CONVEGNO DELLA CEI «A SERVIZIO DELLA
VITA UMANA» (*)
La pubblicazione degli atti del convegno nazionale «A
servizio della vita umana» (1), tenutosi a Roma dal 13 al 16 aprile 1989,
rientra nelle iniziative promosse dalla Conferenza episcopale italiana per la
promozione di una cultura per la vita. Ci pare di cogliere in questo convegno
il tentativo di favorire una attenzione particolare al valore della vita umana
in tutte le sue dimensioni e senza alcuna preferenza o distinzione di sesso,
di età, di condizione sociale, di malattia, di razza.
Si è trattato di un momento rivolto esclusivamente
ad ambienti cattolici, ma che ha coinvolto oltre agli ecclesiastici anche
esperti laici dei vari settari.
Il Card. Ugo Poletti, nella sua presentazione, rileva
come il convegno «con i suoi 750 delegati
diocesani e con le 7.000 persone presenti nell'Aula Paolo VI, alla udienza
conclusiva del Santo Padre, abbia voluto riportare al centro della
consapevolezza cristiana l'esigenza di risposte individuali, comunitarie e
istituzionali» (p. VIII).
Negli atti sono riportati anche il documento «Evangelizzazione
e cultura della vita umana» dell'Episcopato italiano e le relazioni di apertura
che - va rilevato - affrontano il tema non solo dal punto strettamente
ecclesiale, ma anche con un richiamo altrettanto forte al rispetto dei diritti
fondamentali della persona nella comunità per la promozione della vita umana
(relazione di Cesare Mirabelli).
Tre
sono stati gli ambiti di approfondimento:
a)
cultura e servizi per la vita che inizia;
b)
cultura e servizi per la salute e per la vita nella marginalità;
c)
cultura e servizi per la vita fino al suo compiersi nel tempo.
Per esigenze di spazio ci soffermiamo solo sugli
aspetti che si riferiscono alle tematiche affrontate dalla nostra rivista.
Diritti del minore, affidamento e adozione
L'ambito a), che comprendeva sette gruppi di studio,
ha affrontato - per quanto ci riguarda - i diritti del minore, l'affidamento
familiare e la adozione, evidenziando i compiti delle istituzioni e l'apporto
delle famiglie.
«Un corretto
approccio culturale alla riflessione sopra la condizione minorile nella
società attuale - ha esordito
Pasquale Andria nella relazione introduttiva - non può non prendere le mosse dalla consapevolezza, chiara e netta, che
il minore è soggetto di diritti» (p. 253).
«Sovente il
bambino, il ragazzo, l'adolescente sono di fatto considerati piuttosto in
funzione di ciò che potranno essere nell'età adulta che non di quel che sono
nel presente, con i loro bisogni, le loro esigenze, la loro attuale dignità e
intangibilità di persona». Al di là
delle apparenze c'è spesso la tendenza a considerare «il bambino come oggetto da manipolare, da usare, da assumere come
strumento di gratificazione e di realizzazione dell'adulto (...) e a svalutare la gratuità costruttiva di
autentici rapporti umani e l'oblatività esigita da ogni relazione educativa»
(p. 253).
«Sembra
dunque permanere un diffuso disagio del minori in una società adultista, un
disagio inteso come scarto tra i bisogni vitali e fondamentali dei minori e
la capacità di risposta a tali bisogni da parte del mondo degli adulti e delle
agenzie educative (la famiglia, la scuola, i servizi, le istituzioni in genere,
la stessa comunità cristiana nei luoghi ordinari in cui si esprimono le sue
istanze formative: parrocchie, gruppi, associazioni, movimenti, ecc.). Di
fatto, anzi, sovente si verifica che proprio le sedi, nelle quali
istituzionalmente e naturalmente dovrebbe realizzarsi, sostenersi e propiziarsi
l'educazione del soggetto in età evolutiva, divengano esse stesse occasioni e
strumenti di emarginazione distruttiva. Ciò vale, in primo luogo, per la famiglia
che, peraltro, spesso non è messa nelle condizioni d1 adempiere il proprio
ruolo, né è sorretta da un'adeguata rete di solidarietà sociale e
istituzionale e, lasciata sola, finisce per scontare le proprie deprivazioni
morali, culturali, economiche in una obiettiva inidoneità educativa» (p. 254).
