PRIMA INTERVENIRE A CASA
Si è svolto a Milano, nei giorni, 19 e 20 aprile, il
convegno nazionale di studio «Prima
intervenire a casa - Gli interventi domiciliari di cura e sostegno alle
persone malate o in difficoltà come priorità per amministratori operatori e
volontari», realizzato dal C.S.P.S.S., Centro studi e programmi sociali e
sanitari, nato a Roma per iniziativa della Comunità di Sant'Egidio. Il convegno
ha inteso raccogliere l'autorevole voce di personalità espressive di diversi
approcci e orientamenti culturali intorno al tema degli interventi domiciliari
a favore di soggetti malati o in difficoltà. Anziani non autosufficienti,
malati psichici, handicappati, tossicodipendenti, minori, malati di AIDS o
oncologici possono trarre beneficio dalla priorità degli interventi
domiciliari.
È quindi un tema nodale nel dibattito che investe
l'organizzazione dei servizi socio-assistenziali e sanitari, nella ricerca di
soluzioni opportune, adeguate ai bisogni, non istituzionalizzanti, pienamente
rispettose dei diritti dei cittadini.
Insieme al C.S.P.S.S., il Mo.Vi., la rivista «Prospettive
assistenziali», la Fondazione Zancan, la Caritas italiana, il Centro nazionale
del volontariato di Lucca, il Coordinamento genitori democratici e l'ISTISS,
hanno, quindi, promosso questo ampio confronto, articolato in quattro momenti
caratterizzanti le diverse problematiche relative agli interventi a domicilio:
«Perché prima intervenire a casa», «Persone in difficoltà e risorse
possibili», «Salute ed autonomia», «Per una migliore qualità della vita».
La casa: premessa e necessità
Aprendo i lavori il cardinale Carlo Maria Martini,
Arcivescovo di Milano, ha sottolineato con forza come «la vita della persona umana si dispieghi ordinariamente attorno al
centro fisico e simbolico rappresentato dalla casa. Ciascuno ha in qualche modo
la "sua casa" - ha detto il cardinale - fosse pure il casolare,
l'appartamento, il convento, il rifugio notturno dei senza fissa dimora...
Ciascuno ha o cerca un luogo a cui fare riferimento. Vi torna, o aspira a
tornarvi, perché la casa esprime in un modo o nell'altro la vita della persona.
È per ciascuno di noi una necessità e una protezione». Occorre, quindi, ha
aggiunto il cardinale, che il restare a casa propria divenga l'obiettivo prioritario
di ogni intervento: «per realizzarlo in concreto è necessario innanzitutto
che le case ci siano, che siano accessibili nel prezzo, che siano anche senza barriere
architettoniche: bisogna costruire le case per gli uomini, per tutti gli
uomini e non solo per i sani». Il sopraggiungere della malattia, fa
perdita, in qualche caso, della autosufficienza, non sono, secondo Martini,
motivazioni sufficienti a giustificare l'abbandono della propria casa. «La casa - ha affermato il Cardinale - va garantita soprattutto quando le persone
sono malate o in difficoltà. Quando una persona si ammala, vive questo stesso
attaccamento alla casa: certamente incombono su di essa tante esigenze, la
prevenzione, la diagnosi, la terapia diventano un obbligo. Ma chi è malato
sente sempre anche il bisogno e - se è fuori - la nostalgia della casa. Quando
una persona è malata, non ha bisogno sola delle medicine, dell'ospedale e delle
cure che vi possono essere praticate, ma di essere curata, accompagnata,
sostenuta» ed è proprio la sua casa il luogo dove tutto questo pub avvenire
con i migliori risultati.
Il rispetto della volontà personale non diminuisce
davanti al malato
Restare a
casa propria, dunque, è la condizione più auspicabile, anche e soprattutto nel
sopravvenire della malattia; non poterlo fare, contro la propria volontà, per
l'assenza di aiuti necessari, diventa, spesso, una violazione pale" del
diritto di ogni uomo a scegliere la propria condizione di vita.
È quanto emerso dall'intervento di Mons. Attilio
Nicora, Presidente della Caritas italiana. «Chi
si ammala - ha affermato Nicora - smette
di essere un cittadino come gli altri. Nella misura in cui mutano l'età o le
condizioni di vita, i diritti riconosciuti come inalienabili sembrano non
essere più tali, e proprio mentre si è più deboli si è di fatta meno tutelati».
