CHIESA E EMARGINAZIONE IN ITALIA:
UNA RICERCA (1)
GIOVANNI SARPELLON
Presentiamo la presente relazione per il suo notevole
interesse di documentazione e di contributo critico, anche se per alcune
osservazioni dissentiamo dall'Autore. Rileviamo, inoltre, che i questionari
predisposti per la ricerca erano molto generici. Ad esempio, quelli
concernenti gli istituti per i minori non contenevano alcun riferimento
all'attuazione della legge sull'adozione (invio elenchi semestrali dei minori
ricoverati, ecc). A loro volta i questionari riguardanti le strutture dl
ricovero degli anziani non individuavano le violazioni - a nostro avviso
numerosissime - del diritto alle cure sanitarie dei ricoverati con patologie
croniche e In situazione di non autosufficienza.
Due amici si incontrano dopo dieci anni: «Ciao, come stai?». «Abbastanza bene,
grazie; nonostante gli anni e pieno di voglia di lavorare». «E cosa hai fatto in
questi dieci anni?». «Ho fatto molto. Ho lasciato perdere alcune attività,
altre le ho rimodernate. E ho anche iniziato un buon numero di attività nuove».
«E con i tuoi
collaboratori, come te la cavi?». «Cosa vuoi, sono così tanti. Molti se ne
vanno, altrettanti vengono. Questo mi crea un po' di problemi per la loro
preparazione; ma per lo più è gente molto motivata, generosa. Pensa che un buon
numero lavora anche gratis!».
«E, dimmi,
come vanno le cose nel rapporti con i tuoi colleghi, quelli del tuo ambiente?».
«Oh qui non posso lamentarmi. Dieci anni fa c'erano molti problemi, invidie, sospetti.
Oggi tutto va meglio, si collabora insieme e così si può offrire un servizio migliore
»... E il colloquio continua.
È chiaro che questi due amici che si incontrano
siamo noi stessi, messi davanti allo specchio che ci è fornito dall'indagine
che la Consulta nazionale delle Opere caritative e assistenziali ci presenta
oggi.
Questi dieci anni (anzi undici) hanno portato
cambiamenti rilevanti. Anche fra noi stessi alcuni si sono ritirati dal
lavoro, altri se ne sano già andati in Paradiso, altri invece sono ancora qua,
a fare quello che possono.
La Chiesa continua la sua attività caritativa,
concreta manifestazione dell'amore fra i figli di Dio, anche se oggi queste
parole sono state sostituite da altre ben meno affascinanti, come welfare state, assistenza e
privato-sociale.
Gli ultimi dieci anni sono stati importanti in questo
mondo dell'assistenza sociale. Se
ripensiamo a ciò di cui si discuteva alla fine degli anni '70 e a ciò che lo
Stato si proponeva di fare per rispondere ad un dovere che egli stesso si era
imposto, potremmo essere stupiti di trovarci ancora qua tanto numerosi a
rappresentare una realtà operativa che, complessivamente, non è mutata gran
che. La struttura assistenziale della Chiesa, infatti, è ancora impegnata a
fornire servizi indispensabili, anche in nome e per conto dello Stato.
Non voglia dire se ciò sia un bene o un male, ma mi
pare che sia necessario fin dall'inizio sottolineare questa constatazione: la
Chiesa non è presente nel sociale tanto attraverso i suoi singoli membri attivi
nelle strutture pubbliche quanto attraverso servizi promossi e gestiti in
proprio. Ci sano certamente cristiani che lavorano nei servizi pubblici, ma.
non mi pare che se ne avverta la presenza distintiva nelle generali (e spesso
generiche) lamentele che continuamente si sentono. La Chiesa, e i cristiani,
sembrano piuttosto preferire distinguersi attraverso servizi tutti loro,
coordinati se possibile, ma comunque separati da quelli pubblici.
Devo ora aprire una parentesi, prima che sia troppo
tardi. Per questa mia relazione io ho attinto al rapporto finale
dell'indagine, rispetto al quale ha svolto una funzione del tutto marginale.
Riferisco quindi cose che sono state il frutto del lavoro di altri. Accanto ai
dati quantitativi non potranno mancare alcuni commenti. Anche per questi ho
cercata di seguire le indicazioni dei rapporto finale e ai suoi autori ne va il
merito; ma non è impossibile che ogni tanto vi abbia aggiunto qualcosa di mio.
E poiché non ho avuto il tempo di sottoporre il testa della mia relazione al
gruppo di lavoro, vi prego di tenere presente che le mie affermazioni non
implicano la responsabilità di nessun altro se non di me stesso. Se poi ci
sarà qualcuno che le condividerà, tanto meglio!
Chiusa la parentesi, comincio subito a presentare i
risultati più importanti dell'indagine, fornendo alcune informazioni preliminari
sul metodo.
Lo scopo dell'indagine era la rilevazione di tutti i
servizi socio -assistenziali collegati con la Chiesa in Italia. Questa è la
definizione di servizio adottata:
Servizio stabile nel tempo (e perciò caratterizzato da continuità operativa da
almeno 1 anno);
strutturato (cioè avente sede, statuto o regolamento,
organizzazione del lavoro, personale stabile);
effettivamente
operante nell'ambito socio-assistenziale (escluse quindi le attività solamente sanitarie, scolastiche,
ricreative);
dipendente
dalla Chiesa o in qualunque modo collegato con essa (sia attraverso una Congregazione religiosa, che
attraverso il Vescovo o i suoi delegati o assistenti ecclesiastici, compresi i
servizi attivati da associazioni di evidente matrice cristiana).
Stando agli indirizzi predisposti per l'indagine,
nelle 226 diocesi italiane erano presenti 4.553 servizi (1989); il 94,5% di
questi ha effettivamente compilato il questionario proposto. Di questi 4.301
questionari sono risultati infine utilizzabili 4.099.
Abbiamo quindi raccolto informazioni sul 90%
dell'universo di riferimento: è un grado di copertura più che buono, che ci
permette di affermare di aver fatto un secondo censimento.
Inoltre, tenendo conto che gli indirizzari di partenza
avevano alcune lacune e che 14 diocesi, per varie ragioni non hanno affatto
risposto all'appello, si può stimare che l’insieme dei servizi
socio-assistenziali collegati con la Chiesa in Italia sia composto da
4.600-4.700 unità.
Sono naturalmente servizi malto diversi fra loro per
settore di attività, dimensione, collocazione geografica. Riguardo
quest'ultimo aspetto si può subito dire che ancora una volta si ripete la
solita differenziazione fra il Nord del Paese e le altre regioni.
Nel Nord, infatti, si colloca il 56% di tutti i
servizi, al Centro il 16%, al Sud il 14%, nelle Isole il 14%.
Non è purtroppo una sorpresa, ma tuttavia non è
neppure qualcosa che si possa tranquillamente accettare.