«Tale
inadeguatezza attraversa anche la comunità scolastica che - da sede
privilegiata di integrazione sociale e di crescita educativa per i minori - si
tramuta sovente in occasione di ulteriore marginalizzazione nei confronti del
propri utenti più "difficili", che poi sono quelli più disagiati dal
punto di vista familiare e sociale. Il fenomeno della evasione scolastica non può
considerarsi debellato, se si pensa che - oltre agli evasori "puri" -
almeno il 3% del ragazzi abbandona dopo le elementari, il 4,3% dopo la prima
classe media, il 4,9% dopo la seconda, senza contare che le stime ufficiali scontano
sfasature e disfunzioni - particolarmente al sud - finanche nella rilevazione
dei dati (...).
«Sembra in
particolare di dover segnalare una diffusa difficoltà, specificamente in alcune
aree del paese, di organizzare una rete adeguata di servizi sociali per i
minori. Ad ormai dodici anni di distanza dalla riforma attuata con il DPR 616/
1977, che ha devoluto !a competenza in materia al sistema delle amministrazioni
locali e particolarmente ai comuni, di fatto non è ancora decollata
un'adeguata organizzazione dei servizi di territorio che siano realmente in
grado di sorreggere e integrare le famiglie in difficoltà e di erogare
prestazioni adeguate secondo uno stile e un metodo di globalità» (p. 255).
«In questo
contesto, estremamente complesso e contraddittorio, assume un particolare
significato la legge 4 maggio 1983, n. 184, contenente la disciplina
dell'adozione e dell'affidamento del minori. Com'è noto, essa, oltre a
disciplinare in modo profondamente innovativo la materia adozionale (...),
introduce per la prima volta nell'ordinamento italiano una normativa,
sufficientemente organica e coordinata con gli altri interventi possibili,
dell'affidamento (...). Esso appare focalizzato sulla famiglia come soggetto centrale
dell'intervento, (...) nel senso che è a un'altra famiglia, possibilmente con
figli, che - in via principale - bisogna rivolgersi come risorsa per rimediare
alle insufficienze o alle temporanee difficoltà della famiglia biologica
(...). Una scelta preferenziale in favore della famiglia biologica (...) non
significa passiva e inerte preservazione dei diritti della famiglia di sangue,
ma concreta e operosa attivazione di misure di sostegno (...)» (p. 256).
L'adozione non è dunque una scorciatoia e deve
rappresentare «la soluzione estrema, che
talvolta potrà esigere anche un "taglio" coraggioso, se ciò sia
necessario nell'interesse preminente del minore (...) da attuarsi allorquando
le altre vie, volte a realizzare il diritto all'educazione "nell'ambito
della propria famiglia" e concretamente sperimentate, si siano rivelate
!mpraticabili» (p. 257).
«Di fatto,
allo stato, registriamo un andamento dei provvedimenti adozionali che va nel
senso del decentramento, ma, ciò che è più rilevante, le adozioni
internazionali superano ormai di gran lunga quelle "nazionali": nel
1987 gli affidamenti preadottivi di bambini stranieri sono stati 1.541 contro i
1.126 affidamenti preadottivi di minori italiani. Tutto questo porta con sé
enormi problematiche, perché l'adozione internazionale, (...) finisce per
funzionare come una sorta di "sfogatoio"» (p. 257).
Né si può dimenticare - continua il relatore - che «negli istituti educativo-assistenziali,
oggi in Italia, sono ancora ospitati 55.000 minori: un numero (...) ancora
terribilmente alto, soprattutto se si aggiungono gli oltre 7.000 minori
portatori di handicap, del pari istituzionalizzati». Anche se non si può
certamente ritenere «che si tratti di
casi che possono risolversi con l'adozione», ci troviamo tuttavia di
fronte a situazioni «che potrebbero
trovare un loro esito soddisfacente con interventi appropriati di sostegno,
ivi compreso l'affidamento» (p. 257).