È il caso, ha proseguito il Presidente della Caritas
italiana, del rispetto della volontà individuale. «Sembra un dato acquisito, un diritto di tutti, eppure viene meno nella
prassi proprio là dove dovrebbe essere più cautelato. Chi è malato o anziano,
finisce col perdere la libertà di poter decidere con chi vivere e dove vivere,
di scegliere dove e come essere curato». Si è costretti a lasciare casa
propria e «con lo sradicamento dal proprio
ambiente si attua un vero e proprio esautoramento della capacità di volere e
di decidere, di gestire i propri beni e la propria vita, di avere delle
opinioni. Si viene diminuiti delle proprie capacità umane e si diviene
prigionieri della volontà altrui».
La gioia non è sempre giovane e il dolore non è
sempre vecchio
Sugli aspetti etici che determinano la priorità degli
interventi domiciliari è intervenuto anche Giulio Giorello, Ordinario di
filosofia della scienza dell'Università di Milano.
Percorrendo una suggestione tratta dal «sogno
scientista» di Paolo Mantegazza, dove è presentata la società dell'anno
tremila retta sui principi dell'eugenetica, Giorello si è soffermato su di una
frase contenuta in quella utopia: «La
gioia è sempre giovane, e per contrasto, dunque, il dolore è sempre vecchio».
«Questa
utopia scientifica - ha proseguito
Giorello - è più raggelante di qualsiasi
disutopia inventata da scrittori come Orwell o Huxley: nell'idea di una
società perfettamente controllata da apparati statali che hanno una conoscenza
scientifica e tecnologica di prim'ordine, l'individuo con tutti i suoi limiti
o i suoi pregi sparisce». Secondo Giorello la società attuale è, in
realtà, per più versi simile a quell'utopia. «Un esempio lampante è quello della frammentazione dei tempi e degli
spazi che ha reso frenetica ogni attività dell'uomo, con conseguenze
psicologiche stressanti... tanto più stressanti perché non esiste una sostanza
unica sulla quale si inseriscono delle contingenze, ma, come dimostrò Jung, sono
proprio queste contingenze ad essere importanti, a determinare la persona.
«L'individuo
è qualche cosa che si stacca dalla massa indifferenziata per caratteristiche
particolari. La "persona" è parte integrante di noi, sono i nostri
ruoli... Quindi, se l'individuo o la persona è questo insieme di attribuzioni,
di carte di appartenenza, di contatti, di relazioni che istituisce con il
mondo che lo circonda, ci rendiamo conto che proprio in un momento di segmentazione
dello spazio-temporale, le persone più deboli sono le meno garantite, quelle
che meno possono conservare ciò che le definisce come persone e più spesso
diventano oggetti e non più soggetti di azioni intraprese da altri, magari
senza nessuna malvagità personale, senza nessuna malizia, semplicemente perché
le strutture funzionano in un certo modo piuttosto che in un certo altro.
«Se siamo
veramente convinti - ha proseguito
Giorello - del valore della persona o, in
termini più laici di ciò che Steward Meel chiamava "la sovranità del
consumatore", (io, cioè, sono il giudice delle mie preferenze, io che
decido per Il mio bene e non qualcun altro) dobbiamo affermare che il diritto
alle cure domiciliari, il diritto a rimanere legati a quel contesto che
definisce "me" come persona, come individuo non scambiabile con
qualsiasi altro, si rivela davvero centrale. In questo senso una qualunque
dimensione etica deve incorporare come requisito minimale il diritto alla
scelta proprio di ogni individuo».
La persona ed i suoi «legami»
Sulla centralità del rispetto della persona si è
intrattenuto anche Renzo Canestrari, Ordinario di psicologia dell'Università di
Bologna: persona intesa nel senso più largo del termine, come entità «che si
edifica attraverso il legame». È proprio il valore del "legame" ad
affermarsi, secondo Canestrari, come decisivo.
«Sappiamo quanto sia fondamentale il legame per il
bambino e dati sperimentali dicono che il bambino che non gode di un solido
legame vada incontro a gravi conseguenze sul piano dello sviluppo psichico e
fisico. Se analizziamo gli itinerari di formazione della persona umana
troviamo sempre l'importanza del legame».
