Specchio nero
IL DOWN: UN SOTTOUOMO?
Ci risiamo. Una notizia di cronaca (il caso di una
coppia di Rovereto che decide di «non riconoscere» il proprio figlio Down) non
diventa occasione per gli organi di stampa per approfondire i problemi
dell'handicap e, in specifico, delle famiglie che vivono una intera esistenza
accanto ad un congiunto handicappato intellettivo, ma resta un pretesto per
una informazione-spettacolo, dove ogni responsabilità viene cercata sempre
nell'atteggiamento dei singoli e dove ogni caso non è mai ricondotto ad un
discorso sociale superando quello solo personale e familiare.
C'è di più. Spesso, sono proprio certi «intellettuali»
- i «tuttologi» che dalle pagine dei mass-media sentenziano giorno per giorno
sui temi più disparati e quanto mai lontani fra loro; come mai faranno a darsi
questa cultura enciclopedica? - a rafforzare gli stereotipi o a limitarsi a
riprenderli senza confutarli.
Ferdinando Camon, sulle pagine de «La Stampa», ha
commentato l'8 novembre scorso proprio il caso del bimbo Down di Rovereto, con
l'articolo che riportiamo per intero a documentazione dei lettori (1).
Purtroppo, non si tratta di un atteggiamento isolato
nel panorama dell'intellighentia italiana. Nell'83, Carlo Bo, uno dei
principali esponenti della nostra cultura umanistica, ha commentato sul
«Corriere della Sera» una sentenza del Tribunale civile di Milano con la quale
si è stabilito che le aziende sono obbligate a assumere hand-icappati
psichici (Cfr.: Prospettive assistenziali,
n. 64, ottobre-dicembre 1983, pp. 70-71), scrivendo fra l'altro: «Non si discute la sentenza (...). Ciò che
invece non possiamo nascondere è la questione che ci investe direttamente, mettendoci
al posto non tanto del datore di lavoro quanto di quello degli eventuali
compagni di lavoro, chiamati ad una prova alla quale la società certo non li
ha preparati né educati. Che cosa faremmo noi se ci trovassimo in una
situazione del genere? (...). Penso che prima di dire: sì, sono disposto alla
prova, molti di noi si troverebbero in grave imbarazzo, soprattutto perché non
riusciamo a immaginare neppure il grado e il peso della prova, mentre abbiamo
ben presente quanto sia già difficile la convivenza fra normali» (sic!).
Più di vent'anni fa, veniva pubblicato il libro di Nigel
Hunt, tradotto in italiano solo nel 1987 (cfr.: N. Hunt, Il mondo di Nigel Hunt, Edizioni Dehoniane, Bologna). Hunt è una
persona Down, un «mongoloide». Sino ad allora, nessuna persona Down aveva
scritto un libro. Hunt ha smentito così l'ideologia scientifica che faceva del
Down un incapace a raggiungere la simbolizzazione, un incapace a raggiungere la
scrittura e i numeri.
Proprio in quegli anni, un teologo scriveva sull’Osservatore
Romano (cfr.: L'Osservatore della
Domenica 26 gennaio 1969; l'intervento è di mons. Ferdinando Lambruschini)
un articolo a proposito della nascita di bambini handicappati, dicendo che era
moralmente lecito non ricorrere all'incubatrice nel caso di «prole anomala, ad
esempio mongoloide», ritenendo
eticamente ammissibile l'omissione di detta prestazione, anche nel caso in cui
l'omissione stessa determinasse la morte del bambino.
Oggi, nella comunità scientifica internazionale, il
Down non è più considerato «grave». Forse, alla nostrana intellighentia,
farebbe bene la lettura de «II mondo di Nigel Hunt».
(1) A Rovereto è nato un bambino Down
(ieri si diceva «mongoloide») e i genitori l'hanno rifiutato. Adesso avrà un
nome inventato dall'ufficiale dell'anagrafe e potrà essere adottato da
chiunque. I genitori non l'hanno rifiutato per ragioni economiche, ma
psicologiche e sociali. Che ci riguardano tutti. Vediamole.