Dalla riflessione sui diritti dei minori emerge
infine un «invito pressante alla comunità
cristiana a una maggiore considerazione dell'accoglienza della vita dal suo
concepimento fino agli sviluppi successivi: si è cioè affermata la necessità
dl un Impegno comune in favore di una cultura della vita nata, oltre che di
quella nascente» (p. 259).
Persone colpite da handicap
L'ambito b) ha invece sviluppato i lavori dei cinque
gruppi sulle tematiche relative all'handicap e alla tossicodipendenza,
soffermandosi sul ruolo dei servizi socio-sanitari a sostegno della famiglia e
del singolo, quale alternativa alla prassi del ricovero in istituto o
all'isolamento delle persone «marginali». Nella introduzione ai lavori l'avv.
Salvatore Nocera si è soffermato volutamente sull'approccio culturale dei
cattolici rispetto alla vita delle persone handicappate. Qual è la cultura
«della vita» che ci guida a interessarci degli handicappati?
Egli ha sottolineato come «l'assistenza psicopedagogica alle famiglie in difficoltà è carente; i
servizi territoriali di riabilitazione fisica e psichica, specie nel sud
dell'Italia, non sono dotati del numero sufficiente di operatori per collaborare
fattivamente con le famiglie. Il progetto-obiettivo del Piano sanitario
nazionale per il triennio 1989-91 prevede un incremento (...) ma in misura non
adeguata. Prevede invece la creazione dl molte strutture residenziali e
semiresidenziali per handicappati che possono considerarsi una risposta di
ripiego rispetto alla permanenza degli handicappati in famiglia. E gli istituti
speciali per handicappati rimangono ancor oggi una risposta massiccia che, se
sgrava le famiglie di un peso, ne vanifica la funzione dl educazione e
allevamento della prole» (p. 285).
A questo proposito viene rilevato come «le nostre comunità ecclesiali nella
maggioranza non realizzano una concreta cultura dell'accoglienza nei confronti
delle persone cosiddette marginali, limitandosi talora solo a parole consolatorie»
(p. 285).
Fra i credenti è ancora troppo diffusa una cultura
religiosa che, specie in presenza della sofferenza, preferisce rifugiarsi nel
disimpegno. Inoltre «anche tra i
praticanti, però, è ancora molto diffusa l'opinione che gli istituti e le scuole
speciali siano la migliore soluzione» (p. 286).
Al contrario si ha urgente bisogno - continua il
relatore - di strutture rinnovate e di servizi adeguati alle esigenze delle
persone. Soltanto un «rinnovamento culturale» può far nascere servizi di nuovo
tipo per l'accoglienza, l'integrazione scolastica, sociale e lavorativa per
gli handicappati, «che aiuteranno la
madre a non rifiutare il figlio handicappato, a non rinchiuderlo in un
istituto, anche se speciale, a non segregarlo in casa per vergogna» (p.
289).
«La società
civile si è data numerose leggi per l'integrazione sociale degli handicappati,
fino alla citata sentenza della Corte costituzionale (n. 215/87) sul diritto
allo studio in tutti gli ordini di scuole comuni. Manca invece una seria
attuazione di queste disposizioni normative. Solo una rinnovata sensibilità
generale può far si che tutte le leggi vengano concretamente realizzate, con
servizi idonei a vantaggio degli handicappati, delle loro famiglie e di tutta
la comunità. I cristiani possono contribuire fattivamente a1 continuo
rinnovamento delle strutture e alla attuazione dei servizi per rendere
concretamente operante l'integrazione sociale degli handicappati. È questo, a
mio avviso, il compito di una nuova missionarietà affidato ai laici (...) in
dialogo con i non cristiani e col mondo».
Il relatore insiste particolarmente sull'aspetto
culturale in quanto ritiene che conseguenza di una cultura che favorisce
atteggiamenti pietistici e consolatori, o di delega e di indifferenza; è
l'assenza di servizi e strutture mirate a evitare un'insorgenza dell'handicap
(prevenzione).
