Prospettive assistenziali, n. 94, aprile-giugno 1991

 

 

PER IL DIRITTO ALLA CURA DELLE PERSONE COLPITE DA MALATTIA DI ALZHEIMER

GRUPPO NAZIONALE ALZHEIMER (*)

 

 

Un malato... non malato?

O una persona molto malata?

Quando una persona è colpita dalla malattia di Alzheimer secondo la terminologia corrente diventa un «demente». Questa parola porta con sé evidenti connotazioni negative. Chi è «demen­te» vale meno, vale poco, vale quasi niente. È una cosa da non curare «perché non si può fare nulla di più». Bisogna tenerlo, custodirlo, aspet­tare che lentamente o rapidamente la situazione peggiori, in attesa di una morte che concluda «questo tempo amaro». Per molte persone, anche sanitari, chi è «demente» non è un malato, o almeno non è un malato serio, un malato con gli stessi diritti degli altri. È un malato... non malato, meno malato degli altri, che non va curato nelle stesse strutture degli altri, con la stessa atten­zione riservata agli altri (1). Si tratta invece di persone colpite da una malattia di cui si cono­scono i più significativi e devastanti aspetti; cioè di persone gravemente malate. Per questo gli interventi devono essere garantiti gratuitamente dalle USL.

 

Ma è necessario curare anche quando non si può guarire

Una ragione per questo abbandono c'è. Si può trovarla nell'impostazione culturale di un siste­ma sanitario che vuol solo guarire, che non accet­ta di curare anche quando si può far poco per far stare il paziente «come prima e meglio di prima».

Le malattie cronico-degenerative non consentono l'ottimismo sanitario della guarigione come mo­tivo indispensabile all'intervento, inducendo piut­tosto una riflessione sull'urgenza di misure pre­ventive, curative e riabilitative che tengano conto dei tempi lunghi, degli scarsi miglioramenti, del necessario sostegno negli aspetti economici, so­ciali e psicologici oltre che strettamente biologici.

Certamente la prevenzione, la cura e la riabili­tazione vanno garantite a tutti ma soprattutto agli anziani e a coloro che sono colpiti (o possono esserlo) da patologie gravi come quella di Alzhei­mer. Non si può fare dell'età avanzata o della gravità della malattia un motivo per curare di meno. Piuttosto sarà necessario non curare di più, ma curare in modo appropriato rispondendo alle effettive necessità.

 

Un malato da curare anche perché ha bisogno di specifiche cure

Gran parte del personale sanitario sembra dire con il suo comportamento: «di questi malati deve occuparsi qualcun'altro». Si spiegano così le de­cisioni di rinviare al settore assistenziale molti malati anche in condizioni gravi. Per far questo basta ritenere che un non autosufficiente sia un «demente» per sentirsi nella ragione dichiarando che «non è un malato la cui competenza spetta al settore sanitario». Ma chi sostiene questo dimentica che tra i due settori (sanitario e assi­stenziale) esistono molte profonde differenze. È utile riproporne un quadro sintetico:

 

settore sanitario

 

La Costituzione estende gli interventi a tutti i cittadini senza alcuna limitazione (art. 3; 32)

 

 

Le prestazioni sono fornite immediatamente a semplice richiesta del cittadino. I servizi sono gratuiti, salvo ticket

 

 

 

Nessuna contribuzione è a carico dei parenti tenuti agli alimenti

 

La legge richiede abilitazioni e titoli specifici per il personale, prevedendo per gli stessi man­sionari tassativi

 

Gli standards minimi delle strutture pubbliche e private, anche se non soddisfacenti, sono da anni stabiliti da leggi nazionali

 

settore assistenziale

 

La Costituzione limita gli interventi ai cittadini «inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere» (art. 38)

 

Le prestazioni sono fornite solo dopo l'effettua­zione di inchieste sociali (spesso lunghe). Agli utenti viene sempre richiesto un contributo, esclusi evidentemente coloro che sono privi di mezzi economici

 

Molto spesso viene richiesto un contributo economico anche ai parenti tenuti agli alimenti

 

La legge non richiede abilitazioni e titoli speci­fici per il personale, né prevede mansionari, nep­pure nel caso della direzione dei servizi

 

Gli standards minimi delle strutture pubbliche e private non sono definiti da nessuna legge na­zionale.

