspetto da valutare può essere il rischio di cercare forzatamente una integra­zione fra operatori diversi tramite la creazione di accessi al distretto che facciano passare l'uten­te per una serie di «filtri» e di colloqui inutili prima di attivare le prestazioni richieste.

II confronto di esperienze concrete potrebbe cioè far riflettere sulle forme di ricezione della utenza che evitino inutili passaggi senza sacrifi­care il raccordo tra diverse professionalità.

c) Il modello organizzativo «distretto» non dovrebbe quindi essere mitizzato ma verificato negli effetti che produce e, soprattutto, adattato alle specifiche realtà locali. In questo senso può servire proporre alcune possibili peculiarità dei distretti in area urbana, cioè nelle zone in cui la stessa USSL è parte di un Comune, come è il caso di Torino.

In questa situazione:

c1. esiste una contraddizione, ed occorre quindi trovare un punto di equilibrio tra:

- da un lato la minor dispersione della popola­zione, che rende possibili distretti con più abi­tanti di quelli extra urbani, anche per non polve­rizzare eccessivamente gli operatori;

- dall'altro il rilevante numero di operatori in questi distretti, che rende più complesse le loro relazioni.

In particolare questo problema può essere accentuato nei rapporti con i medici di base.

c2. I servizi di base di USSL urbane vanno costruiti tenendo conto delle relazioni tra tre li­velli del sistema di servizi: il distretto, l'USSL e la Città. Ci sono cioè funzioni e supporti di tipo multizonale e cittadino, per più USSL ed esigenze di coordinamento anche a livello della Città.

c3. Un corretto raccordo tra servizi di base e servizi integrativi richiede, in Torino, un preli­minare riordino della rete integrativa sia sanita­ria (distribuzione dei poliambulatori ed integra­zione della rete intra ed extra ospedaliera) sia socio-assistenziale (dove pur devono essere pre­senti, per economia di scala, servizi per più di una USSL come certi tipi di comunità alloggio).

d) Un'altra riflessione da approfondire concer­ne le funzioni di coordinamento del distretto. La funzione del coordinatore di distretto, sinora pre­visto senza responsabilità gerarchiche ma preva­lentemente con compiti di promozione dell'inte­grazione, in molte realtà mostra segni di crisi.

Possiamo indagare le ragioni di queste diffi­coltà ponendoci alcune domande: è poco reali­stico pensare che una figura senza funzioni gerar­chiche possa davvero promuovere integrazione tra operatori che rispondono a diversi uffici cen­trali dell'USSL? Oppure la funzione del coordina­tore può invece avere un suo senso e ciò che manca è un maggiore investimento, anche cultu­rale, degli uffici di direzione verso le esigenze dei distretti? A livello di USSL, per quanto riguar­da i servizi di base, è sufficiente il raccordo oriz­zontale tra i capi servizio nell'ufficio di direzione oppure è utile creare una specifica funzione di coordinamento dei distretti in sede centrale?

Ed ancora, sempre ponendo domande per il di­battito, se è cruciale il raccordo con la medicina di base per qualificare davvero il lavoro del di­stretto, non è più utile che il coordinatore di di­stretto sia un medico? Oppure il nocciolo della relazione con la medicina di base si governa a li­vello di USSL e il coordinamento nel distretto non riguarda tanto l'attività di singole professioni?

e) Un ultimo invito a riflettere su meccanismi organizzativi del distretto riguarda le attività, in particolari sanitarie, su gruppi di popolazione.

L'integrazione dei servizi di base nel distretto è nata anche per superare le vecchie e negative separazioni tra servizi a solo preventivi » (come la medicina scolastica ed i consultori pediatrici) e servizi «solo curativi» (come il medico mutua­lista), in particolare coinvolgendo il medico di ba­se anche nel lavoro preventivo.

Meriterebbe però di essere approfondito il mo­do col quale oggi si raccordano le attività sui sin­goli casi con quelle preventive su gruppi di popo­lazione o su comunità. Ciò significa ragionare su quali interventi sanitari collettivi (ad esempio gli screening nelle scuole) presentino un grado accettabile di efficacia, e non siano ripetitivi di attività del medico di base, e in ogni caso chi li debba svolgere e come garantire le connessioni con gli altri operatori del territorio.

