Prospettive assistenziali, n. 96, ottobre-dicembre 1991

 

 

PRIMA INTERVENIRE A CASA

 

 

Si è svolto a Milano, nei giorni, 19 e 20 aprile, il convegno nazionale di studio «Prima intervenire a casa - Gli interventi domiciliari di cura e sostegno alle persone malate o in difficoltà come priorità per amministratori operatori e volontari», realizzato dal C.S.P.S.S., Centro studi e programmi sociali e sanitari, nato a Roma per iniziativa della Comunità di Sant'Egidio. Il convegno ha inteso raccogliere l'autorevole voce di personalità espressive di diversi approcci e orientamenti culturali intorno al tema degli interventi domi­ciliari a favore di soggetti malati o in difficoltà. Anziani non autosufficienti, malati psichici, han­dicappati, tossicodipendenti, minori, malati di AIDS o oncologici possono trarre beneficio dalla priorità degli interventi domiciliari.

È quindi un tema nodale nel dibattito che investe l'organizzazione dei servizi socio-assistenziali e sanitari, nella ricerca di soluzioni opportune, adeguate ai bisogni, non istituzionalizzanti, pienamente rispettose dei diritti dei cittadini.

Insieme al C.S.P.S.S., il Mo.Vi., la rivista «Prospettive assistenziali», la Fondazione Zancan, la Caritas italiana, il Centro nazionale del volontariato di Lucca, il Coordinamento genitori demo­cratici e l'ISTISS, hanno, quindi, promosso que­sto ampio confronto, articolato in quattro mo­menti caratterizzanti le diverse problematiche relative agli interventi a domicilio: «Perché pri­ma intervenire a casa», «Persone in difficoltà e risorse possibili», «Salute ed autonomia», «Per una migliore qualità della vita».

 

La casa: premessa e necessità

Aprendo i lavori il cardinale Carlo Maria Mar­tini, Arcivescovo di Milano, ha sottolineato con forza come «la vita della persona umana si di­spieghi ordinariamente attorno al centro fisico e simbolico rappresentato dalla casa. Ciascuno ha in qualche modo la "sua casa" - ha detto il cardinale - fosse pure il casolare, l'apparta­mento, il convento, il rifugio notturno dei senza fissa dimora... Ciascuno ha o cerca un luogo a cui fare riferimento. Vi torna, o aspira a tornarvi, perché la casa esprime in un modo o nell'altro la vita della persona. È per ciascuno di noi una necessità e una protezione». Occorre, quindi, ha aggiunto il cardinale, che il restare a casa propria divenga l'obiettivo prioritario di ogni in­tervento: «per realizzarlo in concreto è necessa­rio innanzitutto che le case ci siano, che siano accessibili nel prezzo, che siano anche senza barriere architettoniche: bisogna costruire le ca­se per gli uomini, per tutti gli uomini e non solo per i sani». Il sopraggiungere della malattia, fa perdita, in qualche caso, della autosufficienza, non sono, secondo Martini, motivazioni sufficien­ti a giustificare l'abbandono della propria casa. «La casa - ha affermato il Cardinale - va garan­tita soprattutto quando le persone sono malate o in difficoltà. Quando una persona si ammala, vi­ve questo stesso attaccamento alla casa: certa­mente incombono su di essa tante esigenze, la prevenzione, la diagnosi, la terapia diventano un obbligo. Ma chi è malato sente sempre anche il bisogno e - se è fuori - la nostalgia della casa. Quando una persona è malata, non ha bisogno sola delle medicine, dell'ospedale e delle cure che vi possono essere praticate, ma di essere cu­rata, accompagnata, sostenuta» ed è proprio la sua casa il luogo dove tutto questo pub avvenire con i migliori risultati.

 

Il rispetto della volontà personale non diminuisce davanti al malato

Restare a casa propria, dunque, è la condizio­ne più auspicabile, anche e soprattutto nel so­pravvenire della malattia; non poterlo fare, con­tro la propria volontà, per l'assenza di aiuti ne­cessari, diventa, spesso, una violazione pale" del diritto di ogni uomo a scegliere la propria condizione di vita.