 

 

Si noti quindi che mentre un settore (quello sanitario) offre garanzie adeguate per la tutela dei diritti dei cittadini, lo stesso non può dirsi per il settore assistenziale (che dovrebbe occu­parsi esclusivamente di una parte di loro). Tra l'altro è bene ricordare che quest'ultimo è privo di una legge quadro.

Per quel che riguarda i contributi economici forse non tutti sanno che sono piuttosto cospicui. Sia i comuni, che gli enti convenzionati (per non parlare del settore privato che, senza alcuna spe­cifica autorizzazione, specula sulle necessità di tanti anziani e di tante famiglie) richiedono rette da 35/50.000 e più al giorno.

 

Un malato che ha bisogno (e diritto) come tutti... di prevenzione, cura e riabilitazione

Ma di cosa avrebbe bisogno una persona col­pita dalla malattia di Alzheimer? Di cosa hanno bisogno i malati colpiti da ogni forma di demenza? Primariamente hanno necessità (oltre che dirit­to) di essere curati come gli altri. Hanno bisogno di non essere abbandonati a loro stessi proprio perché progressivamente ed irreversibilmente vengono meno le funzioni nervose superiori e si determinano disturbi dell'umore: depressione, maniacalità, delirio, allucinazioni. Ciò vuol dire in termini di vita quotidiana, aver difficoltà (o es­sere presto impossibilitati) a mangiare, bere, ve­stirsi, lavarsi da soli. Si diventa cioè non auto­sufficienti.

 

Un malato da assistere... anche quando è necessario farlo continuamente

È necessario intervenire per garantire l'inco­lumità di coloro che frequentemente non posso­no neanche garantirsi da soli la cura delle pro­prie persone. Nelle fasi più gravi della malattia l'assistenza necessaria è, a volte, sull'intero arco delle 24 ore. Ciò rende difficile per chiunque seguire adeguatamente un paziente senza soste­gni e sostituzioni. Se ciò è vero per le strutture di ricovero dove il personale si alterna con pre­senze a turno, è altrettanto se non è più vero, per una famiglia spesso composta di pochi mem­bri. È facile immaginare la difficoltà che incontra una famiglia che decida di tenere a casa propria una persona colpita da malattia di Alzheimer.

Troppo facilmente chi ha la responsabilità tec­nica e politica dei servizi scarica sulla famiglia l'onere delle cure celando tutto ciò dietro un obbligo inventato (2). Ciò è inaccettabile. È dele­terio fare appello a pretesi vincoli familiari quan­do nulla si fa per sostenere quelle famiglie che, pur non essendovi obbligate da nessuna legge, decidono di assistere i propri congiunti in casa. Non si possono far quadrare i conti evitando di curare la gente, lasciando che le famiglie risol­vano da sole i problemi che la malattia crea ai loro membri. È necessario che si attuino precisi interventi di sostegno per favorire la massima autonomia possibile dei malati e alleggerire il pesante carico di assistenza prestato dalla fami­glia. Al riguardo è indispensabile una idonea, tempestiva e completa informazione ai familiari. Ciò anche per garantire che i rapporti con i con­giunti siano proficui. La malattia di Alzheimer non è conosciuta nella sua eziologia ma dal punto di vista descrittivo la ricerca scientifica ha indivi­duato dei percorsi precisi: si può parlare di fasi, di livelli, cui si associano sintomi e comporta­menti. Essere informati su quello che probabil­mente accadrà, sull'evolversi della situazione, su quello che sarà domani è indispensabile. Non si tratta solo di far un po' di educazione sanitaria «in situazione» ma di mettere in condizione le persone di prendere decisioni opportune e sagge.