Proprio per questo, secondo Canestrari, non è
possibile sottovalutare quei momenti in cui il legame viene, anche se solo
temporaneamente, reciso. «Il ricovero
porta, sempre, con sé una esperienza stressante. Il paziente vive sempre
un'esperienza di terrore, anche perché negli ospedali non c'è molta attenzione
al valore dei legami: la tecnologia esige programmazioni neutrali dal punto di
vista affettivo e crea una routine meccanizzata nel medico stesso
dell'ospedale.
«Il malato
si passivizza. Certo oggi gli ospedali sono più aperti rispetto a una volta,
anche se alcuni continuano ad ostacolare l'ingresso dei familiari, ma sembra acquisita
dai più l'importanza dello spazio di socializzazione, in modo che i legami
vengano in qualche modo conservati e questa sorta di alimentazione possa
sorreggere il paziente».
«Il curare a
casa - ha affermato infine Canestrari
- è effettivamente molto proficuo per la
personalità minacciata. Pertanto la fine del malato grave in casa sarebbe la
più alta espressione dell'umanizzazione della medicina».
Curare a casa: il malato non nasce in corsia
L'intervento del Prof. Elio Guzzanti si è inizialmente
soffermato a tracciare un breve excursus sulla storia dell'assistenza
ospedaliera. Guzzanti ha, quindi, affermato che, nonostante gli innegabili
progressi, continua a sussistere negli ospedali una difficoltà, anche da parte
delle persone più motivate, a rispettare i diritti delle persone, per «la stessa struttura organizzativa che determina
e scandisce, secondo ritmi suoi propri, una serie di spazi e tempi della vita
quotidiana». Nonostante questo, ha continuato Guzzanti, «è necessario. tare un'attenta
riflessione sullo stato attuale delle cose, per non cadere ancora una volta nel
manicheismo del "da una parte sta tutto il bene, e dall'altra tutto il
male". In effetti questo non è mai vero: ospedale e territorio sono due
metà complementari di una stessa realtà. Non si può privilegiare, in maniera
assoluta, una soluzione rispetto all'altra, se non individuando i bisogni della
persona, che possono variare nel tempo». «Certamente - ha proseguito Guzzanti - esistono dei concetti generali che devono guidare oggi l'assistenza: la
continuità delle cure e il continuum dei servizi assistenziali, in una rete di
servizi in cui nessuno vale più dell'altro, se non nella misura in cui si
adatta alle singole circostanze».
Guzzanti ha offerto, infine, una documentata
relazione sulla positività delle cure domiciliari a favore dei malati di AIDS,
senza nascondere, tuttavia, i numerosi problemi ancora aperti.
«Tra essi - ha detto - vi
è quello del personale che è stato formato con mentalità affatto diversa da
quella che sarebbe necessaria negli interventi domiciliari. Le scuole
infermieristiche sono legate agli ospedali, i malati per eccellenza sono quelli
delle corsie, l'abitudine diffusa è quella di ritenere che una persona nasca
con il pigiama, che sia definita da un numero, problema, peraltro, comune
anche alla classe medica».
Legislazione: dalla figura professionale il bisogno,
o dal bisogno la figura professionale?
Lo spazio da percorrere per avvicinare la necessità
degli interventi a domicilio alla concreta possibilità della loro attuazione è
ancora, quindi, lungo e complesso.
Anche sul piano legislativo. Su questo aspetto si è
intrattenuto Paolo Cendon, Ordinario di istituzioni di diritto privato
dell'Università di Trieste. «È in qualche
misura sorprendente - ha detto Cendon
- come si legga spesso sul giornale di istituti lager, con vecchi abbandonati,
sporcizia, epidemie, condizioni inimmaginabili; e poi contemporaneamente, si
assista alla presentazione degli anziani come un grande business: cibi per
loro, merci di consumo per loro, ginnastica, e l'età che sembra non passare
mai: un bombardamento di messaggi consumistici che non può non stridere
davanti alle altre informazioni ben più drammatiche». Quale atteggiamento,
davanti a questo, da parte degli organi costituzionali?
