I PARERI
DEI PROF. RESCIGNO E DOGLIOTTI IN MERITO ALLA VICENDA DEL FATEBENEFRATELLI DI
VENEZIA
Nell'articolo “Il Fatebenefratelli di Venezia viola il diritto alle cure
di una anziana cronica non autosufficiente: la magistratura non processa
l'ente ma i familiari”; apparso sul n. 95, luglio-settembre 1991 di Prospettive assistenziali, dopo aver dettagliatamente descritto
l'allucinante svolgimento dei fatti, sottolineavamo il pericolo che una
sentenza di condanna dei figli, accusati di abbandono di incapace per non aver
accettato le dimissioni della loro madre malata, avrebbe significato
trasferire di fatto dal Servizio sanitario nazionale ai congiunti la competenza
in materia di cure agli anziani cronici non autosufficienti.
Di fronte a questo gravissimo pericolo, riteniamo utile riportare
integralmente le considerazioni svolte dai Professori Pietro Rescigno e Massimo
Dogliotti.
Parere del Prof. Pietro Rescigno
(*)
Esprimo il mio parere sulle
premesse civilistiche di alcuni comportamenti delle amministrazioni pubbliche
(comuni, unità sanitarie locali, ospedali) e di taluni indirizzi dell'autorità
giudiziaria. Si tratta di problemi relativi al trattamento degli anziani
cronici non autosufficienti, e cioè di una materia su cui è stata più volte
sollecitata la riflessione degli studiosi e degli operatori ma ancora si
attendono adeguate risposte, ed innanzitutto una più attenta comprensione del
fenomeno nei termini di gravità e di urgenza che lo connotano.
Si sono verificati casi estremi
di rinvio a giudizio di congiunti di anziani cronici non autosufficienti.
Nella specie che ha sollecitato queste considerazioni risultano incriminati i
figli di una donna quasi novantenne (cronica non autosufficiente) dimessa
dall'ospedale per essersi esaurita la terapia medica che aveva giustificato il
ricovero; i figli sono persone in età avanzata, che versano in condizioni di
salute, di possibilità economiche, organizzazione domestica del tutto inidonee
ad assicurare alla madre l'accoglienza ed un minimo di sostentamento e di cure.
Nel rifiuto dì ricevere, nelle condizioni descritte ed accertate, la madre
dimessa dall'ospedale viene ravvisata l'ipotesi criminosa dell'abbandono di
persona incapace (art. 591 c.p.).
Sul piano civilistico, per le
spese di degenza che si protragga al di là della stretta terapia e che non sono
sopportate dalle unità sanitarie, si fa valere nei confronti del coniuge e dei
parenti (in primo luogo dei figli) la pretesa di rimborso (senza nemmeno
passare per una preventiva richiesta al soggetto ricoverato, ancorché si
tratti di persona maggiore di età e non interdetta né inabilitata). Sempre
nell'ambito di obbligazioni e responsabilità di natura privatistica da alcune
amministrazioni viene chiesta ed ottenuta, all'atto del ricovero, una dichiarazione
con cui uno o più congiunti si impegnano a sopportare l'onere del ricovero che
eventualmente abbia a continuare dopo l'esaurirsi del trattamento curativo
inteso nel senso più ristretto del termine.
L'incriminazione penale,
l'azione civile, la pressione esercitata per ottenere il preventivo accollo del
debito futuro muovono da un comune presupposto, essendo tenuti i congiunti (ed
i figli in particolare) alla cura, e doversi questa intendere nel significato
più largo, nei confronti della persona ricoverata. Secondo la norma del codice
penale relativa all'abbandono di incapace (art. 591, comma 1), perché la
responsabilità possa configurarsi, deve aversi abbandono da parte di chi, nei
confronti della persona incapace di provvedere a se stessa per malattia o vecchiaia
o altra causa, «abbia la custodia o debba avere cura». Per l'esistenza di
siffatti doveri si argomenta da norme ed istituti del codice civile che,
esattamente interpretati nelle singole previsioni e secondo criteri di
coerenza sistematica, non giustificano la costruzione dell'obbligo invocato,
con le conseguenze che se ne fanno discendere.
