Prospettive assistenziali, n. 97, gennaio-marzo 1992

 

 

I PARERI DEI PROF. RESCIGNO E DOGLIOTTI IN MERITO ALLA VICENDA DEL FATEBENEFRATELLI DI VENEZIA

 

 

Nell'articolo “Il Fatebenefratelli di Venezia viola il diritto alle cure di una anziana cronica non autosufficiente: la magistratura non processa l'ente ma i familiari”; apparso sul n. 95, luglio-settembre 1991 di Prospettive assistenziali, dopo aver dettagliatamente descritto l'allucinante svolgimento dei fatti, sottolineavamo il pericolo che una sentenza di condanna dei figli, accusati di abbandono di incapace per non aver accettato le dimissioni della loro madre malata, avrebbe si­gnificato trasferire di fatto dal Servizio sanitario nazionale ai congiunti la competenza in materia di cure agli anziani cronici non autosufficienti.

Di fronte a questo gravissimo pericolo, riteniamo utile riportare integralmente le considerazioni svolte dai Professori Pietro Rescigno e Massimo Dogliotti.

 

 

Parere del Prof. Pietro Rescigno (*)

 

Esprimo il mio parere sulle premesse civilisti­che di alcuni comportamenti delle amministra­zioni pubbliche (comuni, unità sanitarie locali, ospedali) e di taluni indirizzi dell'autorità giudi­ziaria. Si tratta di problemi relativi al trattamento degli anziani cronici non autosufficienti, e cioè di una materia su cui è stata più volte sollecitata la riflessione degli studiosi e degli operatori ma ancora si attendono adeguate risposte, ed in­nanzitutto una più attenta comprensione del fe­nomeno nei termini di gravità e di urgenza che lo connotano.

Si sono verificati casi estremi di rinvio a giudi­zio di congiunti di anziani cronici non autosuffi­cienti. Nella specie che ha sollecitato queste considerazioni risultano incriminati i figli di una donna quasi novantenne (cronica non autosuffi­ciente) dimessa dall'ospedale per essersi esau­rita la terapia medica che aveva giustificato il ri­covero; i figli sono persone in età avanzata, che versano in condizioni di salute, di possibilità economiche, organizzazione domestica del tutto inidonee ad assicurare alla madre l'accoglienza ed un minimo di sostentamento e di cure. Nel ri­fiuto dì ricevere, nelle condizioni descritte ed accertate, la madre dimessa dall'ospedale viene ravvisata l'ipotesi criminosa dell'abbandono di persona incapace (art. 591 c.p.).

Sul piano civilistico, per le spese di degenza che si protragga al di là della stretta terapia e che non sono sopportate dalle unità sanitarie, si fa valere nei confronti del coniuge e dei parenti (in primo luogo dei figli) la pretesa di rimborso (senza nemmeno passare per una preventiva ri­chiesta al soggetto ricoverato, ancorché si tratti di persona maggiore di età e non interdetta né inabilitata). Sempre nell'ambito di obbligazioni e responsabilità di natura privatistica da alcune amministrazioni viene chiesta ed ottenuta, all'at­to del ricovero, una dichiarazione con cui uno o più congiunti si impegnano a sopportare l'onere del ricovero che eventualmente abbia a conti­nuare dopo l'esaurirsi del trattamento curativo inteso nel senso più ristretto del termine.

L'incriminazione penale, l'azione civile, la pressione esercitata per ottenere il preventivo accollo del debito futuro muovono da un comu­ne presupposto, essendo tenuti i congiunti (ed i figli in particolare) alla cura, e doversi questa in­tendere nel significato più largo, nei confronti della persona ricoverata. Secondo la norma del codice penale relativa all'abbandono di incapa­ce (art. 591, comma 1), perché la responsabilità possa configurarsi, deve aversi abbandono da parte di chi, nei confronti della persona incapa­ce di provvedere a se stessa per malattia o vec­chiaia o altra causa, «abbia la custodia o debba avere cura». Per l'esistenza di siffatti doveri si argomenta da norme ed istituti del codice civile che, esattamente interpretati nelle singole previ­sioni e secondo criteri di coerenza sistematica, non giustificano la costruzione dell'obbligo invo­cato, con le conseguenze che se ne fanno di­scendere.