«È
auspicabile dunque !o sviluppo di una cultura nuova: passaggio dall'assistenza
pietistica alla solidarietà e alla condivisione. È necessaria una rete di
servizi pubblici, privati e del privato sociale (cooperative, associazionismo,
volontariato) in un rapporto inter-istituzionale e con collaborazione
inter-professionale. Solo così si potrà realizzare un progetto globale di vita
tramite la presa in carico, da parte della comunità ecclesiale e sociale, dei
problemi degli handicappati e delle loro famiglie» (p. 290).
La relazione si conclude con un richiamo puntuale ai
documenti del magistero dal quale si possono attingere alcune linee-forza tra
cui la necessità di considerare i portatori di handicap come soggetti attivi
sia nella comunità ecclesiale sia nella società.
Anziani
L'ambito c), suddiviso in quattro gruppi di lavoro,
ha ruotato prioritariamente sulla persona dell'anziano, con una sottolineatura
nei confronti dell'anziano non autosufficiente.
Traspare da tutti i contributi l'intenzione di dare
un segnale, un messaggio che stimoli, in particolare la comunità cristiana, a
stare più attenta a questa dimensione della vita, perché sia garantita dignità
e rispetto delle esigenze anche a chi ormai è estromesso dal circuito produttivo.
Ci soffermiamo, anche in questo caso, su quanto
emerso dai gruppi che hanno affrontato argomenti a noi più vicini.
I lavori del primo gruppo di studio, dal titolo «Anziani
e società: problemi e prospettive sotto il profilo sociologico, ecclesiale e
spirituale» sono stati introdotti da Mons. Giovanni Nervo che ha sottolineato
tre aspetti essenziali del problema:
«- per
convenzione universale quando parliamo di anziani ci riferiamo a persone che
hanno raggiunto i 65 anni di età;
«- si tratta
di un fenomeno di enormi dimensioni: nel 1986 la popolazione italiana ultrasessantacinquenne
era di circa 7.500.000 unità su un totale di 57.200.000; fra 11 anni, gli ultra
sessantacinquenni saliranno a 9.978.000 unità, cioè il 17,4%;
«- gli
anziani non autosufficienti sono un numero relativamente limitato: 285.000,
pari al 3,8% degli ultrasessantacinquenni. Gli anziani in genere godono dunque
di buona salute e la maggior parte di loro non ha bisogno di assistenza, ma di
altre cose che li mantengano attivi e diano senso e gioia alla loro vita: ciò
che li porterà a star bene più a lungo, è la vera prevenzione».
Ha poi analizzato le principali questioni che
riguardano gli anziani, soffermandosi in particolare sulla considerazione che
la comunità cristiana e la società civile dovrebbero avere nei loro riguardi.
Per quest’ultima, egli ricorda che «la Costituzione non contiene il termine
anziano; ma persona, cittadino. Cioè l'anziano è un cittadino a pieno titolo,
che ha tutti i diritti garantiti dalla Costituzione stessa». In realtà - ha
proseguito Mons. Nervo - questi diritti «salvo
lodevolissime eccezioni, non sempre sono sufficientemente conosciuti,
valorizzati, sostenuti dalla comunità cristiana. Gli anziani, fino a che possono
servire a fare qualche lavoretto, a tenere i bambini, a far la spesa, a
custodire la casa, trovano spazio, poi sono eliminati ed emarginati. In genere
poi all'ultima fase, più carica di sofferenza e di bisogni, sono abbandonati.
In una società basata sul massimo profitto per il massimo godimento, l'uomo
vale non perché uomo, ma perché produce; il lavoro non è per l'uomo, ma l'uomo
per il lavoro. Quando non produce più, viene eliminato... a meno che non abbia
propria autonomia economica (contadini, artigiani, liberi professionisti,
commercianti). La vita vale se porta godimento materiale: possedere il massimo
di cose (case, vestiti, macchine, denaro...) per il massimo godimento. Quando
una persona disturba viene eliminata ed emarginata (eutanasia sostenuta
teoricamente, attuata già praticamente). Rischiamo tutti di diventare schiavi
di questo meccanismo infernale: massima produzione per massimo profitto,
massimo profitto per massimo consumo e godimento; il massimo consumo poi
richiede massima produzione, e il circolo si chiude. Da questo sistema di vita
i più deboli, tra cui in numero maggiore gli anziani, vengono schiacciati ed
emarginati. Questa concezione di vita influenza la cultura e le strutture:
non è previsto il posto per gli anziani».