Il richiamo delle norme che
impongono doveri (nella forma di obblighi, obbligazioni, oneri) a carico dei
soggetti della comunità familiare viene operato in più direzioni: viene
indicato il generale dovere del figlio di «contribuire, in relazione alle
proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché
convive con essa» (art. 315); si fa menzione del regime dell'impresa familiare
e del diritto al mantenimento che spetta a chi «presta in modo continuativo
la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare» (art. 230
bis, comma 1); si fa soprattutto rinvio alla disciplina degli alimenti (art.
433 ss.), a cominciare dall'elenco delle persone che sono obbligate a
prestarli.
Non occorre un lungo discorso
per mettere in luce che è del tutto non pertinente richiamarsi al dovere di
contribuzione al mantenimento della famiglia, posto a carico del figlio in una
norma (l'art. 315) che si colloca (come risulta dal titolo, "della potestà
dei genitori") nell'ambito dei doveri corrispettivi al diritto al
mantenimento spettante al figlio minore (ed altresì al figlio che, pur dopo il
compimento della maggiore età, non abbia conseguito l'autonomia economica e
conviva con la famiglia). Secondo la formula antica dell'art. 315 rimane
avulso dal profilo della minore età e dalla soggezione alla potestà dei genitori
il solo dovere di rispettare i genitori, ma nel contenuto eminentemente morale
di una siffatta prescrizione certamente non rientrano le obbligazioni di
carattere patrimoniale su cui si basano la pretesa civile e l'incriminazione
penale.
Parimenti estranea al tema in
esame è la disciplina dell'impresa familiare e del più ristretto e ricorrente
fenomeno del lavoro nella famiglia. La collaborazione domestica che sia stata
prestata dalla vecchia madre, anche nella casa e non già in una azienda
organizzata e condotta nell'ambito della famiglia, non è titolo per le pretese
che l'amministrazione (ospedaliera, sanitaria, comunale) fa valere, con tutta
evidenza, in surrogatoria rispetto al soggetto "creditore" del
mantenimento.
Una più seria verifica richiede
il discorso impostato sull'obbligo degli
alimenti, in una sfera di rapporti - quali sono le relazioni tra la madre
novantenne ed i figli anziani - in cui senza dubbio non è a parlarsi di doveri
(unilaterali o reciproci) di mantenimento. Ma anche dell'obbligazione
alimentare, che certamente copre un'area più vasta relativamente ai soggetti
debitori ed ai beneficiari, mancano sicuramente i presupposti per riconoscerne
la legittimità e la fondatezza dell'esercizio, nei termini in cui
l'obbligazione stessa viene invocata e posta alla base delle domande civili.
La mancanza dell'obbligazione porta altresì a ritenere che l'accollo, mediante
dichiarazione negoziale, delle spese di degenza sia impugnabile per l'erronea
rappresentazione del soggetto dichiarante circa l'esistenza di un obbligo
legale ad assumersi il debito. Alla falsa rappresentazione persone
culturalmente non provvedute vengono indotte, in concreto, dalle pressioni
degli uffici amministrativi esercitate in una situazione, quella del ricovero
di persona bisognosa di immediata assistenza, che non consente libere scelte.
Limitando il discorso agli
aspetti comuni ad ogni ipotesi di obbligo degli alimenti ed in particolare al
rapporto genitori-figli, è sufficiente ricordare, dal regime degli artt. 433
segg., i punti relativi alla misura, al modo di somministrazione, ai limiti di
azionabilità.
Circa la misura, costituiscono
criteri di determinazione il bisogno dell'alimentando e le condizioni
economiche di chi deve somministrarli (art. 438, comma 2): una imposizione come
quella a cui si vuole pervenire, che prescinde dalle condizioni economiche del
soggetto obbligato e tiene conto esclusivamente (e senza indicazione di
limiti) delle pretese creditorie di un terzo, contrasta con la ragione storica
e con la positiva disciplina dell'istituto.