«Per 10 anni
dalla loro fondazione - afferma
Cendon - le regioni non hanno fatto nulla, poi hanno cominciato a fare molte
leggi: una quantità sterminata di leggi regionali che toccano un po' tutti i
campi della debolezza. Un prodotto legislativo che si presenta
straordinariamente e surrealmente contraddittorio rispetto_alla realtà corrente».
Perché? «C'è una responsabilità specifica,
culturale, ideale della giustizia - afferma Cendon - È la responsabilità di aver sempre pensato il proprio mestiere come un
mestiere da fare a tavolino: il giurista è stato spesso artefice teorico,
sintetizzatore in laboratorio di prodotti: libri, leggi, formule, concetti».
È necessaria una diversa concezione del diritto
soggettivo, che Cendon ha chiamato «il
diritto al diritto»; il debole, cioè, ha il diritto di avere qualcuno che
lo aiuti a difendere i propri diritti. «L'articolo
32 della Costituzione, il diritto alla salute - ha proseguito - non è il diritto alla ginnastica, ma è
ben di più il diritto alla valorizzazione massima delle risorse rimaste ad una
persona. È il diritto del debole ad essere lavato, pettinato e pulito, è il
diritto che qualcuno gli restituisca il gusto di difendere i propri diritti».
Bisogna, per questo, ipotizzare figure nuove, fra
esse, secondo Cendon, quella dell'«Amministratore di sostegno». Sarà nominato
dal giudice e si potrà trattare di un operatore con una delega particolare.
solo per le specifiche funzioni che il soggetto da solo non sa fare, mentre per
le altre conserverà l'esercizio dei diritti civili. Un passo avanti, dunque,
rispetto alla figura del tutore e del curatore, nel tentativo di «piegare» le
mansioni ai bisogni e non percorrere, come spesso è accaduto, la strada
inversa.
Valorizzare i servizi che valorizzano il «potere
personale»
Sul tema della valorizzazione della rete dei servizi
e della solidarietà si è soffermata la relazione di Andrea Bartoli, direttore
del CSPSS. Un tema nodale «perché -
ha detto Bartoli - si ritiene che una
corretta organizzazione debba opportunamente sostenere i soggetti deboli nel
momento di maggiore difficoltà. Gli studi americani sull'impotenza, intesa
come debolezza, fragilità, derivante in parte anche dalla mancanza di aiuto,
hanno ben messo in evidenza le correlazioni esistenti tra livelli di salute ed
autonomia e livello di potere personale. Hanno altresì mostrato come uno degli
elementi di maggior gravità sia proprio la condizione di assoluta impotenza
che si accompagna, frequentemente, al decorso della malattia. L'aiuto, inteso
come disponibilità di risorse è una componente essenziale di questa dimensione
che potremmo definire di potere personale».
La valorizzazione di tale aiuto ha ricadute sia sul
piano giuridico che su quello della organizza-zione dei servizi: in
particolare, per quei che riguarda i servizi «l'organizzazione del continuum, ovvero di una adeguata rete di servizi
alla persona, - ha proseguito Bartoli - lungi dal creare contrapposizioni e conflitti, consente sinergie e
positivi interscambi... È giunto il momento di affermare la necessità di una
articolazione dei servizi che permetta a ciascuna componente di svolgere il
suo ruolo senza eccessive sovrapposizioni». Una strada percorribile,
secondo Bartoli, nel momento in cui si accettano alcuni principi di base: che
non si perseguano strade emarginanti tendenti a creare per categorie spazi
«protetti»; che i servizi siano resi tenendo conto delle esigenze fondamentali
della persona; che accettino alcune priorità: prevenire, potenziare, integrare,
sostituire; che siano il più possibile scomposti in prestazioni di base,
identificabili indipendentemente dal contesto logistico in cui sono fornite;
che tutti i settori acquisiscano al loro interno le valenze sociali necessarie
alla esecuzione dei loro mandati istituzionali. «L'affermarsi del paradigma di rete - ha detto Bartoli - non può che essere una chiave di lettura e
di intervento per realizzare una struttura capace di essere attivata in più
punti. Non si tratta di affermare la impossibile interscambiabilità dei ruoli e
delle prestazioni, ma di osservare che si può valorizzare il servizio che valorizza
di più anche altre forze».