È quanto emerso dall'intervento di Mons. At­tilio Nicora, Presidente della Caritas italiana. «Chi si ammala - ha affermato Nicora - smette di essere un cittadino come gli altri. Nella misu­ra in cui mutano l'età o le condizioni di vita, i di­ritti riconosciuti come inalienabili sembrano non essere più tali, e proprio mentre si è più deboli si è di fatta meno tutelati».

È il caso, ha proseguito il Presidente della Ca­ritas italiana, del rispetto della volontà individua­le. «Sembra un dato acquisito, un diritto di tutti, eppure viene meno nella prassi proprio là dove dovrebbe essere più cautelato. Chi è malato o anziano, finisce col perdere la libertà di poter decidere con chi vivere e dove vivere, di sceglie­re dove e come essere curato». Si è costretti a lasciare casa propria e «con lo sradicamento dal proprio ambiente si attua un vero e proprio esau­toramento della capacità di volere e di decidere, di gestire i propri beni e la propria vita, di avere delle opinioni. Si viene diminuiti delle proprie capacità umane e si diviene prigionieri della vo­lontà altrui».

 

La gioia non è sempre giovane e il dolore non è sempre vecchio

Sugli aspetti etici che determinano la priorità degli interventi domiciliari è intervenuto anche Giulio Giorello, Ordinario di filosofia della scien­za dell'Università di Milano.

Percorrendo una suggestione tratta dal «sogno scientista» di Paolo Mantegazza, dove è presen­tata la società dell'anno tremila retta sui princi­pi dell'eugenetica, Giorello si è soffermato su di una frase contenuta in quella utopia: «La gioia è sempre giovane, e per contrasto, dunque, il do­lore è sempre vecchio».

«Questa utopia scientifica - ha proseguito Giorello - è più raggelante di qualsiasi disuto­pia inventata da scrittori come Orwell o Huxley: nell'idea di una società perfettamente controllata da apparati statali che hanno una conoscenza scientifica e tecnologica di prim'ordine, l'indi­viduo con tutti i suoi limiti o i suoi pregi spari­sce». Secondo Giorello la società attuale è, in realtà, per più versi simile a quell'utopia. «Un esempio lampante è quello della frammentazione dei tempi e degli spazi che ha reso frenetica ogni attività dell'uomo, con conseguenze psicologiche stressanti... tanto più stressanti perché non esi­ste una sostanza unica sulla quale si inseriscono delle contingenze, ma, come dimostrò Jung, so­no proprio queste contingenze ad essere impor­tanti, a determinare la persona.

«L'individuo è qualche cosa che si stacca dal­la massa indifferenziata per caratteristiche par­ticolari. La "persona" è parte integrante di noi, sono i nostri ruoli... Quindi, se l'individuo o la persona è questo insieme di attribuzioni, di car­te di appartenenza, di contatti, di relazioni che istituisce con il mondo che lo circonda, ci ren­diamo conto che proprio in un momento di seg­mentazione dello spazio-temporale, le persone più deboli sono le meno garantite, quelle che meno possono conservare ciò che le definisce come persone e più spesso diventano oggetti e non più soggetti di azioni intraprese da altri, ma­gari senza nessuna malvagità personale, senza nessuna malizia, semplicemente perché le strut­ture funzionano in un certo modo piuttosto che in un certo altro.

«Se siamo veramente convinti - ha prosegui­to Giorello - del valore della persona o, in ter­mini più laici di ciò che Steward Meel chiamava "la sovranità del consumatore", (io, cioè, sono il giudice delle mie preferenze, io che decido per Il mio bene e non qualcun altro) dobbiamo affer­mare che il diritto alle cure domiciliari, il diritto a rimanere legati a quel contesto che definisce "me" come persona, come individuo non scam­biabile con qualsiasi altro, si rivela davvero cen­trale. In questo senso una qualunque dimensione etica deve incorporare come requisito minimale il diritto alla scelta proprio di ogni individuo».

 

La persona ed i suoi «legami»

Sulla centralità del rispetto della persona si è intrattenuto anche Renzo Canestrari, Ordinario di psicologia dell'Università di Bologna: persona intesa nel senso più largo del termine, come en­tità «che si edifica attraverso il legame». È pro­prio il valore del "legame" ad affermarsi, secon­do Canestrari, come decisivo.

«Sappiamo quanto sia fondamentale il legame per il bambino e dati sperimentali dicono che il bambino che non gode di un solido legame vada incontro a gravi conseguenze sul piano dello svi­luppo psichico e fisico. Se analizziamo gli itine­rari di formazione della persona umana troviamo sempre l'importanza del legame».