Sappiamo che alcune Congregazioni religiose hanno
accolto l'invito della CEI di rafforzare la loro presenza nel Meridione, ma ci
accorgiamo che questo sforzo non è assolutamente sufficiente. Il Mezzogiorno,
infatti, non solo è la regione più povera d'Italia, che più di altre riscontra
la presenza di diffuse situazioni di bisogno anche grave, ma è anche quella
parte del Paese
dove
più scarsi sono i servizi pubblici. Si dovrà forse continuare a dire che oltre
allo Stato, anche la Chiesa si è dimenticata del Mezzogiorno? Cristo si è
fermato a Eboli, i cristiani d'aggi si sono fermati ben più a settentrione!
Lo Stato si è dotato di un meccanismo di redistribuzione
delle risorse; forse è tempo che anche la Chiesa faccia altrettanto
(possibilmente in maniera più efficace) utilizzando magari il fondo costituito
con l'8 per mille dell'Irpef. Non si tratta di colonizzare il Sud, né di
imporgli alcunché; si tratta di aiutare le potenzialità delle chiese locali
ad organizzarsi e svilupparsi per far fronte, localmente, ai loro bisogni
sociali. Le risorse umane non mancano; le risorse materiali ed organizzative
possono essere fornite da chi ne ha in abbondanza.
Ciò premesso, vediamo ora la distribuzione dei
servizi per settori d'attività. Anche qui serve una precisazione preliminare.
L'indagine è stata svolta con due strumenti
complementari: un primo grosso questionario, che ogni servizio contattato
doveva comunque riempire, ed una seconda serie di 9 diversi questionari brevi
corrispondenti ad altrettante categorie di possibili utenti dei servizi cui
facevano riscontro altrettante diverse unità operative dei servizi.
Naturalmente anche questa volta, come dieci anni fa, i servizi hanno dimostrato
una certa insofferenza di fronte alla valanga di domande che erano rivolte e
talvolta hanno risposto In maniera imperfetta o incompleta. Questo, altrettanto
naturalmente, ha creato qualche problema nel l'elaborazione dei dati e qualche
zona d'ombra nel quadro che ne è stato ricavato.
I 4.099 servizi che hanno risposto utilmente ai.
questionari hanno indicato complessivamente la presenza di 8.826 forme varie di
attività, rivolte a 18 diverse categorie di destinatari.
Tutte queste attività possono poi essere raggruppate
in 6.808 distinte unità operative. Per ognuna di queste unità operative era
richiesta la compilazione del corrispondente questionario «breve»: le risposte
utili sono tuttavia state solo 4.532 e da queste sono quindi state ricavate le
informazioni presentate nella seconda parte del rapporto finale.
La presenza della Chiesa nei vari settori socioassistenziali
può quindi essere rappresentata dalla distribuzione di queste 6.808 unità
operative: poiché tuttavia queste unità operative fanno capo ai 4.099 servizi,
è con riferimento a questo totale che verranno calcolati i valori percentuali
(si noti che, pertanto, la somma delle percentuali sarà necessariamente
superiore a 100, comprendendo alcuni servizi più di una unità operativa).
Unità operative per settori di attività
(%
su 4.099) (% su 6.808)
1. Anziani 1.738 42,4% 26
2. Minori e giovani a rischio 1.598 39,0%
23
3. Handicappati 994 24,2% 15
4. Tossicodipendenti alcoolisti, Aids 527 12,9%
8
5. Senza dimora e stranieri 422 10,3% 6
6. Famiglie a rischio madri nubili 619 15,1% 9
7. Detenuti ed ex detenuti 279 6,8%
4
8. Nomadi 144 3,3% 2
9. Ammalati 355 8,7% 6
6.808 100
La prima, elementare osservazione che bisogna fare
riguarda la presenza, ed il peso, dei diversi settori d'attività. È evidente
che accanto ad un settore «tradizionale», che comprende anziani, minori,
handicappati, sta un settore che si potrebbe qualificare come «moderno» o
nuovo, che comprende tossicodipendenti, nomadi e stranieri, famiglie a rischio,
detenuti ed ex, assistenza non sanitaria agli ammalati.
Io credo che sia saggio frenare l'impulso che ci
potrebbe spingere a condannare il tradizionale e ad esaltare il nuovo.
Assistere anziani, minori e handicappati non è di per
sé paco lodevole, certamente. Se si vuole dare un giudizio bisogna prendere in
considerazione una pluralità di elementi.
Anzitutto: perché
la Chiesa si trova impegnata in queste opere? Si tratta di una risposta a bisogni
reali e non soddisfatti da chi avrebbe il dovere di intervenire, o si tratta
invece del mantenimento di una presenza che non si vuole eliminare o ridurre?
Poi: come
opera la Chiesa? Le sue strutture operative si sano adeguate alle nuove esigenze
dell'assistenza, rispettose dei bisogni e della dignità della persona, oppure
continuano ad esistere quei grandi contenitori che mortificano chi vi è
rinchiuso?
E ancora: chi
assiste la Chiesa? Anzitutto coloro che si trovano nel bisogno più grave,
coloro che sono trascurati dagli altri o piuttosto coloro che meglio sanno
imporre le proprie necessità, forti anche del denaro che possono spendere (o
far spendere da altri)?
A queste domande cercheremo di trovare più avanti
alcune risposte, anche se sono i responsabili e gli operatori dei servizi che
devono farle proprie per sottoporre a verifica la loro attività.
Anziani, minori ed handicappati erano i principali
destinatari dei servizi socio-assistenziali anche dieci anni fa: essi
assorbivano la quasi totalità delle attività svolte, mentre nuove forme di
intervento erano spesso salo agli inizi, in fase sperimentale. Oggi la
situazione è ben diversa: oltre un terzo delle unità operative sono impegnate
in settori nuovi, come risposta a bisogni che in parte sono nuovi e che in
parte erano invece vecchi ma trascurati.
Concedetemi una parentesi autolodatoria: la Chiesa ed
il mondo cattolico spesso vengono criticati nella società civile per il loro
attaccamento alla tradizione, per il loro conservatorismo, se non per un
presunto oscurantismo. Ebbene, per quanto riguarda il settore
socio-assistenziale non c'è in Italia una forza più dinamica, innovatrice, coraggiosa
e generosa come quella dei servizi collegati con la Chiesa! Siamo qui
convenuti per iniziare una verifica del nostro operare disposti all’autocritica
e alla revisione, ma concediamo anche questa soddisfazione, se essa ci aiuterà
a trovare il modo di fare ancora meglio.
Chiusa la parentesi, riprendiamo l'esame dei dati,
cominciando col dire che non basta che una cosa sia nuova perché sia ben fatta.
Fra i nuovi servizi, per esempio, troviamo una preoccupante presenza di
personale poco professionalizzato, così come non sempre i rapporti di lavoro
sono regolati in forma chiara e precisa.