L'intervento domiciliare si configura, in questo
senso, come quello che meglio può raggiungere questo obiettivo. «Accanto alla valorizzazione dei servizi
- ha concluso Bartoli - deve realizzarsi
un analogo processa per la solidarietà... È necessario che si determini un
lungo processo di consapevolezza che dai principi etici alle risposte
organizzative, passando per la definizione di norme opportune, permetta a
posizioni solidali di esprimersi compiutamente... La solidarietà da valorizzare
non è un principio astratto, ma sfondo etico e scelte concrete: Si tratta, in
definitiva, di accettare l'imperativo etico dell'identico valore per ciascuno
e del conseguente obbligo di servizi che permettano questa via quando qualcuno
non può bastare a se stesso».
I servizi di rete: ad ognuno la sua risposta
Per ognuno risposte individualizzate, per ognuno
rispetto dei diritti, per ognuno la ricerca di uno «star bene» che non è fatto
solo di assenza di malattia. Questi i contenuti più significativi emersi dalla
esperienza di intervento descritta da Mariena Scassellati Galetti,
Coordinatrice sociale della Comunità montana Val Pellice. II fulcro di questo
intervento è il distretto che «pub
divenire riscoperta di una modalità di partecipazione e di coinvolgimento
della comunità locale, partendo dal singolo, dei nucleo, del gruppo, verso la
presa in carico del disagio; dell'emarginazione, verso la salute». La
prospettiva è quella dei servizi di rete:
«Un distretto aperto che costruisce rapporti, che comunica, che analizza i
bisogni collettivi, che li percepisce, che conosce la dimensione dei problemi,
per promuovere prevenzione e recupero, oltre che cura».
Uno dei servizi che può ben collocarsi all'interno
di questa rete è rappresentato dalle comunità alloggio. Ha insistito su questo
importante aspetto la relazione di Maria Grazia Breda, della redazione della
rivista «Prospettive assistenziali» Le comunità alloggio rappresentano, ha
affermato la Breda, un intervento particolarmente indicato per quanti,
minori, adulti, anziani si trovano a vivere nell'impossibilità di gestire in
maniera completamente autonoma gli spazi della propria vita e, nello stesso
tempo, non sono praticabili altre soluzioni di tipo familiare;
l'istituzionalizzazione finirebbe con il recidere definitivamente e
drammaticamente i legami ancora possibili, le prospettive di una vita «normale».
La comunità alloggio, viceversa, per le sue caratteristiche organizzative ed
abitative sostanzialmente anti-istituzionali, permette di fruire, anche
temporaneamente, di una condizione «protetta» ma non segregante.
Alimenti: il diritto di chiederli
Il «no» alle soluzioni istituzionalizzanti, almeno in
alcuni segmenti del nostro patrimonio culturale e giuridico, è dato acquisita.
Da questa realtà prende le mosse la relazione di Massimo Dogliotti, Giurista
e Docente nell'Università della Calabria. «È
ormai un dato pacifico nella nostra cultura giuridica e non - ha affermato
Dogliotti - che il ricovero in istituto
del minore, soprattutto se portato avanti indefinitivamente, sia negativo.
D'altra parte ancora è tutt'altro che acquisito il concetto che, allo stesso
modo, lo sradicamento dal proprio ambiente è tanto più nocivo per il malato e
per l'anziano. Sarebbe estremamente utile estendere a tutti gli individui il
diritto riconosciuto al minore, di rimanere nel proprio ambiente; dovrebbe
trattarsi di un diritto fondamentale, compreso fra quelli indicati dalla Costituzione
agli artt. 2 e 3». La situazione attuale dimostra, però, che
l'acquisizione di questo diritto è ancora lontana. Le Regioni sono intervenute
con una «congerie di leggi - ha
proseguito Dogliotti - che parlano di
diritti e introducono affermazioni altamente avanzate e positive ma nascondono,
spesso, l'incapacità di agire e di ottenere interventi accettabili, anche per
l'assenza della legge quadro sull'assistenza che potrebbe Indirizzare gli interventi
degli enti locali».
Ad esclusione dei minori, comunque, la scelta che
sembra oggi più perseguita è quella del ricovero, specialmente ai danni di
anziani non autosufficienti.
«È prassi
costante degli istituti di assistenza - ha contestato Dogliotti - quella
di far pagare una parte della retta ai parenti obbligati agli alimenti.