Il bambino handicappato è visto come
il sottouomo del nostro tempo; in un tempo in cui la vita è una gara, questo
bambino nasce ed ha già perso. Ma c'è handicap ed handicap. L'handicap fisico
ha trovato mille rimedi, il bambino zoppo o cieco o monco non è fuori gara;
corre anche lui in una corsa a parte. Ma l'handicap intellettivo è una squalifica;
chi nasce con un blocco all'intelligenza non soltanto non vive la propria vita,
ma paralizza la vita di tutta la famiglia, genitori, fratelli. Il bambino Down
appare, e la vita dei tre-quattro famigliari si spegne di colpo.
La sua nascita è perciò l'opposto di
ciò che la madre si attendeva. Oggi la nascita non è più accolta come un fatto
naturale e misterioso, ma è guidata come un fatto culturale. Si sa che il
bambino nell'utero usa i sensi, prima il tatto (toccato con uno strumento sulla
bocca, la raggrinzisce fin dal terzo mese; toccato all'interno delle dita, le
piega per qualche secondo), poi il gusto (se si inietta dello zucchero nel
liquido amniotico, succhia, se si introduce una sostanza amara, serra le
labbra), poi l'udito (sente il battito cardiaco della madre, il suo respiro, i
rumori che si producono a un metro, un metro e mezzo da lei; se madre e padre
litigano ad alta voce, il suo cuore accelera; è stato scritto che il bambino
sta nell'utero come un adulto in discoteca). L'uomo non lo sa (la paternità è
un'esperienza sciocca) ma la donna lo intuisce fin da bambina: la maternità è
un'esperienza fondante per la sua esistenza, per la simbiosi tra madre e figlio
quando il figlio è nell'utero. Ogni madre sogna di partorire un bambino ideale,
un bambino eccezionale, un bambino genio. In quei contatti prenatali, in cui
lei gli trasmette zuccheri, sali, emozioni, messaggi, si rafforza l'attesa per
il grande momento in cui il super bambino apparirà, e la vita dei genitori farà
un balzo: ed ecco, alla coppia di Rovereto, uscire un sotto-uomo, e la loro
vita venire inabissata. Non hanno accettato, non ce l'han fatta. Fino a ieri
(pochi anni fa) la vita era ancora un miracolo, oggi il miracolo è la vitalità:
la vita non vitale, non dominante, è un male. Lo pensano i genitori, molti. F
non per egoismo: ci sono genitori che, se sanno che il figlio che partoriranno
li odierà e li ucciderà, non per questo abortiscono, ma se sanno che starà
male, soffrirà a dismisura, odierà se stesso e si ucciderà, allora si, allora
sono pronti ad abortire. È il caso di Rovereto? Sì: il rifiuto del bambino
appena nato è in sostanza un aborto postumo. Nella scienza del parto si parla
da tempo di due gravidanze, una interna (nove mesi) e una esterna (altri nove,
fino allo svezzamento: il bambino dovrebbe stare continuamente attaccato e
appoggiato al corpo materno): il bambino veramente accettato, veramente nato, è
solo quello che le ha avute tutt'e due. Il bambino di Rovereto è stato abbandonato
prima della seconda. Disconoscendolo, i genitori g11 dicono: «Non sappiamo chi
sei, non sei nostro figlio».
Ma è una
soluzione, il disconoscimento? No di certo. È giusto che di questi casi si
occupi la società, ma non è giusto che la coppia sparisca e si nasconda: il
bambino dovrebbe sempre poterla trovare. È la sua origine. II male che è in
questa origine non è un errore della coppia, ma della natura: e la lotta contro
la natura non è un compito dell'individuo, ma dell'umanità.
Ferdinando Camon
www.fondazionepromozionesociale.it