L'innovazione, inoltre, non è ugualmente presente in
tutto il territorio nazionale, lasciando ancora una volta il Mezzogiorno
immerso nel suo storico ritardo.
Il cambiamento si è verificato nella parziale
trasformazione del vecchio apparato assistenziale e nella istituzione di nuovi
servizi. Nei dieci anni che separano le due indagini, ha visto la luce circa un
terzo (32%) dei servizi rilevati due anni fa. Bisognerebbe certo analizzare di
quale genere di servizi si tratta, ma, già questa vitalità è un primo indice
positivo.
Guardando
invece fra i servizi tradizionali, troviamo ancora alcuni elementi di
preoccupazione.
Il primo è la permanenza di istituti residenziali di
grosse dimensioni per l'assistenza di anziani e minori: in questi casi è lecito
avere dubbi sulla qualità dell'assistenza prestata ai ricoverati. Già il
ricovero in istituto è, di per sé, una forma di intervento che andrebbe evitata
ad ogni costo, essendo evidente che la permanenza in famiglia è, con poche
eccezioni, preferibile all'istituto. Ma se, comunque, il ricorso all'istituto
non è evitabile, è assolutamente necessario che questo abbia, per quanto
passibile, le caratteristiche di una nuova famiglia e, prima fra tutte, una
dimensione ridotta.
Il secondo elemento di preoccupazione viene dalle
risposte ad alcune domande relative all'opera di prevenzione delle situazioni
di bisogno svolta dai servizi socio-assistenziali. Il 63% dei servizi
dichiara di non far nulla per la prevenzione, il 10% non risponde. A questo
dato, già preoccupante, bisogna aggiungere che solo una piccolissima parte di
coloro che non fanno prevenzione sembrano essere dispiaciuti di questa carenza,
mentre tutti gli altri, in un modo o in un altro, non si sentono tenuti anche a
questa attività. Questo sì che è il vecchio tradizionalismo immobile che va
demolito e sostituito con la cultura nuova dell'assistenza, che richiede
un'opera ben più complessa nella società, a partire dalla lotta alle condizioni
che generano poi le situazioni di bisogno grave.
I responsabili e gli operatori degli istituti devono
uscire dalle porte dei loro edifici e portare la loro opera nel territorio
circostante, per trovare là la soluzione di svuotare gli istituti, rendendoli
inutili.
Lo so, è facile a dire, ma sembra comunque necessario
dirlo, visto che a non pochi questa idea sembra non sia ancora venuta.
Un terzo elemento di preoccupazione, anche se per
certi versi questa è mista a soddisfazione, riguarda i cosiddetti rapporti con
il territorio, dove territorio non significa, come certamente si dovrebbe
intendere, campagna, monti e fiumi, ma la società civile circostante e le sue
istituzioni. La soddisfazione viene dalla constatazione che la difficile
situazione di dieci anni fa si è dissolta e che dalla contrapposizione di
allora fra pubblico e privato si è oggi passati ad una più fruttuosa
collaborazione. La preoccupazione viene invece, in un certo senso, da una
esagerazione di questa collaborazione, o piuttosto da una sua errata e
pericolosa concezione. Oltre i tre quarti dei servizi si dichiarano collegati
alla rete delle realtà pubbliche e private operanti sul territorio (...), e
questo è bene; quasi la metà ha stipulato convenzioni con vari enti pubblici,
dal Comune, alle USL, alla Regione, ed anche questo è bene. Ciò che non è bene
è che solo un settimo (14%) dei servizi fa parte di consulta istituita presso
gli enti locali ai fini della programmazione dei servizi sociali. Ed ancor
peggio è che salo un sesto (17%) dei servizi dichiara di avere un peso
rilevante nell'orientare le scelte politiche e amministrative degli enti
locali in materia di assistenza e servizi sociali, pur ammettendo che nei
quattro quinti dei casi (81%) il servizio ha un peso fra determinante e
significativo nel rispondere sul territorio ai bisogni sociali per i quali il
servizio è stato attivato.
Il che è come dire che i servizi collegati con la
Chiesa sono una parte importante (se non molto importante) dell'intera
attività socioassisten-ziale, ma rinunciano pressoché del tutto a partecipare
alla definizione della stessa politica sociale della quale sono i
protagonisti. Mi sembra questa una dimissione di responsabilità inaccettabile
e pericolosa, anche perché mi tormenta un dubbio: forse che la pace, se così
posso dire, fra pubblico e privato è stata ottenuta in questi dieci anni grazie
ad un compromesso poco onorevole? Ai privati cioè sono state date le convenzioni,
i soldi di cui avevano bisogno per sopravvivere, mentre al pubblico si è data
in cambio la tranquillità della fine della contestazione e della pacifica
accettazione delle direttive impartite.
È forse esagerato parlare di denari, siano essi
trenta o siano essi miliardi di lire; certo è che questa assenza nei luoghi
della programmazione e decisione sull'intervento sociale desta preoccupazione,
anche se a bilanciare in parte l'impressione negativa sta la presenza del 60%
dei servizi in attività di sensibilizzazione della società civile verso i
problemi per i quali i servizi stessi sono attivati. La dimissione di
responsabilità non sarebbe quindi totale; essa riguarderebbe la sfera politica,
mentre nella sfera civile si manterrebbe una significativa presenza.
È comunque necessario un esame di coscienza, o una
verifica, per dirla in termini più professionali, per appurare se i servizi
socio-assistenziali collegati con la Chiesa sono concretamente in grado di
mantenere la loro libertà ed autonomia, naturalmente nel rispetto delle leggi
e delle regole fissate dall'autorità pubblica. Libertà ed autonomia che devono
naturalmente essere usate per servire anzitutto i poveri e gli emarginati, per
operare sempre con il massimo rispetto della dignità della persona, per
affiancare all'assistenza l'opera di prevenzione, per agire sempre in sintonia
con la famiglia e la comunità circostante.
Personale
Dopo queste considerazioni di carattere generale,
vediamo ora di addentrarci nella grande massa di informazioni raccolta
attraverso l'indagine. E cominciamo con il personale che opera nei servizi.
Comprendendo sia chi opera a tempo pieno che a tempo
parziale, si può stimare che siano impiegate 76.000 persone. Da questa stima
sono esclusi i volontari che a vario titolo collaborano con il personale
retribuito. La presenza dei volontari è molto varia ed è impossibile compendiarla
in una sintesi, anche perché non avrebbe senso sommare una persona che offre
tutta o gran parte della sua giornata ad un'altra che presta servizio saltuariamente
per un paio d'ore. Si può comunque mettere in evidenza che i volontari sono
utilizzati dal 57% dei servizi (la stessa cosa, volendo invece essere critici,
può essere espressa dicendo che i1 43% dei servizi non utilizza volontari).