Quanto al modo di somministrare
gli alimenti, nel sistema l'obbligo chiaramente si configura come avente ad
oggetto la prestazione periodica di somme a titolo di assegno alimentare,
mentre la possibilità di accogliere e mantenere nella propria casa chi vi abbia
diritto costituisce, secondo un antico e consolidato insegnamento della
giurisprudenza e della dottrina, mera facoltà rimessa alla volontaria scelta
dell'obbligato. La pretesa che il soggetto tenuto agli alimenti accolga
l'alimentando nella sua casa e la conseguenza che se ne vuol trarre, nel
rifiuto oggettivamente fondato di riceverlo ravvisando l'abbandono di persona
incapace di provvedere a se stessa, operano un'arbitraria ed inammissibile
conversione di un'obbligazione semplice con facoltà alternativa in obbligazione
alternativa in cui la scelta sarebbe per giunta rimessa ad un terzo
(l'amministrazione pubblica o l'unità sanitaria o l'ospedale) non
preventivamente identificato. Nel sistema dell'art. 443 solamente all'autorità
giudiziaria è riconosciuto un eccezionale potere di decisione circa il modo
della somministrazione con riguardo alle circostanze del caso.
Risultano infine violati i
principi relativi all'esercizio del diritto, che è strettamente personate,
suscettibile di cessione e di compensazione (art. 447), e perciò compreso
nell'ambito dei diritti e delle azioni che «non possono essere esercitati se
non dal loro titolare» (art. 2900). Di cui l'estraneità all'ambito dell'azione
surrogatoria alla quale finisce per appartenere la richiesta delle amministrazioni
creditrici indirizzata ai figli nella loro qualità di debitori degli alimenti;
parimenti, l'obbligo non può costituire materia di preventivo accollo verso
terzi, in quanto eventuali creditori futuri. I caratteri descritti risultano
confermati dall'esigenza della domanda giudiziale o dalla costituzione in
mora, oltre che dalla decorrenza e dalla durata dell'obbligo (art. 445).
In conclusione, appaiono
infondate le premesse civilistiche delle pretese, quali vengono avanzate nei
confronti dei congiunti di anziani cronici non autosufficienti dimessi al
termine della terapia medica (e ciò a prescindere dalla dubbia legittimità di
una interpretazione dell'obbligo di ricovero ed assistenza nei termini restrittivi
che vengono adottati). Infondate sono altresì le premesse della responsabilità
penale per abbandono di incapace, che presuppone doveri di cura e di custodia
che nella specie, per quanto si è rilevato, non sussistono (e del dovere di
custodia è appena necessario aggiungere che esso non può sussistere nei
confronti di persona maggiore di età, che non sia stata privata o limitata
nella capacità legale di agire).
Quanto all'assunzione
convenzionale dell'obbligo può seriamente contestarsi la validità di dichiarazioni
negoziali emesse, sotto la pressione della necessità e su moduli prefabbricati
dall'autorità che le riceve, in base alla falsa rappresentazione
dell'esistenza di un dovere imposto dalla legge. In termini di apprezzamento
politico delle vicende denunciate sia consentito infine stigmatizzare
l'evidente tentativo di compensare o di correggere, con arbitraria costruzione
di obbligazioni civili a carico di soggetti privati, le inefficienze e
l'inidoneità del sistema pubblico dell'assistenza.
Parere del Prof. Massimo Dogliotti
(**)
1. L'art. 32 cost. indica nella salute «un fondamentale
diritto dell'individuo» prima ancora che un «interesse della collettività» e
precisa che sono garantite cure gratuite agli indigenti. Un fondamentale
diritto dì tutti gli individui (e non soltanto dei cittadini) «senza
distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni
generali e sociali» (art. 3 comma 1 cost.), e tra le condizioni personali
rientra sicuramente anche l'età. Poveri, ricchi, giovani, vecchi, soggetti
inseriti nel sistema produttivo ed altri che non vi sono ancora o non vi sono
più: tutti hanno il medesimo diritto alla salute, ad essere curati quando siano
in stato di malattia fino al completo ristabilimento, ovvero, quando ciò non
sia possibile, per contrastare gli effetti progressivi della malattia stessa,
stabilizzando la situazione e magari ottenendo qualche limitato ancorché
effimero miglioramento o magari, nella fase terminale, alleviando nel paziente
le più gravi sofferenze. È indubbio in tal senso che spetti all'organizzazione
sanitaria (il sistema sanitario nazionale) fornire tali prestazioni dal contenuto,
come si è visto, variamente diversificato.