Mons. Nervo pone una domanda: «La comunità cristiana subisce e accetta la cultura materialistica
dominante, limitandosi a un atteggiamento pietistico di compassione, a un po'
di assistenza e di volontariato, per rendere meno stridente la contraddizione
con i propri princìpi sulla persona, oppure si impegna a farsi sale e lievito
nella società, a dare una formazione delle coscienze e testimonianza profetica
in senso opposto, contro corrente, in modo coerente con la propria concezione
della vita e dell'anziano?».
E aggiunge: «Più
concretamente, come si pone la comunità cristiana di fronte all'anziano
autosufficiente? Se gli anziani non autosufficienti costituiscono un grave
problema per sé e per gli altri, gli anziani autosufficienti non sono per sé
un problema, rappresentano una normale condizione di vita. Quando fanno
sorgere un problema, il problema non è in loro, ma nella cultura e nella
organizzazione sbagliata della famiglia e della società: una società che considera
le persone un valore perché producono e finché producono; che, quando non
producono più, non sa più riconoscere loro uno status e un ruolo, non sa più
che cosa farne, dove metterle. Cerca di coprire il suo vuoto con forme di assistenza:
vacanze gratuite, gite, case di riposo. Il primo diritto dell'anziano
autosufficiente è di non essere assistito, se non ne ha bisogno, e di avere
condizioni dl vita che gli consentano di vivere come gli altri in mezzo agli
altri» (p. 340). Che cosa può fare concretamente la comunità cristiana e
qual è il compito per la famiglia, sono le successive domande alle quali il
relatore tenta di dare una risposta. In particolare, per ciò che riguarda la
famiglia, egli rileva che naturalmente, con realismo, ci sono situazioni
difficili, angosciose, che non si possono affrontare tenendo gli anziani in
casa, senza il rischio di sfasciare la famiglia stessa ed è quindi indispensabile
poterle sostenere con la solidarietà della comunità cristiana.
Un'ulteriore riflessione coinvolge anche la responsabilità
delle strutture ecclesiali: «In questo
discorso sono coinvolte anche le opere della Chiesa e delle Congregazioni
religiose, come pure le iniziative del volontariato. Nell'indagine sulle opere
assistenziali della Chiesa, condotta nel 1978 dalla Caritas italiana in
collaborazione con l'USMI, la CISM e l'UNEBA, risultava che delle 4.038 opere
il 34% era costituito da case di riposa per anziani, di cui il 67% erano censite
per autosufficienti. È in atto un'indagine di verifica: non conosciamo ancora i
risultati. Non sarebbe auspicabile che l'impegno delle religiose e del
volontariato si rivolgesse con priorità agli anziani non autosufficienti e
primariamente al sostegno delle famiglie? Circa le case di riposo per
autosufficienti non è da sottovalutare l'insidia sempre presente del privato
commerciale; se legittimo e normale nelle attività di mercato, qualora fosse
accettato ed esercitato nella Chiesa, non sarebbe esemplare» (p. 341).
Infine, secondo Mons. Nervo, «particolari responsabilità ricadono sui laici cristiani che hanno
per loro vocazione il compito e la responsabilità di organizzare e gestire le
istituzioni umane e quindi i servizi sociali della comunità. In ordine ai
problemi degli anziani autosufficienti - dei problemi dei non autosufficienti
si occuperà un'altra commissione di studio - mi sembra che la loro
responsabilità si possa individuare su due aspetti del problema:
«- come
pubblici amministratori creare condizioni ambientali (abitazioni, trasporti,
servizi di mensa e di lavanderia, servizio di telefono, servizio di tempo
libero, opportunità di lavoro part-time in attività di pubblica utilità) che
consentano all'anziano di rimanere il più a lungo possibile attivo nel suo
ambiente di vita. Ciò comporta anche l'organizzazione dei servizi sul
territorio per non autosufficienti, per impedire che gli anziani siano
costretti ,a entrare in casa di ricovero da autosufficienti per prendersi il posto
per quando non saranno più autosufficienti; e non disperdere il denaro
dell'assistenza in attività pseudo-assistenziali per autosufficienti;
«- come
educatori, promuovere nella scuola, nei gruppi, nelle associazioni di giovani
una cultura di accettazione, di accoglienza, di giusta valorizzazione degli
anziani» (p. 341).