 

Non basta muoversi per essere sani

Questi malati frequentemente mantengono la capacità di muoversi da soli e ciò induce molti medici a non considerarli malati, o tanto malati. Per molti sono autosufficienti «perché si vede: si muovono!». Ma la deambulazione può però diven­tare pericolosa, anche molto pericolosa, se asso­ciata alla mancanza di orientamento, alla confu­sione, ai disturbi dell'umore. Può capitare infatti che il malato non trovi la via del ritorno, che si perda facilmente anche in ambienti che conosce bene. Il problema dell'orientamento è decisivo tanto che sono state realizzate apposite tecniche di riabilitazione nella speranza che intervenendo su queste funzioni si determini un miglioramento sia specifico che generale nelle condizioni di salute.

 

Dalla cura della malattia alla tutela della salute

Molte tecniche di riabilitazione, così come al­tri interventi rivolti a queste persone, non utiliz­zano farmaci, non debbono realizzarsi esclusiva­mente presso centri sanitari, e possono avvalersi anche della collaborazione di personale non me­dico per l'esecuzione (parenti, amici, volontari...). Sono per questo «meno sanitarie»? Perché non dovrebbero essere di competenza sanitaria? Non è forse di competenza sanitaria tutto ciò che concorre al raggiungimento del!a salute degli in­dividui e delle popolazioni? Sanità non è solo strutture sanitarie: sanità è difesa e promozione della salute anche attraverso strumenti apparen­temente non canonizzati come sanitari.

 

Per altri non ci si è comportati così

Il nostro paese, come tutto l'emisfero nord del pianeta, conosce da tempo una legislazione che difende la salute dei lavoratori. Per far ciò non si è esitato ad utilizzare le competenze di inge­gneri, chimici, biologi etc., oltre che di medici di varia specializzazione, affinché con le loro speci­fiche competenze contribuissero a difendere e promuovere la salute nei luoghi di vita e di lavo­ro. Strano a dirsi la stessa impostazione fatica a ripetersi per le persone che non sono più produt­tive e ancor peggio per coloro che non possono autodifendersi. Se ne deve arguire che si difende la salute solo di coloro che hanno forza, che pos­sono difendersi facendo pesare le loro ragioni?

Si parla spesso di integrazione tra aree di com­petenza e, semplificando, si specifica che «biso­gna integrare il sociale con il sanitario». Che vuol dire al di là delle formule? Piuttosto che sognare confusioni sarebbe meglio prevedere due grandi orientamenti riformatori:

- da una parte infatti tutti i settori dovreb­bero acquisire la dimensione sociale come pro­pria, evitando che si creino scuole speciali per handicappati, trasporti speciali per disabili, pen­sioni diversificate per tipo di patologia..., facendo sì, al contrario, che tutti i settori vitali della vita civile siano effettivamente «per tutti» e non solo per i forti, gli autonomi, i normali. Far questo rappresenterebbe un vantaggio per tutti e non solo per la minoranza di persone :n difficoltà che potrebbero vivere meglio in un mondo con meno barriere;

- d'altra parte si deve consentire che il set­tore sanitario assuma tutte le professionalità che servono a svolgere i propri compiti. Così come sono stati previsti degli ingegneri per controllare la pericolosità dei macchinari nelle aziende, pre­vedendo che tale attività fosse sanitaria, così dovrà essere assunto il personale (anche con qualifiche sociali) eventualmente necessario a raggiungere l'obiettivo salute.