Proprio per questo, secondo Canestrari, non è possibile sottovalutare quei momenti in cui il legame viene, anche se solo temporaneamente, reciso. «Il ricovero porta, sempre, con sé una esperienza stressante. Il paziente vive sempre un'esperienza di terrore, anche perché negli ospe­dali non c'è molta attenzione al valore dei lega­mi: la tecnologia esige programmazioni neutrali dal punto di vista affettivo e crea una routine meccanizzata nel medico stesso dell'ospedale.

«Il malato si passivizza. Certo oggi gli ospe­dali sono più aperti rispetto a una volta, anche se alcuni continuano ad ostacolare l'ingresso dei familiari, ma sembra acquisita dai più l'im­portanza dello spazio di socializzazione, in modo che i legami vengano in qualche modo conservati e questa sorta di alimentazione possa sorregge­re il paziente».

«Il curare a casa - ha affermato infine Cane­strari - è effettivamente molto proficuo per la personalità minacciata. Pertanto la fine del ma­lato grave in casa sarebbe la più alta espressio­ne dell'umanizzazione della medicina».

 

Curare a casa: il malato non nasce in corsia

L'intervento del Prof. Elio Guzzanti si è inizial­mente soffermato a tracciare un breve excursus sulla storia dell'assistenza ospedaliera. Guzzanti ha, quindi, affermato che, nonostante gli innega­bili progressi, continua a sussistere negli ospe­dali una difficoltà, anche da parte delle persone più motivate, a rispettare i diritti delle persone, per «la stessa struttura organizzativa che deter­mina e scandisce, secondo ritmi suoi propri, una serie di spazi e tempi della vita quotidiana». Nonostante questo, ha continuato Guzzanti, «è necessario. tare un'attenta riflessione sullo stato attuale delle cose, per non cadere ancora una volta nel manicheismo del "da una parte sta tutto il bene, e dall'altra tutto il male". In effetti que­sto non è mai vero: ospedale e territorio sono due metà complementari di una stessa realtà. Non si può privilegiare, in maniera assoluta, una soluzione rispetto all'altra, se non individuando i bisogni della persona, che possono variare nel tempo». «Certamente - ha proseguito Guzzan­ti - esistono dei concetti generali che devono guidare oggi l'assistenza: la continuità delle cu­re e il continuum dei servizi assistenziali, in una rete di servizi in cui nessuno vale più dell'altro, se non nella misura in cui si adatta alle singole circostanze».

Guzzanti ha offerto, infine, una documentata relazione sulla positività delle cure domiciliari a favore dei malati di AIDS, senza nascondere, tuttavia, i numerosi problemi ancora aperti.

«Tra essi - ha detto - vi è quello del perso­nale che è stato formato con mentalità affatto diversa da quella che sarebbe necessaria negli interventi domiciliari. Le scuole infermieristiche sono legate agli ospedali, i malati per eccellenza sono quelli delle corsie, l'abitudine diffusa è quel­la di ritenere che una persona nasca con il pigia­ma, che sia definita da un numero, problema, pe­raltro, comune anche alla classe medica».

 

Legislazione: dalla figura professionale il bisogno, o dal bisogno la figura professionale?

Lo spazio da percorrere per avvicinare la ne­cessità degli interventi a domicilio alla concreta possibilità della loro attuazione è ancora, quindi, lungo e complesso.

Anche sul piano legislativo. Su questo aspetto si è intrattenuto Paolo Cendon, Ordinario di isti­tuzioni di diritto privato dell'Università di Trieste. «È in qualche misura sorprendente - ha detto Cendon - come si legga spesso sul giornale di istituti lager, con vecchi abbandonati, sporcizia, epidemie, condizioni inimmaginabili; e poi con­temporaneamente, si assista alla presentazione degli anziani come un grande business: cibi per loro, merci di consumo per loro, ginnastica, e l'età che sembra non passare mai: un bombarda­mento di messaggi consumistici che non può non stridere davanti alle altre informazioni ben più drammatiche». Quale atteggiamento, davanti a questo, da parte degli organi costituzionali?