Il personale è composto per quasi due terzi da donne,
confermando la ben nota «femminilizzazione» dell'assistenza. Il personale
religioso rappresenta circa un quarta del totale, mentre quello laico supera di
poco la metà. Com'è facile vedere, facendo una semplice addizione, questo è un
dato incompleto, dovuto alla presenza di molte non risposte nei questionari. Si
possono comunque aggiungere altre informazioni sulla diversa presenza dei due
gruppi: il personale religioso è particolarmente presente nelle Isole, nei
servizi di medie e grandi dimensioni, nelle IPAB, nelle Fondazioni e ovviamente
nei servizi retti da religiose/religiosi. II personale laico prevale invece al
Nord e nei servizi organizzati in cooperative:
Riguardo
alla situazione del personale si possano fare alcune osservazioni
problematiche:
1. la qualificazione professionale risulta piuttosto
limitata e, mentre la metà circa dei servizi ha dichiarato di realizzare
iniziative di formazione e/o aggiornamento del loro personale stabile, coloro
che svolgono tale attività in maniera non occasionale si riducono ad un quarto;
2. la seconda osservazione riguarda l'avvicendamento
del personale. Sappiamo che questo è un fenomeno comune ai servizi sociali:
anche nel nostro caso esso è presente, e in dimensioni non trascurabili: con
varia intensità riguarda la metà dei servizi; in maniera consistente un terzo
dei servizi. Si mescolano qui problemi molto diversi: il pensionamento di
persone che raggiungono l'età prevista e l'abbandono di altre che cercano
genericamente un lavoro migliore o che decidano di smettere un lavoro che non
vogliono più fare. Ci sono quindi i problemi dell'invecchiamento delle
religiose, accanto a quelli degli operatori che vengono «bruciati» dal loro
lavoro.
3. Altro problema riguarda il contratto di assunzione
e il regolamento di lavoro. Sul primo c'è una zona d'ombra di mancate risposte
da parte del 39% dei servizi e non si può dire se questo significhi che un
contratto di lavoro manca o che per negligenza si è omessa la risposta nel questionario.
Il regolamento del personale dipendente sembra poi esistere solo nel 37% dei
servizi (anche qui c'è un terzo di mancate risposte) e questa carenza può
essere occasione di problemi interni ai servizi che una saggia e corretta amministrazione
dovrebbe evitare.
4.
Considerazioni, a sé, e ben più ampie di quelle ora possibili, domanderebbero
la presenza -- e l'assenza - del personale volontario. Fra colora che non
utilizzano volontari nella propria attività spiccano due interessanti
giustificazioni: a) il tipo di servizio non lo richiede; b) non esiste il
volontariato in zona. La prima affermazione denota l'arretratezza dei servizi
che non hanno ancora colto la molteplicità di utili funzioni che il
volontariato può svolgere; la seconda denota invece l'arretratezza di comunità
locali che ancora non sono riuscite a far emergere dal loro interno questa
nuova forza vitale. Per gli uni e per le altre c'è ora motivo di riflessione.
Altro problema che richiede un'attenta riflessione è
quello della professionalità dei volontari e della loro formazione. Non perché
è gratuito un servizio può essere erogato meno che bene, anche se è possibile
che in alcuni casi i volontari vengano utilizzati in attività a bassa professionalità.
Un ultimo avvertimento bisogna poi aggiungere:
vegliare bene che il volontariato non mascheri mai forme di lavoro precario,
nero o mal pagato. Sarebbe una testimonianza negativa che la Chiesa deve
assolutamente evitare.
Per concludere su quest'argomento vorrei segnalare
anche alcuni elementi positivi, che molto pacatamente Mons. Nervo, nelle sue
«considerazioni pastorali» chiama «gemme nuove da coltivare con cura»: essi
sono la ancor ridotta ma crescente presenza di obiettori di coscienza, di
famiglie collegate coi servizi, di giovani ragazze che prestano un anno di
volontariato sociale. Sono elementi nuovi capaci di vivificare i servizi e
migliorarne la qualità.
Gestione dei servizi
Dai
problemi del personale passiamo ora a quelli della gestione dei servizi.
Bisogna anzitutto notare in un buon numero di
servizi, soprattutto quelli di dimensioni maggiori, fa presenza di una
struttura amministrativa, di un nucleo decisionale e dì articolazioni operative
ben caratterizzate nei ruoli e fra loro collegate. A questi aspetti decisamente
positivi, si affiancano altri più problematici, come, ad esempio, una certa
spaccatura fra le strutture prettamente gestionali ed amministrative, in cui
prevale la presenza dei laici, e le strutture di direzione operative in cui
prevale il personale religioso, spesso dotato di poteri discrezionali molto
ampi nell'elaborare le linee concrete dell'azione sul campo. Il 60% dei ruoli
direttivi è infatti attribuita a personale religioso. È difficile dire se anche
in questo caso si possa richiamare la riflessione altre volte fatta sulla
distinzione dei ruoli fra laici e religiosi; né si possano sottovalutare le
ragioni di una Congregazione religiosa che, istituito un servizio, forse anche
molto tempo addietro, ne vuole mantenere il controllo operativo; né ancora si
può negare in linea di principio il diritto di una religiosa o un religioso di
assumere un ruolo direttivo se ne ha le capacità professionali (come del
resto di norma avviene). E tuttavia probabile che la prevalenza di personale
religioso nei ruoli direttivi sia legata alla maggiore fiducia che queste
persone ispirano sia agli amministratori dei servizi che alle autorità
ecclesiali: se così fosse è da augurarsi che i laici si assumano responsabilità
direttive più diffuse.
Un altro importante aspetto della gestione è quello
economico-finanziario. Su questo argomento molti servizi si sono dimostrati
avari di informazioni dimostrando così di non aver capito gli scapi di questa
indagine, che è stata fatta per i servizi e non contro i servizi. La
riflessione comune, lo scambio delle esperienze e l'aiuto reciproco possono
infatti essere di grande aiuto sia per chi ha da poco iniziato la propria
attività, sia per chi si trova ad affrontare difficoltà nuove prodotte da
imprevisti mutamenti della situazione operativa.
Fonti di finanziamento
Le fonti di finanziamento dei servizi sono di tre
tipi: rette pagate dai privati, rette pagate da enti pubblici, elargizioni da
privati.
Su 100 servizi che dichiarano di percepire rette, 47
segnalano che esse sono pagate del tutto o in parte dagli utenti o dalle loro
famiglie; 56 servizi su 100 dichiarano invece la presenza, totale o parziale,
di rette pagate da enti pubblici.
Di norma i servizi si sostengono grazie alla
contemporanea presenza dei diversi tipi di entrata.