Queste affermazioni trovano
sicuro riscontro, non soltanto nei principi costituzionali testé ricordati, ma
pure nella legislazione ordinaria. Si pensi in tal senso all'art. 3 legge 4
agosto 1955 n. 692, per cui l'assistenza di malattia spettava ai pensionati di
invalidità e vecchiaia «senza limiti di durata nei casi di malattia specifica
della vecchiaia». Un successivo decreto del Ministro del lavoro del 28 dicembre
1956 enumerava tali «malattie specifiche della vecchiaia», ribadendo che le
relative manifestazioni morbose erano assistibili senza limiti di durata, con
interventi ambulatoriali o domiciliari, ma pure con ricoveri ospedalieri. Più
recentemente la legge ospedaliera (legge 12 febbraio 1968 n. 132), precisa
all'art. 29, che le Regioni devono programmare ì propri interventi nel settore
ospedaliero, prevedendo il fabbisogno di posti-letto «distinti per acuti,
cronici, convalescenti, lungodegenti», nonché, all'art. 41, che le ammissioni e
dimissioni in ospedale si ispirano al principio «dell'obbligatorietà del
ricovero nel caso in cui ne sia accertata la necessità», senza alcun riferimento
all'andamento della malattia e in particolare alla sua fase acuta, ciò che
invece, nella prassi e secondo una certa cultura medica e non medica, è
l'unico elemento giustificante il ricovero ospedaliero. Va infine ricordata la
stessa legge istitutiva del servizio sanitario nazionale: l'art. 2 legge n.
833 del 1978 chiarisce che a tutti i cittadini debbono essere assicurate
«diagnosi e cura degli eventi morbosi, quali ne siano le cause, la fenomenologia,
la durata».
2. La risposta del servizio sanitario alle esigenze
del malato dovrebbe essere dunque flessibile ed articolata: il ricovero
ospedaliero non necessariamente limitato alla fase acuta della malattia (che
senso avrebbe allora parlare di reparti per lungodegenti?) ma anche assistenza
ambulatoriale, domiciliare, residenziale (case protette, residenze
sanitarie-assistenziali, ecc.). È evidente che, trattandosi di soggetti
"malati" (e si pensi in particolare agli anziani cronici non
autosufficienti) le prestazioni dovrebbero essere fornite interamente dal
servizio sanitario, senza differenza alcuna tra trattamento ospedaliero,
ambulatoriale, residenziale o domiciliare.
La realtà è sempre stata
diversa, ma - si dovrebbe aggiungere - si tratta di prassi assolutamente
illegittime, in palese contrasto con i principi costituzionali e la
legislazione ordinaria. Superata la fase acuta, il paziente viene dimesso
dall'ospedale e talora (nella migliore delle ipotesi, se egli è molto...