Non manca poi nella sintesi conclusiva della
introduzione un richiamo ai dati più significativi sulla popolazione anziana.
Viene così rilevato che, mentre in base ai dati e alle proiezioni demografiche
degli ultrasessantacinquenni, il fenomeno della non autosufficienza sarebbe
limitato, non si comprende come dall'esperienza comune risulti una «lista
d'attesa» per ogni casa di ricovero per anziani «segno che molti autosufficienti presentano elementi di "non
autosufficienza" indotta dall'ambiente sociale e spesso anche familiare;
ma segno anche di una errata formazione generale e di una estesa carenza di
servizi di sostegno alla famiglia e alle persone anziane; e segno di una
incapacità della comunità a darsi organizzazione di vita, assetti urbanistici,
politiche ambientali, criteri di edilizia, trasporti pubblici, attività di
tempo libero, centri comuni ecc. adatti a essere usufruiti dalle persone
anziane, e soprattutto, le persone per qualche verso più deboli; come le
persone anziane e soprattutto più povere. È ben noto Infatti come sia tra gli
ultrasessantacinquenni che si conti la più elevata percentuale di poveri e indigenti
e come la politica economica generalmente adottata - al di là della
salvaguardia del redditi più bassi che è spesso solo nominale - sia inidonea
alla loro tutela» (p. 343).
Occorrono dunque precisi impegni e scelte prioritarie
a favore degli anziani: «Nell'operatività
si deve privilegiare la realizzazione di
condizioni di vita e l'adozione di modelli comportamentali che siano consoni
alle esigenze e alle possibilità delle persone anziane e non limitarsi
all'assistenza, che è sì un dovere di tutti, ma che deve pur sempre obbedire al
principio generale che non sia dato a titolo di carità ciò che è dovuto a
titolo di giustizia. Le concrete realizzazioni e iniziative volte a migliorare
le condizioni di vita delle persone anziane, debbono rispondere ad alcuni
fondamentali princìpi connaturati alla stessa natura umana:
«a) corresponsabilizzazione
della persona, affinché sia essa stessa autrice di scelte e attrice della
propria vita;
«b) garanzia di
libere scelte, che presuppongono sia l'esistenza di diverse opportunità sia la
corretta e non strumentale informazione;
«c) permanenza
della persona anziana nel proprio ambito sociale e familiare, apprestando
servizi di sostegno alla famiglia (assistenza domiciliare, integrata; équipe
di professionisti che elabora e realizza un progetto personalizzato;
organizzazione ambientale; ausili tecnici ecc.) e avendo presente che i primi
nemici dell'uomo sono la paura di dover dipendere dagli altri, la solitudine e
l'estraniazione dai normali circuiti di lavoro, sociale, culturale, di tempo
libero; cioè la mancanza di amore e di espressioni concrete di solidarietà.
Significative esperienze vedono ospitalità o "adozioni" di anziani
da parte di altre famiglie con reciproco arricchimento;
«d) predisposizione
di strutture esterne che sostengano la famiglia (centri sociali, dayhospital,
"case-giorno", attività organizzate ecc.) o che, laddove debbano
sostituirla, siano realizzate secondo condizioni e articolazioni che si
richiamino all'ambiente familiare. Quindi strutture piccole, inserite nei
centri urbani, aperte alla comunità locale, autogestite, basate sul reciproco
aiuto delle persone utenti, e non macrostrutture che, indipendentemente
dall'eventuale efficienza organizzativa, estraniano l'uomo dalla vita di
relazione;
«e) consapevolezza
che la persona è un valore che coinvolge l'intera comunità e che non tollera
deleghe; tutti siamo responsabili di tutti, anche se competenze, funzioni,
iniziative possono essere diversamente articolate e regolamentate. E questo
vale in modo significativo per i sacerdoti, i religiosi, le religiose, sia
nell'ambito delle proprie convivenze sia nell'ambito della più ampia comunità
ecclesiale, rappresentando le comunità religiose un dono dello Spirito santo
alla Chiesa» (p. 345).