L'obbligo alimentare è sancito dal codice civile come fatto assolutamente
privato. C'è, in altre parole, un obbligo privato di un parente nei confronti
dell'altro ma tale obbligo può essere attivato solo dal soggetto che ha diritto
agli alimenti». Una questione niente affatto secondaria, che segnala, al
contrario, una situazione di violazione del diritto fra le più frequenti,
quando al malato, prevalentemente anziano ma non solo, viene di fatto negata la
possibilità di decidere di avvalersi, se vuole, di un diritto suo proprio di
cui le istituzioni di tutela si appropriano indebitamente.
La non autosufficienza fra autonomia e dipendenza
Sulla cultura del domicilio, una delle maggiori
conquiste culturali degli ultimi dieci anni, si è incentrata la relazione di
Vito Noto, responsabile della Unità operativa geriatrica di Melegnano (Milano).
L'affermazione di questa cultura «ha permesso
- ha affermato Noto - di rileggere in termini
più corretti il concetto di dipendenza e di ripensare in maniera più
rispondente al bisogni, ai concetti di cronicità e di handicap; di reinterpretare,
in definitiva, il concetto di salute. Al binomio salute/assenza di malattia,
deve essere, infatti, sicuramente sostituito il binomio validità/invalidità. La
salute va più correttamente intesa come capacità di mantenere un buon rapporto
tra la non autosufficienza e l'ambiente: in questo senso l'handicap, la
malattia, la dipendenza si presentano come concetti relativi».
L'handicap e la non autosufficienza vanno, secondo
Noto, in questa nuova impostazione, considerati come valore in evoluzione e
dal modo in cui questo valore viene vissuto dal soggetto portatore, e con cui
questo valore viene interpretato, pensato, vissuta da chi ali sta intorno molto
dipende dalla efficacia dell'intervento. Numerosi modelli operativi
scaturiscono da una visione riduzionistica, che non contempla, cioè, la
malattia come un valore, «sono modelli
che tendono magari alla cura esasperata del corpo - ha proseguito Noto - senza
tener presenti le capacità potenziali differenziate della persona».
Sul versante opposto, gli interventi che indirizzano
totalmente le risorse nella valorizzazione delle capacità differenziate, senza
occuparsi del corpo. «È un modello
operativo che nega la malattia e la dipendenza per dare valore solo alle capacità
differenziate».
Per uscire dalla strettoia rappresentata da queste
due opposte possibilità, secondo Noto, è necessario intendere «la salute come qualcosa che contempli la
possibilità per il paziente di poter convivere con la sua malattia» senza
negarla, dunque, ma anche senza assolutizzarla.
Il concetto di non autosufficienza, come condizione
non univoca ma anzi diversamente identificabile nella varietà delle situazioni
concrete, è stato uno degli spunti colti anche nella relazione di Fabrizio
Fabris, Ordinario di gerontologia e geriatria dell'Università di Torino.
Parlando della fattibilità degli interventi domiciliari, Fabris ha sottolineato
come diverse possano essere le modalità attuative «graduate non per difficoltà e Impegno, ma piuttosto per diversità di
problemi: una di queste possibili modalità, quella più medica, è rappresentata
dall'intervento del gruppo ospedaliero a domicilio... Più delle concrete
modalità attuative - ha sottolineato Fabris - è comunque necessario affermare la scelta degli interventi domiciliari
su quelli residenziali». Citando i dati di una inchiesta condotta su un
campione di oltre 1.100 ultrasessantenni, Fabris ha sottolineato come la non
autosufficienza sia un fenomeno di dimensioni più ridotte di quelle che
ordinariamente si crede, e, d'altro canto che il contesto familiare sembra
ancora saper esprimere importanti potenzialità.
L'esperienza degli interventi domiciliari, secondo
Fabris, è anche per questo praticabile in molte situazioni: può e non deve
riguardare solo una situazione facile, ma anche situazioni altamente difficili
ed impegnative. La via più moderna di questo problema è proprio costituita
dall'intervenire non solo in situazione di scarso impegno, anche in situazione
di largo, larghissimo impegno. Buona parte delle cose che vengono fatte in
ospedale è fattibile a domicilio.