La presenza consistente di rette pagate dal privati
non è di per sé un fatto negativo, nel senso che è giusto che l'utente che lo
può fare contribuisca alle spese del servizio che utilizza. La domanda che a
questo riguardo ci si può invece porre riguarda piuttosto la natura di quei
servizi che si sostengono prevalentemente con le rette dei privati (si tratta
di un quinto dei servizi): sono questi ancora servizi socio-assistenziali rivolti
prioritariamente verso le categorie più povere ed emarginate o sono piuttosto
servizi erogati secondo una logica di mercato, che offrono prestazioni in
cambio d'i denaro. Se le prestazioni sono di una buona qualità e il
corrispettivo richiesto non è esagerato, non c'è niente da condannare in
termini generali. Ci si potrebbe tuttavia chiedere se è a questo genere di
attività che i servizi collegati con la Chiesa si debbono dedicare. Non è una
domanda retorica, né semplice, perché vi possono essere situazioni che sembrano
consigliare una presenza anche in questo campo. Non credo, tuttavia, che
soluzioni di questo tipo possano essere accettate al di là di semplici
eccezioni, soprattutto quando, sono concretamente disponibili alternative
diverse e per erogare questo genere di servizi se ne trascurano altri che
avrebbero come destinatari persone che si trovano in stato di grave bisogno e
sono prive delle risorse per farvi fronte.
Le elargizioni private, la beneficenza di un tempo,
è presente in misura modesta nel 46% dei servizi, mentre diventa la fonte
principale di sostentamento per il 5% dei servizi. Questa presenza è
certamente qualcosa da valutare positivamente perché indica una partecipazione
della comunità in generale alla vita dei servizi; molto educativo ed efficace
sarebbe un coinvolgimento delle specifiche comunità locali nelle quali i servizi
vivono ed operano.
Questa partecipazione alla carità della Chiesa va
certamente sostenuta ed arricchita da ogni possibile effetto educativo, come
segno tangibile dell'amore cristiano.
Rapporti dei servizi con la Chiesa
I rapporti fra i servizi e le varie espressioni della
Chiesa locale, vanno naturalmente al di là di questa partecipazione economica.
La forma di questi rapporti non è tuttavia del tutto positiva e coerente.
Un piano pastorale diocesano esiste nel 70% dei casi,
ma in esso i problemi della carità e dell’assistenza sono presenti «molto» nel
36% dei casi e abbastanza in altro 48%. I servizi sono presenti nei consigli
pastorali diocesani solo nel 18% dei casi; sono rappresentati nelle Caritas
diocesane per il 24%, mentre collaborano alla realizzazione di iniziative
caritative per il 46% e operano in maniera coordinata nel 27% dei casi.
Più stretto è il legame con la parrocchia in genere,
mentre meno forti sono i legami con le Caritas parrocchiali la cui esistenza è
riconosciuta nel 42% dei casi.
Poco più di un quinto dei servizi informa sistematicamente
il Vescovo della propria attività; da parte sua il Vescovo (direttamente o
attraverso organismi diocesani) esercita un'azione sistematica di controllo
solo nell'8% dei casi, mentre si interessa (genericamente) delle attività del
servizio nel 55% e aiuta le iniziative dei servizi in un altro 23%.
Da questo quadro emerge la necessità di approfondire
la funzione che la Chiesa locale affida alla Caritas diocesana che dovrebbe dar
vita ad una consulta per le opere caritative e assistenziali, promuovendo il
coordinamento fra le varie iniziative e curando anche la formazione degli
operatori sia professionali che volontari.
C'è poi un altro problema che deriva dalla troppo
diversa intensità di rapporti tra servizi e Chiesa locale. La Chiesa infatti ha anche il dovere, e quindi il diritto, di
vigilare perché le opere che sono fatte nel suo nome siano veramente esemplari
e perché non siano, come talvolta accade, segni di testimonianza negativa. Il
dovere di vigilare è un dovere grave e greve e chi è tenuto a questa
responsabilità non deve in alcun modo sottrarvisi.
D'altro lato sono ì servizi che talvolta devono
maggiormente aprirsi alla comunità di cui dovrebbero essere l'espressione e
abbandonare talune forme di isolazionismo ed autarchia che sembra si passano
rilevare da alcuni questionari. La Chiesa, in qualsiasi sua manifestazione,
non può che essere sempre comunità.
Rapporti dei servizi con la società civile
Per quanto riguarda invece i rapporti con la società
civile ho già presentato alcune informazioni poco fa. Vorrei ora aggiungere
qualcosa sulle differenziazioni regionali.
Le regioni settentrionali appaiono senz'altro essere
le più vitali (si ricordi che al Nord sta il 56% dei servizi), ed anche le più
innovative: lì infatti troviamo la maggior parte dei servizi rivolti a quelli
che nel rapporto vengono malauguratamente chiamati «nuovi poveri» e che in
realtà si chiamano tossicodipendenti, stranieri, nomadi, detenuti ed ex
detenuti.
Al Nord troviamo la maggior presenza di cooperative,
e la maggiore frequenza di laici negli organi amministrativi dei servizi. Anche
il volontariato è più sviluppato nelle regioni settentrionali, così come più
frequenti le entrate originate da erogazioni di beneficenza e carità dei
privati.
Le regioni centrali assumono, per i vari settori
dell'indagine, comportamenti per lo più vicini ai valori medi, mentre è nel
Mezzogiorno e nelle Isole che emergono alcune caratteristiche non sempre
positive. Più diffusa sembra essere la cultura tradizionale dell'assistenza,
maggiore che altrove l'assistenza ai minori, molto diffusa la presenza di
fondazioni (e meno quella delle associazioni). Buono è invece il rapporto con
le realtà locali, sia pubbliche che ecclesiali.
Questo ritardo delle regioni meridionali non è certa
indipendente dalle difficoltà generali di questa parte d'Italia: resta comunque
vero, come già detto, che i servizi socio-assistenziali della Chiesa devono
tutti, anche quelli di altre regioni, impegnarsi concretamente perché là dove
c'è maggior bisogno la Chiesa sia maggiormente presente.
Aree dei servizi
All'inizio di questa relazione ho ricordato le nuove
grandi aree di servizi nelle quali si articola la presenza dei diversi enti
socio-assistenziali collegati con la Chiesa. All'esame dettagliato area per
area è dedicato il secondo volume del rapporto di ricerca che ben,
difficilmente è sintetizzabile in pochi minuti. Cercherò, tuttavia, di
presentare alcune informazioni sintetiche, facendo ricorso ai dati raccolti
attraverso gli specifici questionari brevi che sono stati raccolti.
Non bisogna dimenticare che non tutti i servizi hanno
fornito informazioni relative a tutte le unità operative che ad essi fanno
capo e che, pertanto, i valori assoluti sono modicamente sottostimati
rispetto alla realtà, mentre le percentuali interne possono essere accolte come
valutazioni di buona approssimazione.
Minori e giovani a rischio
I
servizi destinati ai minori e giovani a rischio sono così distribuiti:
Istituti educativo-assistenziali 35%
Semiconvitti 22%
Comunità-alloggio 8%
Centri accoglienza 7%
Case-famiglia 7%
Centri di ascolto 4%
Centri pronto intervento 4%
Strutture produttive 4%
Aiuti domiciliari 2%
Altro 8%
È evidente che si tratta di quantità difficilmente
sommabili, poiché il «peso» di un istituto tradizionale non è paragonabile a
quello di un punto d'ascolto.