Interessante e pienamente condivisibile risulta poi
la parte finale della relazione, che pone l'accento sui rischi che si incorrono
se le scelte del Governo non rispetteranno i diritti e le esigenze delle
persone anziane: «Coerentemente i piani
nazionali e regionali debbono avere a riferimento la persona nella sua
integrità e nella allocazione delle risorse debbono privilegiare le persone più
deboli: anche se il nuovo Piano sanitario nazionale rappresenta una
significativa inversione di tendenza, contiene tuttavia elementi (riduzione
posti letto, trasformazione ospedali con meno di 120 posti letto, realizzazione
di strutture per 140.000 posti letto per gli anziani ecc.) che possono
stravolgere i conclamati indirizzi generali. In questa prospettiva è urgente e
necessario che vengano realizzati tempestivamente gli obiettivi Indicati nel
progetto per gli anziani. In particolare è opportuno che l'azione degli enti locali
sia aperta all'integrazione di esperienze esterne e valorizzi l'opera del
volontariato e di altre libere istituzioni assistenziali, prevedendo una
regolamentazione del rapporti che sia finalizzata al servizio dell'uomo,
comprenda giuste procedure di raccordo e controllo, assicuri libertà di scelta
e di indirizzi nell'ambito di una organica programmazione. Ma la pianificazione
deve riguardare anche le opere della Chiesa, delle diocesi, delle Congregazioni
religiose impegnate nelle attività sociali che, in relazione alle risorse
disponibili e alle mutate realtà demografiche, economiche, sociali debbono
programmare i propri interventi, trasformare le attuali strutture (se non
corrispondono più a esigenze della comunità), riqualificare i servizi»
(p. 246).
Anziani non autosufficienti
Per quanto riguarda gli anziani non autosufficienti,
le proposte operative sono le seguenti: «a)
Rivedere la legislazione. Occorre, anzitutto,
che lo Stato provveda rapidamente a rivedere alcune leggi, in modo da
permettere una integrazione sociosanitaria a tutti i livelli, partendo da una
reale collaborazione tra tutti i ministeri interessati e comprendente anche le
Regioni e gli enti locali. Sinora le iniziative sono risultate scollegate tra
loro e mai finalizzate a un unico obiettivo. È indispensabile sostituire con
una nuova legge il citato Decreto presidenziale dell'8 agosto 1985, che
stabilisce per l'anziano cronico e non autosufficiente un'assistenza
esclusivamente sociale, negando allo stesso di usufruire delle prestazioni
sanitarie dl secondo e di terzo livello e, in ciò, contravvenendo ad uno dei
primi dettati della Costituzione dello Stato italiano. Alcune proposte
legislative, come quella del nuovo Piano sanitario nazionale, finalizzate ad
annullare questa ingiustizia sociale, non riescono ad arrivare a una rapida
approvazione e vi è da temere che restino soltanto una pia intenzione. Altre
norme, già divenute leggi dello Stato, non trovano ancora applicazione, come la
parte della legge finanziaria 1988 relativa alla costruzione di 140.000 posti
residenziali per anziani non autosufficienti. A distanza di due anni dal varo
di questa legge, non è stato ancora approntato il decreto indispensabile per
dare l'avvio all'approvazione dei progetti esecutivi.