 

Realizzare presto dei servizi adeguati

Non solo le persone colpite da malattia di AIzheimer devono essere considerate per quello che sono (cioè dei malati spesso in gravi condi­zioni di non autosufficienza), ma bisogna attrez­zare dei servizi che siano effettivamente all'al­tezza delle esigenze della popolazione. Dopo le dichiarazioni di principio è infatti indispensabile attuare delle risposte adeguate per non far sì che ciò che si dichiara venga poi stravolto dalle de­cisioni programmatiche. I servizi debbono garan­tire prevenzione, cura e riabilitazione per coloro che sono attualmente colpiti dalla malattia e per tutti coloro che lo saranno. La competenza di questi interventi dovrà essere stabilita tenendo conto delle conoscenze acquisite. Devono quindi prevedersi, in ogni USL, servizi ad hoc quali:

- interventi domiciliari sociali e sanitari:

- predisposizione di centri diurni che permet­tano di seguire i pazienti almeno nell'arco di 8 ore giornaliere per 7 giorni settimanali;

- attivazione di servizi diagnostici, curativi e riabilitativi;

- servizi territoriali di risocializzazione e ani­mazione.

In particolare nel centro diurno potrebbero essere effettuate:

- la valutazione delle esigenze dei singoli pazienti al fine di individuare gli interventi da for­nire. I dati così rilevati potrebbero essere utiliz­zati dalla USL a fini di programmazione dei ser­vizi;

- le attività riattivanti per consentire al pa­ziente il mantenimento della massima autonomia possibile;

- le attività di counseling e sostegno ai fa­miliari.

Si rileva ancora l'importanza di intervenire nei confronti dei malati e delle loro famiglie con Gruppi di sostegno. È altresì da favorire il volon­tariato, il cui ruolo non deve essere sostitutivo delle funzioni dei servizi. Anche il volontariato dovrebbe privilegiare gli interventi domiciliari.

 

La questione diagnostica

Va ancora segnalato il caso, purtroppo molto frequente, di diagnosi improprie per le quali ven­gono classificati come «dementi» soggetti che non lo sono, e al contrario vengono non conside­rati tali coloro i quali non sono stati sottoposti ad approfondimenti diagnostici adeguati. Si trat­ta di un'area grigia che, tenendo conto delle sti­me OMS che indicano la prevalenza della malat­tia di Alzheimer in valori tra 100 e 200 casi per 1.000 abitanti ultrasessantenni, va ben oltre le quantificazioni attuali. Si può stimare, anche se con cautela, che le persone colpite da malattia di Alzheimer siano attualmente in Italia tra 590.000 e 730.000. È indispensabile quindi che l'apparato diagnostico sia adeguato alle esigenze presenti e anche che la ricerca nel settore sia ulterior­mente sostenuta.

 

I «dementi» fuori dal manicomio

Non è senza senso ricordare che le dimensioni del fenomeno «demenze» sono emerse in Italia soprattutto dopo la legge di riforma psichiatrica. Fino alla legge 180 infatti molti «dementi» erano semplicemente dimenticati nei manicomi, privati sia della diagnosi che di cure specifiche. Dopo quella legge che ha impedito nuovi ingressi nei manicomi un mondo separato, sommerso, tragico è venuto alla luce: in questa folla c'erano molti «dementi». Si è potuto constatare allora che ac­canto a quelli che matti non erano affatto (3) c'era una parte di malati «organici», non sociali, non tanto frutto dell'emarginazione quanto emar­ginati in conseguenza della loro malattia.

Questo abbandono è proseguito anche per l'ac­canirsi di approcci che esasperando il contenuto sociale della malattia hanno nascosto la condi­zione obbiettiva di molti malati sia fisici che men­tali. La riforma psichiatrica ha restituito al mala­to psichiatrico la sua condizione di malato. È necessario purtroppo oggi intervenire perché ciò sia riconosciuto anche per le persone colpite da malattia di Alzheimer e per tutte le forme di de­menza.

 

Bisogna intervenire con urgenza e a casa: molti malati sono anziani

La constatazione che la gran parte dei «demen­ti» si colloca nelle fasce di età più avanzate non può certo indurre ad evitare cure indispensabili «perché tanto sono anziani». Al contrario l'età avanzata e la ridotta speranza di vita devono in­durre ad intervenire con urgenza, cominciando dai più gravi e senza dimenticare di attuare fin d'ora opportuni interventi di prevenzione.