Il richiamo delle norme che impongono doveri (nella forma di obblighi, obbligazioni, oneri) a carico dei soggetti della comunità familiare vie­ne operato in più direzioni: viene indicato il ge­nerale dovere del figlio di «contribuire, in rela­zione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa» (art. 315); si fa menzione del regime dell'impresa familiare e del diritto al manteni­mento che spetta a chi «presta in modo conti­nuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare» (art. 230 bis, comma 1); si fa soprattutto rinvio alla disciplina degli alimenti (art. 433 ss.), a cominciare dall'elenco delle per­sone che sono obbligate a prestarli.

Non occorre un lungo discorso per mettere in luce che è del tutto non pertinente richiamarsi al dovere di contribuzione al mantenimento della famiglia, posto a carico del figlio in una norma (l'art. 315) che si colloca (come risulta dal titolo, "della potestà dei genitori") nell'ambito dei do­veri corrispettivi al diritto al mantenimento spet­tante al figlio minore (ed altresì al figlio che, pur dopo il compimento della maggiore età, non ab­bia conseguito l'autonomia economica e convi­va con la famiglia). Secondo la formula antica dell'art. 315 rimane avulso dal profilo della mi­nore età e dalla soggezione alla potestà dei ge­nitori il solo dovere di rispettare i genitori, ma nel contenuto eminentemente morale di una siffatta prescrizione certamente non rientrano le obbli­gazioni di carattere patrimoniale su cui si basa­no la pretesa civile e l'incriminazione penale.

Parimenti estranea al tema in esame è la di­sciplina dell'impresa familiare e del più ristretto e ricorrente fenomeno del lavoro nella famiglia. La collaborazione domestica che sia stata pre­stata dalla vecchia madre, anche nella casa e non già in una azienda organizzata e condotta nell'ambito della famiglia, non è titolo per le pre­tese che l'amministrazione (ospedaliera, sanita­ria, comunale) fa valere, con tutta evidenza, in surrogatoria rispetto al soggetto "creditore" del mantenimento.

Una più seria verifica richiede il discorso im­postato sull'obbligo degli alimenti, in una sfera di rapporti - quali sono le relazioni tra la madre novantenne ed i figli anziani - in cui senza dub­bio non è a parlarsi di doveri (unilaterali o reci­proci) di mantenimento. Ma anche dell'obbliga­zione alimentare, che certamente copre un'area più vasta relativamente ai soggetti debitori ed ai beneficiari, mancano sicuramente i presupposti per riconoscerne la legittimità e la fondatezza dell'esercizio, nei termini in cui l'obbligazione stessa viene invocata e posta alla base delle do­mande civili. La mancanza dell'obbligazione porta altresì a ritenere che l'accollo, mediante dichiarazione negoziale, delle spese di degenza sia impugnabile per l'erronea rappresentazione del soggetto dichiarante circa l'esistenza di un obbligo legale ad assumersi il debito. Alla falsa rappresentazione persone culturalmente non provvedute vengono indotte, in concreto, dalle pressioni degli uffici amministrativi esercitate in una situazione, quella del ricovero di persona bisognosa di immediata assistenza, che non consente libere scelte.

Limitando il discorso agli aspetti comuni ad ogni ipotesi di obbligo degli alimenti ed in parti­colare al rapporto genitori-figli, è sufficiente ri­cordare, dal regime degli artt. 433 segg., i punti relativi alla misura, al modo di somministrazione, ai limiti di azionabilità.

Circa la misura, costituiscono criteri di deter­minazione il bisogno dell'alimentando e le con­dizioni economiche di chi deve somministrarli (art. 438, comma 2): una imposizione come quella a cui si vuole pervenire, che prescinde dalle condizioni economiche del soggetto obbli­gato e tiene conto esclusivamente (e senza indi­cazione di limiti) delle pretese creditorie di un terzo, contrasta con la ragione storica e con la positiva disciplina dell'istituto.

Quanto al modo di somministrare gli alimenti, nel sistema l'obbligo chiaramente si configura come avente ad oggetto la prestazione periodi­ca di somme a titolo di assegno alimentare, mentre la possibilità di accogliere e mantenere nella propria casa chi vi abbia diritto costituisce, secondo un antico e consolidato insegnamento della giurisprudenza e della dottrina, mera facol­tà rimessa alla volontaria scelta dell'obbligato. La pretesa che il soggetto tenuto agli alimenti accolga l'alimentando nella sua casa e la con­seguenza che se ne vuol trarre, nel rifiuto ogget­tivamente fondato di riceverlo ravvisando l'ab­bandono di persona incapace di provvedere a se stessa, operano un'arbitraria ed inammissibi­le conversione di un'obbligazione semplice con facoltà alternativa in obbligazione alternativa in cui la scelta sarebbe per giunta rimessa ad un terzo (l'amministrazione pubblica o l'unità sani­taria o l'ospedale) non preventivamente identifi­cato. Nel sistema dell'art. 443 solamente all'au­torità giudiziaria è riconosciuto un eccezionale potere di decisione circa il modo della sommini­strazione con riguardo alle circostanze del caso.