«b) Sostenere la famiglia nella cura dell'anziana. Dev'essere dato il massimo aiuto possibile
alla famiglia per il suo ruolo fondamentale e insostituibile nell'assicurare
all'anziano la permanenza nella propria casa, circondato dall'affetto dei
propri congiunti. Il patrimonio prezioso dl amore e solidarietà, rappresentato
dall'unione familiare, va salvaguardato con ogni mezzo. L'Italia ha una
situazione dl gran lunga migliore di quella esistente In altre nazioni, dove
ormai le famiglie tendono ad affidare interamente al servizi pubblici
l'assistenza dei loro congiunti anziani. Occorre, perciò, rendere efficienti
servizi come l'assistenza domiciliare, il day hospital, l'ospedalizzazione a
domicilio. Dev'essere permesso al familiare che assiste l'anziano disabile di
rimanere assente dal lavoro e, contemporaneamente, continuare a percepire il
proprio stipendio, così come ora avviene per legge, per la madri dopo il parto.
Dev'essere data la possibilità di periodi di riposo per i congiunti che hanno
in carico l'anziano non autosufficiente, agevolandone il trasferimento per tempi
limitati in istituzioni, dove i familiari possano essere sicuri che egli verrà
assistito e curato in modo dignitoso.
«c) Strutture di assistenza adeguate. Tutti gli anziani non autosufficienti soli,
che non possono più rimanere nella loro casa, hanno diritto a una sistemazione
in strutture, dove il supporto sia tale da farli sentire in un ambiente il più
possibile simile a quello familiare e dove esistano tutti i presìdi - curativi
e riabilitativi - indispensabili per fornire loro un efficace intervento
sanitario. Pochissime sono in Italia le residenze per anziani non
autosufficienti che rispondono a questi requisiti. Dev'essere sottolineato che
carenze si possono riscontrare in istituzioni gestite da Istituti religiosi.
Spesso, poi, accade che l'accesso in queste sedi sia negato all'anziano nel
momento in cui diviene non autosufficiente.
«d) Spazio aperto al volontariato. Il volontariato è, dopo la famiglia, l'altro patrimonio prezioso di
solidarietà da conservare e potenziare. L'opera del volontariato, però, senza
l'intervento pubblico non può che limitarsi - tranne alcune eccezioni - a
un'azione di stimolo nel riguardi dell'opinione pubblica. Un volontariato,
invece, inserito in una rete istituzionale integrata ed efficiente di servizi,
riesce a dare un contributo sostanziale nell'alzare il livello qualitativo
dell'assistenza. Quindi lo Stato non può e non deve programmare il proprio
intervento pensando di devolvere una parte della responsabilità al
volontariato.
«e) Organizzare correttamente il servizio sanitario
nazionale. Avere un Servizio sanitario
nazionale (SSN) con l'obbligo, in base al dettato costituzionale, di dare
assistenza a tutti i cittadini è stata una conquista di civiltà da parte dello
Stato italiano. Ritenere di poter ovviare alle carenze attuali passando a una
gestione parzialmente o totalmente privatistica del SSN sarebbe un errore
gravissimo, perché tutto ciò andrebbe prima di tutto a scapito delle categorie
più emarginate sul piano sociale e più deboli su quello economico.
«f) Formazione degli operatori. Dev'essere prestata la massima attenzione alla formazione degli
operatori - sia istituzionali sia volontari - senza la quale qualsiasi sforzo
per produrre servizi efficienti è destinato a fallire. Lo spazio - ma anche la
responsabilità - che si apre alla comunità ecclesiale e, in modo particolare,
alle scuole cattoliche - dalle elementari all'università - è enorme,
soprattutto tenendo conto del vuoto lasciato dallo Stato (...)».
Estremamente interessanti le considerazioni sulla
carità: «In un mondo così profondamente
cambiato nel giro di pochi anni, la carità così come è stata sempre intesa,
cioè come slancio generoso del singolo, è divenuta solo una piccola parte del
grande spazio aperto alla "nuova solidarietà", realizzabile solo con
un'organizzazione capace di utilizzare al meglio gli enormi successi resi
disponibili dal progresso tecnologico. Si deve - in ultima analisi - tener sempre
ben presente che l'unico modo per sconfiggere i negatori della vita - i
paladini dell'eutanasia - si trova nella capacità di assistere non solo con
amore ma anche con efficacia».
(*) Sintesi di Maria Grazia Breda.
(1) Gli atti sono stati pubblicati dall'Editrice AVE, Roma,
1990, pp. 423, L. 40.000.
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