Esistono peraltro attività di sanità pubblica, come l'informazione sanitaria e la prevenzione su ambienti e gruppi a rischio, che possono essere svolte dagli operatori dipendenti dei servizi di base anche senza diretto coinvolgimen­to dei medici convenzionati; tuttavia il raccordo tra queste attività e quelle del medico di base sui singoli utenti resta il terreno specifico su cui si gioca il superamento della separazione tra inter­venti preventivi e curativi.

 

3. Alcune conclusioni

Il ragionamento che sin qui si è snodato ha cer­cato da un lato di ricordare condizioni necessarie per attivare efficaci servizi di base e, dall'altro, di sottolineare l'esigenza di confronto anche sul­le modalità organizzative del distretto.

Sul piano culturale e politico va rilevato che spesso i servizi di base rappresentano una attivi­tà delle USSL che in termini di immagine «paga» meno dei grossi servizi integrativi come gli ospe­dali. Perciò, anche perché in genere i mass-media si occupano delle vicende socio-sanitarie che ri­guardano ospedali e ricoveri, l'investimento di attenzione di politici e dirigenti è spesso orien­tato più sulle grosse strutture che sui servizi territoriali.

Eppure i servizi di base sono quelli di primo e più diffuso incontro tra cittadini e sistema socia­sanitario, e sono altresì il terreno specifico di raccordo tra le USSL e i Comuni. Un ritorno di at­tenzione culturale e politica è perciò necessario per un rilancio dei servizi territoriali e deve con­cretizzarsi in impegni sia sugli aspetti istituzio­nali che organizzativi.

La forma organizzativa dei servizi di base do­vrebbe essere valutata verificando le esperienze ed i problemi concreti; non è utile replicare in tutte le realtà un identico ed ideale «modello» di distretto, e nemmeno ripetere ritualisticamen­te ovunque tutti gli interventi (ad esempio, può non essere necessario attivare in tutti i distretti il centro prelievi). Più utile pare invece finalizzare il modo di costruire i servizi di base ai bisogni prevalenti del proprio territorio, misurando l'inte­grazione non dal decentramento fisico ma dalle prestazioni coordinate.

 

 

ORDINE DEL GIORNO

 

I partecipanti dell'incontro di studio «Sviluppo dei servizi sanitari, assistenziali e sociali di base: nodi politici, istituzionali e organizzativi - Realtà e prospettive dei distretti socio-sanitari in Pie­monte», svoltosi a Torino il 24 novembre 1989, a conclusione del dibattito ritengono di segnalare al Ministro della sanità De Lorenzo:

- il dissenso totale sui contenuti della propo­sta del disegno di legge n. 4227 del 30.9.1989 che non considera la centralità della persona e l'esigenza di rispondere ai suoi bisogni con in­terventi che diano risposte globali e non setto­riali.

I partecipanti ritengono inoltre che:

- debba essere riaffermato il ruolo fonda­mentale del Comune, singolo o associato, che è l'organo più vicino al cittadino e quindi più in gra­do di conoscere la realtà di territorio e di realiz­zare pertanto interventi che meglio rispondano ai bisogni delle persone, in primo luogo con in­terventi di prevenzione. In questo quadro si pone l'esigenza di evitare settorializzazioni fra servizi sanitari, sociali o assistenziali e separazioni ar­tificiose fra interventi territoriali, ospedalieri e residenziali. Pertanto uno degli obiettivi princi­pali è l'integrazione di detti servizi che deve rea­lizzarsi attraverso il distretto di base;

- siano rilanciati i servizi di base sanitari e socio-assistenziali domiciliari alternativi al rico­vero in istituto, valorizzando la professionalità degli operatori (che va riconosciuta anche a li­vello di contratto di lavoro) e l'apporto del vo­lontariato.

 

 

 

(1) Il Gruppo permanente di lavoro per gli interventi alternativi al ricovero, costituitosi nel 1988, ha elaborato i documenti: «Per una cultura degli interventi sociali do­miciliari e territoriali in alternativa al ricovero» e «La riforma dell'assetto politico e organizzativo dei servizi sociali», pubblicati su Prospettive assistenziali, n. 85, gennaio-marzo 1989 e n. 87, luglio-settembre 1989.

 

 

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