Affermazione, questa, ampiamente ribadita nella
relazione di Gianluigi Passerini, Medico di medicina generale di Sondrio, che
si è soffermato proprio sul nuovo ruolo del medico di base nel quadro degli
interventi domiciliari. «La medicina di
base si deve caratterizzare per la accessibilità, la continuità della cura, il
rapporto medico-paziente. In teoria il sistema italiano è in grado dl
garantire questi tre requisiti, essenziali allo sviluppo del servizi a
domicilio».
In realtà, però, ha affermato Passerini, ciò non
sempre si realizza per l'interagire di fattori negativi derivanti da un
malinteso senso del proprio ruolo dei medici di base stessi oltre che dalle
disfunzioni del sistema. È necessario, per questo, che il medico di medicina
generale assuma pienamente il compito di salvaguardia della salute intesa in
senso globale, non solo, quindi, come intervento puntuale sulla malattia, ma
come attenzione all'intero insieme di fattori, sociali, ambientali,
familiari... che definiscono lo «star bene».
Le residenze sanitarie assistenziali: che fare fuori
dal domicilio?
Mentre si parla di interventi domiciliari, non si pub
dimenticare che le più recenti norme legislative hanno predisposto cospicui
finanziamenti a favore di interventi istituzionali. Le residenze sanitarie
assistenziali rappresentano l'ultima definizione di questo tipo di interventi.
Sulla tipologia di queste strutture ipotizzate per mettere ordine nell'ormai
imponderabile universo delle realizzazioni residenziali si è soffermata
l'attenzione delle relazioni di Tiziana Lepore, della Comunità di Sant'Egidio
e di Eugenia Monzeglio, Architetto del Politecnico di Torino.
«La prima
perplessità - hanno osservato Tiziana
Lepore e Eugenia Monzeglio - riguarda i
possibili utenti: in assenza di un concetto chiaro di non autosufficienza,
infatti, le RSA potrebbero diventare il ricovero per diversi tipi di soggetti
in difficoltà: anziani, handicappati, malati psichici, riproponendo, di fatto,
un modello arcaico di struttura tutelare». Particolarmente importante,
sarà, per questo, - e su questo aspetto le relazioni hanno offerto spunti di
notevole interesse - definire tutti gli aspetti organizzativi delle RSA stesse,
primi fra tutti, gli standards di personale, l'utenza, le caratteristiche
abitative.
Servizi domiciliari: le «incomprensibili» difficoltà
Che esista una «volontà» di fatto ostacolante la
realizzazione degli interventi domiciliari, non è acquisizione nuova. Sul come,
sul quando, sul chi questa volontà esercita, a volte inconsapevole artefice,
la relazione di Carlo Hanau, Docente di economia sanitaria all'Università di
Bologna, ha offerto alcuni spunti interessanti. La possibilità di essere
curati a casa si scontra, per esempio, con lo scoglio burocratico delle dimissioni
ospedaliere. «Siamo, a volte - ha
affermato Hanau - in una dimensione kafkiana;
si direbbe che tutte le strutture pubbliche vivano non in favore dell'utente, ma
nonostante l'utente». Il chi si assume la responsabilità di una dimensione
appare ostacolo insormontabile, quando «dal
punto di vista giuridico un cittadino che firma per uscire non ha bisogno di
nessun'altra garanzia. E se succede qualcosa, la responsabilità è solo sua:
riconosciamo, però, alla gente la libertà di morire dove vuole». «Dal punto di vista del nostro diritto
- ha proseguito Hanau - non esistono ostacoli
oggettivi alle cure domiciliari. Problemi, eventualmente è concretamente;
sorgono rispetto alle condizioni economiche. Su due versanti: quello della
famiglia e quello delle più generali compatibilità del sistema». Sul versante
dell'aiuto alla famiglia, la legislazione prevede una serie di agevolazioni,
in larga parte, ha affermato Hanau, del tutto disattese. Per quanto riguarda il
servizio pubblico, uno dei maggiori ostacoli è rappresentato, secondo Hanau,
dalla necessità di un pieno utilizzo del tempo di lavoro del personale
infermieristico, ritenuto, da molti, eccessivamente frantumato, e quindi sottoutilizzato,
negli interventi a domicilio. «Quello che
conta, purtroppo, sono i tempi di trasferimento di questo personale. Sarà
quindi opportuno concentrare questo tipo di servizio su un'area
geograficamente limitata: si tratterà di una scelta di immediata positività
anche economica e questo potrà permettere al servizio di espandersi a macchia
d'olio». Importanti aiuti sul fronte degli interventi domiciliari potranno
inoltre venire, ha concluso Hanau, da una utilizzazione intelligente della più
moderna tecnologia.