Risultano infine violati i principi relativi all'esercizio del diritto, che è strettamente per­sonate, suscettibile di cessione e di compensa­zione (art. 447), e perciò compreso nell'ambito dei diritti e delle azioni che «non possono essere esercitati se non dal loro titolare» (art. 2900). Di cui l'estraneità all'ambito dell'azione surrogato­ria alla quale finisce per appartenere la richiesta delle amministrazioni creditrici indirizzata ai figli nella loro qualità di debitori degli alimenti; pari­menti, l'obbligo non può costituire materia di preventivo accollo verso terzi, in quanto even­tuali creditori futuri. I caratteri descritti risultano confermati dall'esigenza della domanda giudi­ziale o dalla costituzione in mora, oltre che dalla decorrenza e dalla durata dell'obbligo (art. 445).

In conclusione, appaiono infondate le pre­messe civilistiche delle pretese, quali vengono avanzate nei confronti dei congiunti di anziani cronici non autosufficienti dimessi al termine della terapia medica (e ciò a prescindere dalla dubbia legittimità di una interpretazione dell'ob­bligo di ricovero ed assistenza nei termini re­strittivi che vengono adottati). Infondate sono al­tresì le premesse della responsabilità penale per abbandono di incapace, che presuppone doveri di cura e di custodia che nella specie, per quanto si è rilevato, non sussistono (e del dove­re di custodia è appena necessario aggiungere che esso non può sussistere nei confronti di persona maggiore di età, che non sia stata pri­vata o limitata nella capacità legale di agire).

Quanto all'assunzione convenzionale dell'ob­bligo può seriamente contestarsi la validità di di­chiarazioni negoziali emesse, sotto la pressione della necessità e su moduli prefabbricati dall'autorità che le riceve, in base alla falsa rap­presentazione dell'esistenza di un dovere impo­sto dalla legge. In termini di apprezzamento poli­tico delle vicende denunciate sia consentito infi­ne stigmatizzare l'evidente tentativo di compen­sare o di correggere, con arbitraria costruzione di obbligazioni civili a carico di soggetti privati, le inefficienze e l'inidoneità del sistema pubblico dell'assistenza.

 

 

Parere del Prof. Massimo Dogliotti (**)

 

1.  L'art. 32 cost. indica nella salute «un fon­damentale diritto dell'individuo» prima ancora che un «interesse della collettività» e precisa che sono garantite cure gratuite agli indigenti. Un fondamentale diritto dì tutti gli individui (e non soltanto dei cittadini) «senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni generali e sociali» (art. 3 comma 1 cost.), e tra le condizioni personali rientra sicu­ramente anche l'età. Poveri, ricchi, giovani, vec­chi, soggetti inseriti nel sistema produttivo ed al­tri che non vi sono ancora o non vi sono più: tutti hanno il medesimo diritto alla salute, ad essere curati quando siano in stato di malattia fino al completo ristabilimento, ovvero, quando ciò non sia possibile, per contrastare gli effetti progres­sivi della malattia stessa, stabilizzando la situa­zione e magari ottenendo qualche limitato an­corché effimero miglioramento o magari, nella fase terminale, alleviando nel paziente le più gravi sofferenze. È indubbio in tal senso che spetti all'organizzazione sanitaria (il sistema sa­nitario nazionale) fornire tali prestazioni dal con­tenuto, come si è visto, variamente diversificato.