«Per 10 anni dalla loro fondazione - afferma Cendon - le regioni non hanno fatto nulla, poi hanno cominciato a fare molte leggi: una quan­tità sterminata di leggi regionali che toccano un po' tutti i campi della debolezza. Un prodotto legislativo che si presenta straordinariamente e surrealmente contraddittorio rispetto_alla realtà corrente». Perché? «C'è una responsabilità spe­cifica, culturale, ideale della giustizia - afferma Cendon - È la responsabilità di aver sempre pensato il proprio mestiere come un mestiere da fare a tavolino: il giurista è stato spesso arte­fice teorico, sintetizzatore in laboratorio di pro­dotti: libri, leggi, formule, concetti».

È necessaria una diversa concezione del dirit­to soggettivo, che Cendon ha chiamato «il dirit­to al diritto»; il debole, cioè, ha il diritto di ave­re qualcuno che lo aiuti a difendere i propri di­ritti. «L'articolo 32 della Costituzione, il diritto alla salute - ha proseguito - non è il diritto alla ginnastica, ma è ben di più il diritto alla va­lorizzazione massima delle risorse rimaste ad una persona. È il diritto del debole ad essere la­vato, pettinato e pulito, è il diritto che qualcuno gli restituisca il gusto di difendere i propri di­ritti».

Bisogna, per questo, ipotizzare figure nuove, fra esse, secondo Cendon, quella dell'«Ammini­stratore di sostegno». Sarà nominato dal giudice e si potrà trattare di un operatore con una delega particolare. solo per le specifiche funzioni che il soggetto da solo non sa fare, mentre per le altre conserverà l'esercizio dei diritti civili. Un passo avanti, dunque, rispetto alla figura del tutore e del curatore, nel tentativo di «piegare» le man­sioni ai bisogni e non percorrere, come spesso è accaduto, la strada inversa.

 

Valorizzare i servizi che valorizzano il «potere personale»

Sul tema della valorizzazione della rete dei ser­vizi e della solidarietà si è soffermata la relazio­ne di Andrea Bartoli, direttore del CSPSS. Un te­ma nodale «perché - ha detto Bartoli - si ri­tiene che una corretta organizzazione debba op­portunamente sostenere i soggetti deboli nel momento di maggiore difficoltà. Gli studi ameri­cani sull'impotenza, intesa come debolezza, fra­gilità, derivante in parte anche dalla mancanza di aiuto, hanno ben messo in evidenza le correla­zioni esistenti tra livelli di salute ed autonomia e livello di potere personale. Hanno altresì mo­strato come uno degli elementi di maggior gravi­tà sia proprio la condizione di assoluta impoten­za che si accompagna, frequentemente, al decor­so della malattia. L'aiuto, inteso come disponibi­lità di risorse è una componente essenziale di questa dimensione che potremmo definire di po­tere personale».

La valorizzazione di tale aiuto ha ricadute sia sul piano giuridico che su quello della organizza-zione dei servizi: in particolare, per quei che ri­guarda i servizi «l'organizzazione del continuum, ovvero di una adeguata rete di servizi alla per­sona, - ha proseguito Bartoli - lungi dal creare contrapposizioni e conflitti, consente sinergie e positivi interscambi... È giunto il momento di af­fermare la necessità di una articolazione dei ser­vizi che permetta a ciascuna componente di svol­gere il suo ruolo senza eccessive sovrapposizio­ni». Una strada percorribile, secondo Bartoli, nel momento in cui si accettano alcuni principi di base: che non si perseguano strade emarginanti tendenti a creare per categorie spazi «protetti»; che i servizi siano resi tenendo conto delle esi­genze fondamentali della persona; che accettino alcune priorità: prevenire, potenziare, integrare, sostituire; che siano il più possibile scomposti in prestazioni di base, identificabili indipenden­temente dal contesto logistico in cui sono for­nite; che tutti i settori acquisiscano al loro inter­no le valenze sociali necessarie alla esecuzione dei loro mandati istituzionali. «L'affermarsi del paradigma di rete - ha detto Bartoli - non può che essere una chiave di lettura e di intervento per realizzare una struttura capace di essere at­tivata in più punti. Non si tratta di affermare la impossibile interscambiabilità dei ruoli e delle prestazioni, ma di osservare che si può valoriz­zare il servizio che valorizza di più anche altre forze».