Gli istituti censiti ospitano 73.000 minori, di cui
42.000 interni, 21.000 semiconvittori e 10.500 esterni. Per la maggioranza si
tratta di ragazze. Le case-famiglia e comunità assistenziali ospitano 6.300
persone, delle quali la metà hanno più di 18 anni.
Circa 15.000 dei minori in istituto hanno meno di 6
anni. Un terzo dei minori risulta ricoverato in istituti a causa delle cattive
condizioni della propria famiglia.
Pochi dati che dicono molto.
È vero che a dieci anni di distanza dalla precedente
indagine possiamo rilevare con sollievo la presenza di altre forme di
intervento alternative all'istituto, ma è pur sempre vero che il numero di
minori in istituto è ancora enormemente elevato. E, prima ancora di qualsiasi
valutazione sulla funzionalità di queste istituzioni, vorrei riprendere
un'altra frase, non poetica questa volta, ma lapidaria, ancora dal testo di Mons.
Nervo: «È chiaro che Dio per il bambino ha creato la famiglia, non
l'istituto!».
Occorre, perciò riflettere sul perché esista tuttora
una domanda sociale così ampia di ricovero di minori in istituto, che tende
per di più ad allargarsi. E particolarmente dovrebbero riflettere coloro che
non avvertono la necessità di affiancare alla loro opera di assistenza anche
una vigorosa azione di prevenzione. È pur vero che la tradizione assistenziale
sembra affidare questi due compiti a ruoli diversi; ma è anche vero che
talvolta bisogna avere il coraggio e la forza di rompere con la tradizione ed
impegnarsi in uno sforzo innovativo.
Non sono le suore e i religiosi che ora si vogliono
mettere sotto accusa, anzi a loro va il plauso per l'accoglienza che offrono a
questi bambini e ragazzi. Ma la comunità cristiana nel suo insieme, operatori
qui compresi, deve assumersi la responsabilità di modificare le politiche
sociali pubbliche, orientare le coscienze e sviluppare nuove solidarietà,
incentivare le forme di affido, stimolare il volontariato, creare nuove
strutture alternative.
Handicappati e malati mentali
I servizi per handicappati e malati mentali sono
pesantemente concentrati al Nord: 61%, mentre nel Mezzogiorno se ne trova
appena il 20% scarso.
Rispetto all'indagine del 1977 si è avuto un grande
sviluppo in questo settore: il 43% dei servizi è nato nei dieci anni
successivi, grazie soprattutto allo sviluppo di centri di accoglienza diurni e
notturni e di comunità residenziali.
Accanto a 154 istituti residenziali, esistono infatti
125 centri di accoglienza diurna e notturna e 119 comunità residenziali.
L'assistenza a questo gruppo di persone si esplica
poi in molte altre forme:: centri di ascolto e orientamento, centri di prima
accoglienza, di pronto intervento, strutture produttive, cooperative di vario
genere, strutture formative, culturali e di tempo libero, servizi
ambulatoriali e di assistenza domiciliare.
Le persane variamente assistite raggiungono le 50.000
unità, 40% circa come interni, 10% come seminterni. Fra le motivazioni che
spingono al ricovero primeggiano le difficoltà di vario tipo delle famiglie. E
questa annotazione suggerisce di ricordare come tanto spesso è proprio la famiglia
che ha bisogno di essere aiutata nel suo compito talora gravosissimo (analogo
discorso vale per l'assistenza agli anziani, specialmente quelli non
autosufficienti).
Una normale famiglia d'oggi è normalmente incapace di
affrontare i problemi che un handicappato, un malato cronico, un non
autosufficiente pone. Il carico dell'assistenza finisce in genere per gravare
sulle spalle (e sulla psiche) della donna di casa (e anche questa è
un'ingiustizia), che molto difficilmente, anche con tutta la buona volontà,
riesce a tirare avanti a lungo.
Questo settore di attività, che pur si è dimostrato
molta vitale e innovativo, ha quindi bisogno di essere ulteriormente
potenziato con specifico riferimento all'assistenza globale alla famiglia con
handicappati.
Cito, solo per richiamarli all'attenzione, gli altri
due problemi dell'integrazione scolastica e dell'inserimento lavorativo.
Persone tossicodipendenti, etiliste, malate di Aids
A fronte di 527 schede attese per questo settore, ne
sono pervenute 313, fortemente concentrate nelle regioni settentrionali (67%).
La sola Lombardia accoglie il 21% di tutti i servizi. Spesso si tratta di
servizi polivalenti; quelli con un orientamento specifico sono 143 e di questi
119 si occupano di tossicodipendenti, 11 di alcoolisti, 13 di malati di Aids.
Anche in questo caso sono presenti diverse forme di
attività: centri di ascolto, di prima accoglienza, di pronto intervento,
strutture produttive, cooperative, strutture formative e culturali, oltre a
comunità residenziali (193) e centri o comunità diurni (64).
Gli assistiti da questi servizi sono caratterizzati
da una fortissima prevalenza. di maschi (3,6 maschi su 4 assistiti) e da un'età
compresa prevalentemente fra i 19 e i 35 anni (con l'eccezione degli etilisti
che per oltre il 50% hanno un'età superiore ai 35 anni).
Questi servizi, inoltre, hanno un bacino d'utenza
che per circa il 60% dei casi va oltre i confini della USL nella quale sono
inseriti, arrivando ad oltrepassare spesso anche i confini regionali (più o
meno 17%).
Complessivamente questi nuovi servizi raccolgono un giudizio
positivo, anche se si possono rilevare alcuni problemi: la pessima distribuzione
territoriale, la necessità di un impegno maggiore nell'opera di prevenzione,
soprattutto attraverso forme di aggregazione di giovani, la formazione del
personale volontario, la cui presenza è preponderante fra gli operatori (più o
meno 60%).
Da notare positivamente, infine, lo sforzo generalmente
fatto per ottenere il reinserimento sociale degli assistiti che viene segnalato
in oltre i 2/3 dei casi.
Detenuti ed ex detenuti
La prima osservazione da fare relativamente a questi
servizi è che essi sono pochi. Come a dire che i problemi dei detenuti e di
coloro che lasciano il carcere, pur essendo spesso assai gravi, non attirano
l'attenzione della comunità cristiana. Sembra, inoltre, che non sempre questi
servizi, quando esistono, privilegino i più emarginati e deboli, come gli
immigrati e i tossicodipendenti. Globalmente poi si potrebbe dire che prevale
in questo settore la delega ai cappellani (benemeriti per la loro opera) e alle
associazioni di volontariato, alcune delle quali operano ormai da molto tempo.