È altresì indispensabile che siano privilegiati gli interventi domiciliari rispetto a quelli residen­ziali. I primi infatti non necessitano di alcun in­vestimento iniziale (necessario invece per la co­struzione di nuove strutture di ricovero e per l'ammodernamento delle vecchie), rispondono ad una esigenza sentita dei pazienti e delle loro famiglie, ottengono migliori risultati a minori co­sti. Nel caso fosse necessario predisporre inter­venti di tipo residenziale è certamente più oppor­tuno creare case alloggio di 8/10 posti, piuttosto che massificanti residenze sanitarie da 30/60 po­sti. Come giustamente è stato notato «chi soffre di disturbi psichici ha bisogno non tanto di un letto d'ospedale: ha bisogno di un luogo protetto in cui ristabilire, al riparo da ogni violenza, l'equi­librio fra se stesso e il mondo» (4).

 

Firenze, 16 marzo 1991

 

   

(*) Il Gruppo di lavoro è coordinato da Luigi Amaducci, Direttore del Progetto finalizzato «Invecchiamento» dal Consiglio Nazionale delle Ricerche ed è costituito da Andrea Bartoli, Direttore del CSPSS - Centro Studi e programmi Sociali e Sanitari, Giuliano Binetti e Orazio Zanetti del Dipartimento di Ricerca Clinica per la Malattia di Al­zhelmer - Centro Sperimentale della Regione Lombardia - Brescia, Attilio Colza e Daniele Villani della 2ª Divisione di Lungodegenza Riabilitativa - Ospedale di Cremona, Fa­brizio Fabris - Direttore dell'Istituto di Medicina e Chirur­gia Geriatrica dell'Università di Torino, Ermanno Ferrario - Aiuto dell'Istituto suddetto, Francesco Santanera della Re­dazione di «Prospettive assistenziali», Patrizia Spadin - Presidente dell'Associazione Italiana Malattia di Alzheimer, Marco Trabucchi - Ordinario di Farmacologia della 2ª Uni­versità di Roma.

(1) Ad esempio la USL Torino VII, con lettera dell'8 feb­braio 1989, prot. 1380/108, ha comunicato ai parenti di un malato che «la demenza senile esula dal campo di stretta pertinenza sanitaria se non quando si accompagna a pato­logie acute o a riacutizzazioni di patologie croniche suscet­tibili di essere trattate da sanitari nell'ambito della medi­cina di base o specialistica».

Ugualmente il primario psichiatra responsabile del ser­vizio di salute mentale della USL Torino II (lettera del 23 marzo 1989, prot. 25/89) dopo aver affermato che la pazien­te «è affetta da demenza senile di natura arteriosclerotica con compromissione delle funzioni psichiche superiori, tur­be comportamentali, incapacità di autogestirsi» ha soste­nuto: «ritengo che la signora NON rientri nella categoria degli assistiti psichiatrici e che il problema dell'assistenza della signora... debba essere gestito dal servizio socio-­assistenziale del Comune di Torino».

(2) In base alle leggi vigenti i familiari non hanno alcun obbligo giuridico di accogliere o seguire a casa i loro congiunti malati cronici non autosufficienti. Gli enti pub­blici, d'altro canto, non possono obbligare i parenti a cor­rispondere gli alimenti in quanto detta prestazione può essere richiesta solo dai parenti stessi. Nessun ente può sostituirsi ad essi nell'esercizio di tale diritto.

(3) Tra tutti si veda il caso delle esperienze venete di risocializzazione.

(4) Cfr. il secondo documento del Gruppo CSPSS-ISTISSS «Criteri guida degli interventi sanitari relativi alle persone gravemente non autosufficienti e indicazioni in merito agli interventi domiciliari, semi residenziali, residenziali» in Prospettive assistenziali, n. 79, luglio-settembre 1987.

 

 

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