L'intervento domiciliare si configura, in questo senso, come quello che meglio può raggiungere questo obiettivo. «Accanto alla valorizzazione dei servizi - ha concluso Bartoli - deve realiz­zarsi un analogo processa per la solidarietà... È necessario che si determini un lungo processo di consapevolezza che dai principi etici alle ri­sposte organizzative, passando per la definizione di norme opportune, permetta a posizioni solidali di esprimersi compiutamente... La solidarietà da valorizzare non è un principio astratto, ma sfon­do etico e scelte concrete: Si tratta, in definitiva, di accettare l'imperativo etico dell'identico va­lore per ciascuno e del conseguente obbligo di servizi che permettano questa via quando qual­cuno non può bastare a se stesso».

 

I servizi di rete: ad ognuno la sua risposta

Per ognuno risposte individualizzate, per ognu­no rispetto dei diritti, per ognuno la ricerca di uno «star bene» che non è fatto solo di assenza di malattia. Questi i contenuti più significativi emersi dalla esperienza di intervento descritta da Mariena Scassellati Galetti, Coordinatrice so­ciale della Comunità montana Val Pellice. II ful­cro di questo intervento è il distretto che «pub divenire riscoperta di una modalità di parteci­pazione e di coinvolgimento della comunità loca­le, partendo dal singolo, dei nucleo, del gruppo, verso la presa in carico del disagio; dell'emargi­nazione, verso la salute». La prospettiva è quel­la dei servizi di rete: «Un distretto aperto che costruisce rapporti, che comunica, che analizza i bisogni collettivi, che li percepisce, che cono­sce la dimensione dei problemi, per promuovere prevenzione e recupero, oltre che cura».

Uno dei servizi che può ben collocarsi all'in­terno di questa rete è rappresentato dalle comu­nità alloggio. Ha insistito su questo importante aspetto la relazione di Maria Grazia Breda, della redazione della rivista «Prospettive assistenziali» Le comunità alloggio rappresentano, ha afferma­to la Breda, un intervento particolarmente indi­cato per quanti, minori, adulti, anziani si trovano a vivere nell'impossibilità di gestire in maniera completamente autonoma gli spazi della propria vita e, nello stesso tempo, non sono praticabili altre soluzioni di tipo familiare; l'istituzionalizza­zione finirebbe con il recidere definitivamente e drammaticamente i legami ancora possibili, le prospettive di una vita «normale». La comunità alloggio, viceversa, per le sue caratteristiche organizzative ed abitative sostanzialmente anti­-istituzionali, permette di fruire, anche tempora­neamente, di una condizione «protetta» ma non segregante.

 

Alimenti: il diritto di chiederli

Il «no» alle soluzioni istituzionalizzanti, almeno in alcuni segmenti del nostro patrimonio cultu­rale e giuridico, è dato acquisita. Da questa real­tà prende le mosse la relazione di Massimo Do­gliotti, Giurista e Docente nell'Università della Calabria. «È ormai un dato pacifico nella nostra cultura giuridica e non - ha affermato Dogliot­ti - che il ricovero in istituto del minore, soprat­tutto se portato avanti indefinitivamente, sia ne­gativo. D'altra parte ancora è tutt'altro che acqui­sito il concetto che, allo stesso modo, lo sradi­camento dal proprio ambiente è tanto più nocivo per il malato e per l'anziano. Sarebbe estrema­mente utile estendere a tutti gli individui il dirit­to riconosciuto al minore, di rimanere nel proprio ambiente; dovrebbe trattarsi di un diritto fonda­mentale, compreso fra quelli indicati dalla Costi­tuzione agli artt. 2 e 3». La situazione attuale di­mostra, però, che l'acquisizione di questo diritto è ancora lontana. Le Regioni sono intervenute con una «congerie di leggi - ha proseguito Do­gliotti - che parlano di diritti e introducono af­fermazioni altamente avanzate e positive ma na­scondono, spesso, l'incapacità di agire e di ottenere interventi accettabili, anche per l'assenza della legge quadro sull'assistenza che potrebbe Indirizzare gli interventi degli enti locali».

Ad esclusione dei minori, comunque, la scelta che sembra oggi più perseguita è quella del ricovero, specialmente ai danni di anziani non auto­sufficienti.