Il ruolo del volontariato
Uno spazio particolarmente significativo nella
realizzazione degli interventi a domicilio, è quello occupato dal
volontariato. Su di esso si è soffermata la relazione di Vodia Cremoncini, del
MoVI. Collaborazione e salvaguardia della propria originalità, sono, secondo
la Cremoncini, le caratteristiche essenziali dell'impegno del volontariato:
caratteristiche solo apparentemente contradditorie, dimostratesi, viceversa,
nella esperienza concreta, positivamente abbinabili. Il volontariato, nelle
sue molteplici forme, rappresenta, secondo la Cremoncini, un contributo
altamente qualificato, per la sua capillarità e la sua continuità, alla
formazione e alla affermazione di una cultura del servizio che non può non
interagire positivamente con l'intervento più specificamente istituzionale. La
ricerca, qualificata e non subalterna, di questa interazione deve essere - ha
concluso la Cremoncini - un imperativo per il volontariato stesso se vuole
mantenere la sua caratteristica di avanguardia operativa e culturale.
Interventi nel domicilio: esigenze normative
L'esperienza della Associazione nazionale famiglie
adottive e affidatarie, dell'Unione per la lotta contro l'emarginazione
sociale, del Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, che da
anni si occupano di volontariato promozionale, è emersa con forza nella
relazione conclusiva del convegno svolta da Francesco Santanera, della
redazione della rivista «Prospettive assistenziali». A partire dalla attività
delle tre associazioni, impegnate nella tutela di soggetti non in grado di
tutelarsi autonomamente, Santanera ha posto l'accento sul problema della esigibilità
dei diritti riconosciuti dalla legislazione a questi stessi soggetti.
La carta legislativa, secondo Francesco Santanera,
si muove per percorsi in qualche misura opposti: la legislazione a tutela del
minore, per esempio, si cura di ribadire in più parti il diritto del minore
stessa ad una «sistemazione familiare» opportuna, mentre, sul versante
opposto, la legge quadro sull'handicap non menziona in nessuna delle sue parti
il diritto di cui il soggetto handicappato è portatore. La situazione attuale
segnala, secondo Santanera, l'emergere di un problema particolarmente grave
rispetto alla condizione dei non autosufficienti, anziani e non, rispetto ai
quali si conferma una prassi sostanzialmente istituzionalizzante, lesiva dei
diritti loro propri. Secondo Santanera, di fronte a questa situazione, te
associazioni di volontariato che intendono collocarsi sul fronte della tutela
dei diritti non possono che assumere una posizione alternativa rispetto alle
istituzioni: in questa direzione si è collocato, per esempio, l'ottenimento da
parte del CSA della possibilità di compiere visite di controllo nelle strutture
pubbliche. Santanera è, inoltre, entrato sul merito del dibattito relativo al
varo della legge quadro sull'assistenza. In realtà, secondo Santanera, tale
legge, seppure mai formalizzata, si è in effetti affermata attraverso atti
legislativi di vario genere, nel paese. Tra essi il decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 1985 che di fatto ha trasferito la competenza
relativa agli anziani cronici non autosufficienti dal settore sanitario a
quello socio-assistenziale, ledendo palesamente, in questo modo, il diritto
alla cura proprio di ogni cittadino. Arretramenti sono visibili, secondo Santanera,
nella tutela dei portatori di handicap intellettivi gravi, nella non
applicazione della legge sul collocamento obbligatorio e nel pericolo
dell'affermarsi delle RSA come «soluzione» istituzionalizzante per questi e
altri soggetti deboli. «Piuttosto che
fermarsi - ha concluso Santanera - ad
affermazioni teoriche, come quelle relative al varo della legge quadro
sull'assistenza; andrebbe rivolta ben maggiore attenzione al problema pratico
della negazione di fatto dei diritti dei cittadini più deboli».
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