Queste affermazioni trovano sicuro riscontro, non soltanto nei principi costituzionali testé ri­cordati, ma pure nella legislazione ordinaria. Si pensi in tal senso all'art. 3 legge 4 agosto 1955 n. 692, per cui l'assistenza di malattia spettava ai pensionati di invalidità e vecchiaia «senza li­miti di durata nei casi di malattia specifica della vecchiaia». Un successivo decreto del Ministro del lavoro del 28 dicembre 1956 enumerava tali «malattie specifiche della vecchiaia», ribadendo che le relative manifestazioni morbose erano assistibili senza limiti di durata, con interventi ambulatoriali o domiciliari, ma pure con ricoveri ospedalieri. Più recentemente la legge ospeda­liera (legge 12 febbraio 1968 n. 132), precisa all'art. 29, che le Regioni devono programmare ì propri interventi nel settore ospedaliero, preve­dendo il fabbisogno di posti-letto «distinti per acuti, cronici, convalescenti, lungodegenti», nonché, all'art. 41, che le ammissioni e dimissio­ni in ospedale si ispirano al principio «dell'obbli­gatorietà del ricovero nel caso in cui ne sia ac­certata la necessità», senza alcun riferimento all'andamento della malattia e in particolare alla sua fase acuta, ciò che invece, nella prassi e se­condo una certa cultura medica e non medica, è l'unico elemento giustificante il ricovero ospe­daliero. Va infine ricordata la stessa legge istitu­tiva del servizio sanitario nazionale: l'art. 2 legge n. 833 del 1978 chiarisce che a tutti i cittadini debbono essere assicurate «diagnosi e cura de­gli eventi morbosi, quali ne siano le cause, la fe­nomenologia, la durata».

2.  La risposta del servizio sanitario alle esi­genze del malato dovrebbe essere dunque fles­sibile ed articolata: il ricovero ospedaliero non necessariamente limitato alla fase acuta della malattia (che senso avrebbe allora parlare di re­parti per lungodegenti?) ma anche assistenza ambulatoriale, domiciliare, residenziale (case protette, residenze sanitarie-assistenziali, ecc.). È evidente che, trattandosi di soggetti "malati" (e si pensi in particolare agli anziani cronici non autosufficienti) le prestazioni dovrebbero essere fornite interamente dal servizio sanitario, senza differenza alcuna tra trattamento ospedaliero, ambulatoriale, residenziale o domiciliare.

La realtà è sempre stata diversa, ma - si do­vrebbe aggiungere - si tratta di prassi assoluta­mente illegittime, in palese contrasto con i prin­cipi costituzionali e la legislazione ordinaria. Su­perata la fase acuta, il paziente viene dimesso dall'ospedale e talora (nella migliore delle ipote­si, se egli è molto... fortunato) viene inserito in una "casa protetta". Ma qui cominciano le sor­prese. Tali istituzioni non appartengono (come dovrebbero) al sistema sanitario, ma a quello socio-assistenziale, con conseguenze notevo­lissime: per esse non si richiedono abilitazioni o titoli specifici, non sono previsti mansionari, non sono definiti standard minimi, non si richiedono particolari licenze, se non (sic!) quella alber­ghiera; e infine agli utenti viene richiesto un contributo personale frequentemente esteso ai familiari. Così gli anziani cronici non autosuffi­cienti, evidentemente troppo ingombranti e co­stosi per il sistema sanitario, vengono cancellati con un tratto di penna come malati e "scaricati" nel settore assistenziale. Da sempre è accaduto così. E si muove in questa logica pure il decreto del Capo del governo 8 agosto 1985 (noto come decreto Craxi) che "inventa" le attività socio-as­sistenziali di rilievo sanitario, e tra esse in parti­colare la «cura degli anziani, limitatamente agli stati morbosi non curabili a domicilio»: con un'evidente contraddizione in termini, anche lessicale, tra "stati morbosi" (e dunque malattie) e "attività socio-assistenziali", seppur di rilievo sanitario. Spetta alle Regioni distinguere il profi­lo sanitario da quello assistenziale (il primo sa­rebbe a carico del Fondo sanitario nazionale) e, ove ciò non sia possibile, stabilire forfettaria­mente il carico del Fondo e quello degli enti te­nuti all'assistenza sociale (soprattutto i Comuni) «con eventuale partecipazione dei cittadini».

3.  Qui corre l'obbligo di una precisazione: in Italia le prestazioni sanitarie sono gratuite (salvo il contributo del ticket, che però è limitato ad al­cune soltanto delle prestazioni, esclusa quella ospedaliera) o meglio sono finanziate a monte dal prelievo fiscale.

Nulla vieterebbe che con legge ordinaria (l'art. 32 Cost. precisa soltanto che «le cure sono gra­tuite per gli indigenti») si stabilisse un contributo più generalizzato dell'utente (ad es. la spesa "al­berghiera" dell'ospedale) ma esso dovrebbe ri­guardare tutte le prestazioni e tutti i soggetti e non, come adesso, alcune prestazioni ed alcuni soggetti (i più deboli: non a caso il decreto Craxi sopra ricordato si riferisce, oltre agli anziani, agli handicappati, ai malati di mente, ai tossicodi­pendenti). E invece nella situazione attuale sono proprio i soggetti più deboli ed emarginati... gli unici a pagare la spesa sanitaria.