«È prassi costante degli istituti di assistenza - ha contestato Dogliotti - quella di far pagare una parte della retta ai parenti obbligati agli ali­menti. L'obbligo alimentare è sancito dal codice civile come fatto assolutamente privato. C'è, in altre parole, un obbligo privato di un parente nei confronti dell'altro ma tale obbligo può essere attivato solo dal soggetto che ha diritto agli ali­menti». Una questione niente affatto secondaria, che segnala, al contrario, una situazione di vio­lazione del diritto fra le più frequenti, quando al malato, prevalentemente anziano ma non solo, viene di fatto negata la possibilità di decidere di avvalersi, se vuole, di un diritto suo proprio di cui le istituzioni di tutela si appropriano in­debitamente.

 

La non autosufficienza fra autonomia e dipendenza

Sulla cultura del domicilio, una delle maggiori conquiste culturali degli ultimi dieci anni, si è incentrata la relazione di Vito Noto, responsabile della Unità operativa geriatrica di Melegnano (Mi­lano). L'affermazione di questa cultura «ha per­messo - ha affermato Noto - di rileggere in termini più corretti il concetto di dipendenza e di ripensare in maniera più rispondente al biso­gni, ai concetti di cronicità e di handicap; di rein­terpretare, in definitiva, il concetto di salute. Al binomio salute/assenza di malattia, deve essere, infatti, sicuramente sostituito il binomio validità/invalidità. La salute va più correttamente intesa come capacità di mantenere un buon rapporto tra la non autosufficienza e l'ambiente: in questo senso l'handicap, la malattia, la dipendenza si presentano come concetti relativi».

L'handicap e la non autosufficienza vanno, se­condo Noto, in questa nuova impostazione, con­siderati come valore in evoluzione e dal modo in cui questo valore viene vissuto dal soggetto portatore, e con cui questo valore viene interpre­tato, pensato, vissuta da chi ali sta intorno mol­to dipende dalla efficacia dell'intervento. Nume­rosi modelli operativi scaturiscono da una visio­ne riduzionistica, che non contempla, cioè, la malattia come un valore, «sono modelli che ten­dono magari alla cura esasperata del corpo - ha proseguito Noto - senza tener presenti le capa­cità potenziali differenziate della persona».

Sul versante opposto, gli interventi che indi­rizzano totalmente le risorse nella valorizzazione delle capacità differenziate, senza occuparsi del corpo. «È un modello operativo che nega la ma­lattia e la dipendenza per dare valore solo alle capacità differenziate».

Per uscire dalla strettoia rappresentata da que­ste due opposte possibilità, secondo Noto, è ne­cessario intendere «la salute come qualcosa che contempli la possibilità per il paziente di poter convivere con la sua malattia» senza negarla, dunque, ma anche senza assolutizzarla.

Il concetto di non autosufficienza, come condi­zione non univoca ma anzi diversamente identi­ficabile nella varietà delle situazioni concrete, è stato uno degli spunti colti anche nella rela­zione di Fabrizio Fabris, Ordinario di gerontolo­gia e geriatria dell'Università di Torino. Parlando della fattibilità degli interventi domiciliari, Fabris ha sottolineato come diverse possano essere le modalità attuative «graduate non per difficoltà e Impegno, ma piuttosto per diversità di proble­mi: una di queste possibili modalità, quella più medica, è rappresentata dall'intervento del grup­po ospedaliero a domicilio... Più delle concrete modalità attuative - ha sottolineato Fabris - è comunque necessario affermare la scelta degli interventi domiciliari su quelli residenziali». Ci­tando i dati di una inchiesta condotta su un cam­pione di oltre 1.100 ultrasessantenni, Fabris ha sottolineato come la non autosufficienza sia un fenomeno di dimensioni più ridotte di quelle che ordinariamente si crede, e, d'altro canto che il contesto familiare sembra ancora saper espri­mere importanti potenzialità.

L'esperienza degli interventi domiciliari, secon­do Fabris, è anche per questo praticabile in mol­te situazioni: può e non deve riguardare solo una situazione facile, ma anche situazioni altamente difficili ed impegnative. La via più moderna di questo problema è proprio costituita dall'inter­venire non solo in situazione di scarso impegno, anche in situazione di largo, larghissimo impe­gno. Buona parte delle cose che vengono fatte in ospedale è fattibile a domicilio.