Questi servizi sono impegnati, oltre che nelle visite
in carcere, anche all'approntamento di centri di ascolto e orientamento, di
prima accoglienza, in iniziative formative, culturali e ricreative;
organizzano, inoltre, cooperative di produzione e consumo, oltre a comunità
residenziali anche per chi è sottoposto agli arresti domiciliari.
I numeri, per quanto di fonte eterogenea in relazione
alle diverse attività, ci dicono che gli ex detenuti rappresentano un terzo
degli utenti complessivi e che le persone al di sotto dei 35 anni sono
prevalenti rispetto ai più anziani.
Le attività svolte da questi servizi sociali sono le
più varie e vanno dal sostegno morale e psicologico, ai rapporti con le
famiglie (compresi i tentativi di ricomposizione), alla ricerca di opportunità
di lavoro.
Ma su un aspetto si vorrebbe ora attirare l'attenzione,
e cioè sull'assistenza e l'aiuto ai detenuti con le caratteristiche prescritte
ad usufruire dei benefici della legge Gozzini.
L'opinione pubblica è stata ingannata da irresponsabili
campagne giornalistiche che finiscono per screditare questo importante
strumento di reinserimento sociale dei detenuti. La comunità cristiana potrebbe
rendersi disponibile all'accoglienza di queste persone, offrendo ospitalità ed
occasioni di lavoro a coloro che sono intenzionati a riprendere la normale vita
sociale, dando così concretezza all'antica opera di misericordia verso i
carcerati.
Stranieri e persone senza fissa dimora
Sono qui riunite due categorie di persone in realtà
molto diverse fra loro. Negli anni '80 è esploso il fenomeno delle immigrazioni
di persone extracomunitarie, spesso abbandonate a se stesse, senza un lavoro
regolare e stabile. Le persone senza fissa dimora hanno invece sempre
simboleggiato il povero tradizionale, anche se la realtà di questi anni più
recenti si è profondamente modificata.
Gli stranieri che hanno usufruito di una qualche
forma di assistenza da parte dei soli 260 servizi rilevati, sono stati nel 1987
quasi 80.000, con una grande preponderanza di maschi di età compresa fra i 19
ed i 45 anni. Un quarto di questi era classificato come «clandestino».
Fra le oltre 95.000 persone senza fissa dimora assistite,
spicca per gravità un 20% di persone che hanno fino a 35 anni (ecco 1a novità),
cui segue, per importanza cruciale, un altro 34% di persone fra i 36 e i 45
anni.
I servizi per «senza fissa dimora» sono situati
prevalentemente al Nord e al Centro, ma accolgono abbondantemente anche
persone del Mezzogiorno: è un altro indice dello sradicamento possibile per
chi si trova straniero nella propria patria.
In genere,questi servizi sano di piccola dimensione,
solo pochi (10%) usufruiscono di convenzioni e contributi pubblici; utilizzano
prevalentemente volontari.
Caratteristiche queste positive, che mostrano come
questi servizi siano spesso una corretta manifestazione dell'impegno della
comunità cristiana verso gli ultimi. Un avvertimento, tuttavia, può essere
utile: vigilare, cioè che con questo operare non si faccia supplenza rispetto
ad una mancanza delle istituzioni pubbliche che, per di più, a causa della
presenza di questi servizi, possono sentirsi giustificate nei loro non fare il
proprio dovere.
Famiglie a rischio e madri
nubili
Sui servizi che operano in questo settore l'indagine
ha fornito questi dati: 234 centri di ascolto e di orientamento, 307 centri di
prima accoglienza; 272 iniziative di assistenza domiciliare; 107 comunità
residenziali per ragazze madri. Le persone variamente assistite sono state
42.000. Questo è ciò che emerge dalle risposte ai questionari: la realtà è più
ricca ancora.
È questo un ambito di attività relativamente recente
e in sviluppo, sostenuto prevalentemente direttamente dai contributi delle
comunità cristiane e che comporta l'utilizzazione di personale retribuito in
percentuali poco più che simboliche (4/5%). Si tratta, quindi, di un servizio
«povero», che, non disponendo di molte risorse materiali, deve limitarsi ad
intervenire prevalentemente nella fase iniziale del bisogno, attraverso
attività di prima accoglienza, orientamento, di assistenza domiciliare. Questa
difficoltà va segnalata perché sembra si possa dire che il servizio non sempre
riesce a dare una risposta efficace e definitiva, soprattutto nel casa delle
ragazze madri che necessitano spesso di un'assistenza prolungata e complessa,
che deve includere la possibilità di alloggio, di lavoro e di sostegno
psicologico e materiale.
Una maggiore collaborazione delle famiglie, delle
comunità parrocchiali e delle associazioni di volontariato potrebbe essere di
grande aiuto, anche per stimolare ulteriormente l'impegno degli stessi
assistiti a risolvere i propri problemi.
Persone anziane
Gli anziani rappresentano certamente una categoria
di persone potenzialmente deboli e bisognose di varie forme di assistenza. Il
loro numero è in continuo aumento ed è ben noto che per molti il prolungamento
della vita rischia di essere un aumento della sofferenza. È quindi ovvio che i
servizi rivolti verso le persone anziane occupino un pasta importante fra
quelli collegati con la Chiesa.
Le unità operative rilevate dall'indagine sono 1.623
(circa un centinaio in meno di quelle dichiarate). Un quinto di queste unità
sono sorte negli ultimi dieci anni. Il 43% è concentrato nelle tre regioni
settentrionali, Piemonte, Lombardia, Veneto. Poco più di un quinto si trovano
nel Mezzogiorno. Le disparità territoriali sono quindi talmente forti da
rendere superfluo qualsiasi commento.
Gli istituti e le comunità residenziali assieme
ammontano a 1.128 unità, ma sono affiancati da 203 servizi di assistenza
domiciliare e da 221 centri di ascolto, prima accoglienza, pronto intervento e
centri-comunità diurni e notturni. Vi sono poi varie strutture produttive,
formative, culturali e ricreative.
L'attenzione viene certamente attratta dagli istituti
e dalle comunità residenziali. È consolante notare che le strutture di
dimensioni ridotte sono in aumento, anche se parallelamente preoccupa la permanenza
di 128 residenze con oltre 100 posti letto. È già stato detto molte volte, ma
gioverà ripeterlo ancora, che il grande istituto, per quanto ben condotto sia,
è di per sé inadatto a ricreare quel clima familiare di cui la persona anziana
ha anzitutto bisogno. Sono a tutti noti i problemi anche economici, oltre che
di spazi e di personale, che le piccole strutture comportano, ma è veramente
difficile da accettare che queste difficoltà debbano anzitutto pesare sulle
già fragili spalle degli anziani.