Si è detto che, pur con queste contraddizioni e strozzature, gli anziani cronici non autosuffi­cienti sono ricoverati «nella migliore delle ipote­si» nelle case protette. Quale l'alternativa? Dopo le dimissioni dall'ospedale è possibile che il soggetto venga rifiutato da tali istituzioni: l'am­missione è infatti accordata, dopo inchieste as­sai lunghe, in genere da commissioni costituite dai Comuni (frequentemente prive di ogni legitti­mazione normativa) senza garanzia alcuna di parità di trattamento.

Ma se il soggetto è "malato" e non gli viene fornita una prestazione adeguata (anzi non gli viene fornita prestazione alcuna)? L'ospedale l'ha dimesso, la casa protetta non l'ha accolto: potrebbe ascriversi in capo ai dirigenti respon­sabili il reato di abbandono (art. 591 c.p.) per cui chiunque abbandona una persona incapace per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o altra cosa di provvedere a se stessa e della quale abbia la custodia o debba avere la cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni? Se talora denunce sono state presentate (ad es. nei confronti del direttore sanitario o del primario del reparto o magari del responsabile dell'USL che non è intervenuto tempestivamen­te) non risulta che si sia mai giunti a una condanna. Al contrario preoccupa non poco che in questi ultimi tempi sia stata prospet­tata una possibile responsabilità penale, con conseguente rinvio a giudizio (anche se non pa­re che si sia finora, anche in tal caso, giunti a condanna) per i parenti del malato, che non l'abbiano ritirato dall'ospedale da cui è stato di­messo.

4. Tutto ciò ha l'amaro sapore di una beffa: lo Stato non è in grado di fornire prestazioni adeguate ai malati (violando norme costituzio­nali od ordinarie) e quello stesso Stato colpisce invece i parenti del malato, rei di non sopperire alle manchevolezze e alle carenze delle struttu­re pubbliche, con il proprio impegno personale e con il proprio denaro. Non si vuol certo inco­raggiare i familiari a violare gli obblighi di solida­rietà verso il parente, che sono morali, prima an­cora che giuridici; ma la tutela della salute è compito primario dello Stato che non può esse­re assolutamente delegato alla (o meglio scari­cato sulla) famiglia, la quale talora non ha i mez­zi economici e sicuramente non le capacità per intervenire in supplenza.

Del resto non può ritenersi coincidente l'obbli­go di custodia e cura indicato dall'art. 591 c.p. con l'obbligo alimentare previsto dall'art. 433 c.c. (e che consiste nella prestazione dello stret­to necessario per mantenere in vita il soggetto) cui sono tenuti nell'ordine il coniuge, i figli legitti­mi, naturali, adottivi, o in mancanza gli ascen­denti prossimi, i generi e le nuore, i suoceri e le suocere, i fratelli. E anche se così fosse andreb­be precisato che l'art. 443 c.c. si limita ad attri­buire una «facoltà» (e non l'obbligo) dì accoglie­re e mantenere nella propria casa l'avente diritto da parte dell'obbligato, che può invece sceglie­re (ed è il modo più frequente di somministrazio­ne) di versare un assegno.

Ma soprattutto va chiarito - anche se parreb­be constatazione ovvia, ma evidentemente non è così - che obbligazione alimentare e prestazio­ne assistenziale (e a maggior ragione sanitaria) sono del tutto differenti, l'una privatistica (rap­porto privato tra l'avente diritto e il parente ob­bligato nel senso che spetta al primo e solo ad esso la scelta discrezionale di agire nei con­fronti del secondo) l'altra pubblica: sanità ed as­sistenza sono funzioni fondamentali dello Stato moderno (spetta in tal senso al sistema sanitario individuare le forme più appropriate di presta­zione, non certo delegabili alla famiglia e ai pa­renti). Eppure la cultura efficientistica, che si va diffondendo in questi anni, sembra ritenere il contrario: si ammanta di falsa modernità e inve­ce riporta la società indietro di decenni.

 

 

(*) Ordinario di Diritto civile dell'Università di Roma.

(**) Docente all'Università della Calabria e Magistrato del Tribunale di Genova. L'articolo che riproduciamo è in cor­so di pubblicazione su Giurisprudenza di merito con il titolo "Ancora sugli anziani cronici non autosufficienti. Sono im­putabili i parenti o i responsabili delle strutture sanitarie?".

 

 

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