Affermazione, questa, ampiamente ribadita nel­la relazione di Gianluigi Passerini, Medico di me­dicina generale di Sondrio, che si è soffermato proprio sul nuovo ruolo del medico di base nel quadro degli interventi domiciliari. «La medicina di base si deve caratterizzare per la accessibilità, la continuità della cura, il rapporto medico-pa­ziente. In teoria il sistema italiano è in grado dl garantire questi tre requisiti, essenziali allo svi­luppo del servizi a domicilio».

In realtà, però, ha affermato Passerini, ciò non sempre si realizza per l'interagire di fattori nega­tivi derivanti da un malinteso senso del proprio ruolo dei medici di base stessi oltre che dalle disfunzioni del sistema. È necessario, per questo, che il medico di medicina generale assuma pie­namente il compito di salvaguardia della salute intesa in senso globale, non solo, quindi, come intervento puntuale sulla malattia, ma come attenzione all'intero insieme di fattori, sociali, am­bientali, familiari... che definiscono lo «star bene».

 

Le residenze sanitarie assistenziali: che fare fuori dal domicilio?

Mentre si parla di interventi domiciliari, non si pub dimenticare che le più recenti norme le­gislative hanno predisposto cospicui finanzia­menti a favore di interventi istituzionali. Le resi­denze sanitarie assistenziali rappresentano l'ul­tima definizione di questo tipo di interventi. Sulla tipologia di queste strutture ipotizzate per met­tere ordine nell'ormai imponderabile universo delle realizzazioni residenziali si è soffermata l'attenzione delle relazioni di Tiziana Lepore, del­la Comunità di Sant'Egidio e di Eugenia Monze­glio, Architetto del Politecnico di Torino.

«La prima perplessità - hanno osservato Ti­ziana Lepore e Eugenia Monzeglio - riguarda i possibili utenti: in assenza di un concetto chiaro di non autosufficienza, infatti, le RSA potrebbero diventare il ricovero per diversi tipi di soggetti in difficoltà: anziani, handicappati, malati psichici, riproponendo, di fatto, un modello arcaico di struttura tutelare». Particolarmente importante, sarà, per questo, - e su questo aspetto le rela­zioni hanno offerto spunti di notevole interesse - definire tutti gli aspetti organizzativi delle RSA stesse, primi fra tutti, gli standards di per­sonale, l'utenza, le caratteristiche abitative.

 

Servizi domiciliari: le «incomprensibili» difficoltà

Che esista una «volontà» di fatto ostacolante la realizzazione degli interventi domiciliari, non è acquisizione nuova. Sul come, sul quando, sul chi questa volontà esercita, a volte inconsape­vole artefice, la relazione di Carlo Hanau, Docen­te di economia sanitaria all'Università di Bolo­gna, ha offerto alcuni spunti interessanti. La pos­sibilità di essere curati a casa si scontra, per esempio, con lo scoglio burocratico delle dimis­sioni ospedaliere. «Siamo, a volte - ha afferma­to Hanau - in una dimensione kafkiana; si direb­be che tutte le strutture pubbliche vivano non in favore dell'utente, ma nonostante l'utente». Il chi si assume la responsabilità di una dimen­sione appare ostacolo insormontabile, quando «dal punto di vista giuridico un cittadino che firma per uscire non ha bisogno di nessun'altra garanzia. E se succede qualcosa, la responsabi­lità è solo sua: riconosciamo, però, alla gente la libertà di morire dove vuole». «Dal punto di vi­sta del nostro diritto - ha proseguito Hanau - non esistono ostacoli oggettivi alle cure domici­liari. Problemi, eventualmente è concretamente; sorgono rispetto alle condizioni economiche. Su due versanti: quello della famiglia e quello delle più generali compatibilità del sistema». Sul ver­sante dell'aiuto alla famiglia, la legislazione pre­vede una serie di agevolazioni, in larga parte, ha affermato Hanau, del tutto disattese. Per quanto riguarda il servizio pubblico, uno dei maggiori ostacoli è rappresentato, secondo Hanau, dalla necessità di un pieno utilizzo del tempo di lavo­ro del personale infermieristico, ritenuto, da molti, eccessivamente frantumato, e quindi sotto­utilizzato, negli interventi a domicilio. «Quello che conta, purtroppo, sono i tempi di trasferi­mento di questo personale. Sarà quindi opportu­no concentrare questo tipo di servizio su un'area geograficamente limitata: si tratterà di una scel­ta di immediata positività anche economica e questo potrà permettere al servizio di espandersi a macchia d'olio». Importanti aiuti sul fronte de­gli interventi domiciliari potranno inoltre venire, ha concluso Hanau, da una utilizzazione intelli­gente della più moderna tecnologia.