Dopo quello della dimensione degli istituti, viene il
problema dell'autosufficienza degli ospiti. È compito della Chiesa educare
anzitutto le famiglie a mantenere presso di sé le persone anziane, sia pure
nel limite del possibile. Questo, comunque, non significa ignorare che la
famiglia così com'è oggi, con pochi figli, pochi sposi, con molte esigenze, è
meno preparata che nel passato a svolgere questo compito. Essa va quindi non
solo orientata, ma anche aiutata in questo suo dovere, sviluppando i servizi
territoriali e stimolando l'aiuto volontario.
Preziosa, a questo riguardo, potrebbe essere l'opera
di mutuo aiuto che gli anziani potrebbero prestarsi vicendevolmente e in ordine
alla quale la comunità cristiana potrebbe dare un prezioso contributo; è una
semplice forma di intervento ancora poco praticata che può dare risultati doppiamente
utili: per chi dà e per chi riceve l'aiuto.
[Io conosco una signora di 85 anni che è tutto il
giorno indaffarata perché deve andare a fare la spesa, o a far compagnia, o
aiutare a far pulizia, per altre «vecchiette», come dice lei..., e così resta
attiva].
L'aiuto reciproco, del volontariato, della comunità
cristiana, non deve tuttavia far accettare l'assenza o l'inefficienza dei
servizi pubblici. Anche in questo caso la presenza generosa non sarà completa
senza un'azione che possiamo chiamare politica affinché chi ha pubbliche
responsabilità sia richiamato al proprio dovere.
Una buona rete di servizi territoriali e di sostegno
alla famiglia potrà ridurre la presenza di persone autosufficienti tra i
ricoverati. Attualmente l'80% degli istituti accolgono ancora persone
autosufficienti: una drastica riduzione di questa cifra è un obiettivo
prioritario che, primi fra tutti, devono porsi i gestori delle strutture residenziali,
rompendo talvolta il proprio isolamento ed accettando una responsabilità forse
prima non considerata.
Un'altra serie di problemi attiene alla finalità
della vita entro le strutture residenziali. Già la loro collocazione nello
spazio urbano è importante, perché permette (o ostacola) di mantenere un
insieme dì vitali rapporti con l'esterno della residenza. .
Come possano assolvere questo dovere almeno quelle
450 residenze che si trovano in periferia o lontane dai centri abitati, non si
può proprio immaginare.
Ma anche la preparazione dei personale è essenziale
a questo riguardo. Non serve solo personale di custodia, ma anche operatori
impegnati a mantenere attivo e vitale l'anziano, stimolandolo continuamente a
sfruttare le proprie risorse, senza cedere al letale abbattimento della
rinuncia a vivere. E in questa opera il contributo del volontariato può essere
prezioso, a patto però che non si carichi su di lui una responsabilità che è
anzitutto dell'istituzione e dei suoi operatori.
Nomadi
L'indagine ha censito 45 esperienze di servizio; in
genere di piccole dimensioni, rivolte verso nomadi. Sono questi una
popolazione che arriva probabilmente alle 90.000 unità, poco conosciuta, e
forse anche poco amata, ma che è portatrice di una serie di difficoltà.
I servizi censiti sono per altre la metà sorti negli
ultimi dieci anni: segno, questo, che l'attenzione della comunità cristiana,
ancorché insufficiente, è comunque crescente. Le persone dedite a questi
servizi sono circa 400, di cui sono 25 retribuite; 118 prestano la loro opera a
titolo gratuito a tempo pieno, 260 a tempo parziale. Oltre la metà dei servizi
opera al Nord. Complessivamente le persone variamente seguite sono 5.660.
In questo particolare settore sociale i problemi che
si pongono con maggiore evidenza e gravità sono quello della scolarità dei
ragazzi, quello del lavoro per gli adulti, quello dell'assistenza sanitaria.
Sopra tutti questi sta, tuttavia, il problema dell'accettazione del nomadismo
e di stili di vita molto diversi da quello abituale. La Chiesa in questo caso è
chiamata a dare una testimonianza - non facile - di accoglienza di questi
«diversi», contribuendo al mutamento degli atteggiamenti di ostilità e
fornendo spazi concreti di accoglienza entro le proprie comunità.
Ammalati
I servizi per ammalati censiti dall'indagine sono per
molti aspetti particolari: non si tratta di servizi propriamente sanitari, ma
di servizi per così dire «di frontiera» fra il sanitario, il sociale, lo
psicologico. Sono servizi rivolti alle persone in quanto tali, per aiutarle a
vivere quanto meglio possibile una situazione che è, sì, caratterizzata
pesantemente dalla malattia, ma che non per questo va affrontata solo in
termini sanitari. Sono questi forse i servizi più nuovi ed esemplari, portatori
di una nuova cultura nella quale la persona occupa, nella sua totalità, il
posto centrale.
Quasi la metà di questi servizi (che sono in totale
141), sono sorti negli ultimi dieci anni e per i due terzi si trovano, ancora
una volta, al Nord. Essi riguardano prevalentemente persone in età avanzata e
consistono in assistenza domiciliare e assistenza in ospedale. Delle oltre
38.000 persone assistite, 4.200 sono malati terminali e 29.000 sono malati
cronici.
Nei servizi censiti sono presenti circa 4.500
operatori, due terzi dei quali sono donne. Il personale retribuito non supera
le 850 unità.
In conclusione
L'indagine ha documentato la grande vitalità
dell'impegno socio-assistenziale della Chiesa d'Italia.
Questa relazione, che pur è stata troppo lunga, ha
appena delineato alcune caratteristiche principali e non posso far altro che
invitare tutti a studiare attentamente i due volumi nei quali è contenuto il
rapporto della ricerca.
Prima di terminare, vorrei sottolineare la vastità
del cambiamento che è intervenuto in questi dieci anni che ci separano
dall'indagine precedente: i servizi si sono modificati notevolmente in
rapporto ai mutati e spesso nuovi bisogni, hanno costruito un più positivo e
costruttivo rapporto di collaborazione con gli enti locali, hanno realizzato
un maggiore coinvolgimento della comunità cristiana.
Nella mia lunga e noiosa esposizione ho presentato
più critiche che elogi. Se ricordate, ci siamo già detti «bravi» all'inizio.
Ora dobbiamo solamente cercare di fare meglio. Per questo abbiamo fatto questa
indagine e per questo siamo venuti oggi a Roma.
* * *
... I due amici che, dopo undici anni, si sono
rivisti, due ore fa hanno finito la loro chiacchierata e riprendono ora la
loro strada, salutandosi: «Arrivederci...
e buon lavoro!».
(*) Per gentile concessione della
Caritas italiana, pubblichiamo integralmente la relazione di presentazione della
seconda indagine nazionale sui servizi socio-assistenziali collegati con la
Chiesa presentata dal Prof. G. Sarpellon al convegno tenutosi a Roma dal 7 al
9 novembre 1990. La pubblicazione «Chiesa e emarginazione in Italia - Rapporto
n. 2» è edita dalla Elle Di Ci, Leumann, Torino, 1990.
www.fondazionepromozionesociale.it