 

Il ruolo del volontariato

Uno spazio particolarmente significativo nella realizzazione degli interventi a domicilio, è quel­lo occupato dal volontariato. Su di esso si è sof­fermata la relazione di Vodia Cremoncini, del MoVI. Collaborazione e salvaguardia della pro­pria originalità, sono, secondo la Cremoncini, le caratteristiche essenziali dell'impegno del volon­tariato: caratteristiche solo apparentemente con­tradditorie, dimostratesi, viceversa, nella espe­rienza concreta, positivamente abbinabili. Il vo­lontariato, nelle sue molteplici forme, rappresen­ta, secondo la Cremoncini, un contributo altamen­te qualificato, per la sua capillarità e la sua con­tinuità, alla formazione e alla affermazione di una cultura del servizio che non può non interagire positivamente con l'intervento più specificamen­te istituzionale. La ricerca, qualificata e non sub­alterna, di questa interazione deve essere - ha concluso la Cremoncini - un imperativo per il volontariato stesso se vuole mantenere la sua caratteristica di avanguardia operativa e cultu­rale.

 

Interventi nel domicilio: esigenze normative

L'esperienza della Associazione nazionale fa­miglie adottive e affidatarie, dell'Unione per la lotta contro l'emarginazione sociale, del Coordi­namento sanità e assistenza fra i movimenti di base, che da anni si occupano di volontariato pro­mozionale, è emersa con forza nella relazione conclusiva del convegno svolta da Francesco Santanera, della redazione della rivista «Prospet­tive assistenziali». A partire dalla attività delle tre associazioni, impegnate nella tutela di sog­getti non in grado di tutelarsi autonomamente, Santanera ha posto l'accento sul problema della esigibilità dei diritti riconosciuti dalla legislazio­ne a questi stessi soggetti.

La carta legislativa, secondo Francesco San­tanera, si muove per percorsi in qualche misura opposti: la legislazione a tutela del minore, per esempio, si cura di ribadire in più parti il diritto del minore stessa ad una «sistemazione fami­liare» opportuna, mentre, sul versante opposto, la legge quadro sull'handicap non menziona in nessuna delle sue parti il diritto di cui il soggetto handicappato è portatore. La situazione attuale segnala, secondo Santanera, l'emergere di un problema particolarmente grave rispetto alla con­dizione dei non autosufficienti, anziani e non, ri­spetto ai quali si conferma una prassi sostanzial­mente istituzionalizzante, lesiva dei diritti loro propri. Secondo Santanera, di fronte a questa si­tuazione, te associazioni di volontariato che in­tendono collocarsi sul fronte della tutela dei di­ritti non possono che assumere una posizione alternativa rispetto alle istituzioni: in questa di­rezione si è collocato, per esempio, l'ottenimento da parte del CSA della possibilità di compiere visite di controllo nelle strutture pubbliche. San­tanera è, inoltre, entrato sul merito del dibattito relativo al varo della legge quadro sull'assisten­za. In realtà, secondo Santanera, tale legge, sep­pure mai formalizzata, si è in effetti affermata attraverso atti legislativi di vario genere, nel paese. Tra essi il decreto del Presidente del Con­siglio dei Ministri del 1985 che di fatto ha tra­sferito la competenza relativa agli anziani cronici non autosufficienti dal settore sanitario a quello socio-assistenziale, ledendo palesamente, in que­sto modo, il diritto alla cura proprio di ogni cit­tadino. Arretramenti sono visibili, secondo San­tanera, nella tutela dei portatori di handicap in­tellettivi gravi, nella non applicazione della leg­ge sul collocamento obbligatorio e nel pericolo dell'affermarsi delle RSA come «soluzione» isti­tuzionalizzante per questi e altri soggetti deboli. «Piuttosto che fermarsi - ha concluso Santa­nera - ad affermazioni teoriche, come quelle relative al varo della legge quadro sull'assistenza; andrebbe rivolta ben maggiore attenzione al pro­blema pratico della negazione di fatto dei diritti dei cittadini più deboli».

 

 

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