fortunato) viene inserito in una "casa protetta". Ma qui cominciano
le sorprese. Tali istituzioni non appartengono (come dovrebbero) al sistema
sanitario, ma a quello socio-assistenziale, con conseguenze notevolissime: per
esse non si richiedono abilitazioni o titoli specifici, non sono previsti
mansionari, non sono definiti standard minimi, non si richiedono particolari
licenze, se non (sic!) quella alberghiera; e infine agli utenti viene
richiesto un contributo personale frequentemente esteso ai familiari. Così gli
anziani cronici non autosufficienti, evidentemente troppo ingombranti e costosi
per il sistema sanitario, vengono cancellati con un tratto di penna come malati
e "scaricati" nel settore assistenziale. Da sempre è accaduto così. E
si muove in questa logica pure il decreto del Capo del governo 8 agosto 1985
(noto come decreto Craxi) che "inventa" le attività socio-assistenziali
di rilievo sanitario, e tra esse in particolare la «cura degli anziani,
limitatamente agli stati morbosi non curabili a domicilio»: con un'evidente
contraddizione in termini, anche lessicale, tra "stati morbosi" (e
dunque malattie) e "attività socio-assistenziali", seppur di rilievo
sanitario. Spetta alle Regioni distinguere il profilo sanitario da quello
assistenziale (il primo sarebbe a carico del Fondo sanitario nazionale) e, ove
ciò non sia possibile, stabilire forfettariamente il carico del Fondo e quello
degli enti tenuti all'assistenza sociale (soprattutto i Comuni) «con eventuale
partecipazione dei cittadini».
3. Qui corre l'obbligo di una precisazione: in
Italia le prestazioni sanitarie sono gratuite (salvo il contributo del ticket,
che però è limitato ad alcune soltanto delle prestazioni, esclusa quella
ospedaliera) o meglio sono finanziate a monte dal prelievo fiscale.
Nulla vieterebbe che con legge
ordinaria (l'art. 32 Cost. precisa soltanto che «le cure sono gratuite per gli
indigenti») si stabilisse un contributo più generalizzato dell'utente (ad es.
la spesa "alberghiera" dell'ospedale) ma esso dovrebbe riguardare
tutte le prestazioni e tutti i soggetti e non, come adesso, alcune prestazioni
ed alcuni soggetti (i più deboli: non a caso il decreto Craxi sopra ricordato
si riferisce, oltre agli anziani, agli handicappati, ai malati di mente, ai
tossicodipendenti). E invece nella situazione attuale sono proprio i soggetti
più deboli ed emarginati... gli unici a pagare la spesa sanitaria.
Si è detto che, pur con queste
contraddizioni e strozzature, gli anziani cronici non autosufficienti sono
ricoverati «nella migliore delle ipotesi» nelle case protette. Quale l'alternativa?
Dopo le dimissioni dall'ospedale è possibile che il soggetto venga rifiutato da
tali istituzioni: l'ammissione è infatti accordata, dopo inchieste assai
lunghe, in genere da commissioni costituite dai Comuni (frequentemente prive di
ogni legittimazione normativa) senza garanzia alcuna di parità di trattamento.
Ma se il soggetto è
"malato" e non gli viene fornita una prestazione adeguata (anzi non
gli viene fornita prestazione alcuna)? L'ospedale l'ha dimesso, la casa
protetta non l'ha accolto: potrebbe ascriversi in capo ai dirigenti responsabili
il reato di abbandono (art. 591 c.p.) per cui chiunque abbandona una persona
incapace per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o altra cosa di
provvedere a se stessa e della quale abbia la custodia o debba avere la cura, è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni? Se talora denunce sono
state presentate (ad es. nei confronti del direttore sanitario o del primario
del reparto o magari del responsabile dell'USL che non è intervenuto tempestivamente)
non risulta che si sia mai giunti a una condanna. Al contrario preoccupa non
poco che in questi ultimi tempi sia stata prospettata una possibile
responsabilità penale, con conseguente rinvio a giudizio (anche se non pare
che si sia finora, anche in tal caso, giunti a condanna) per i parenti del
malato, che non l'abbiano ritirato dall'ospedale da cui è stato dimesso.
4. Tutto
ciò ha l'amaro sapore di una beffa: lo Stato non è in grado di fornire
prestazioni adeguate ai malati (violando norme costituzionali od ordinarie) e
quello stesso Stato colpisce invece i parenti del malato, rei di non sopperire
alle manchevolezze e alle carenze delle strutture pubbliche, con il proprio
impegno personale e con il proprio denaro. Non si vuol certo incoraggiare i
familiari a violare gli obblighi di solidarietà verso il parente, che sono
morali, prima ancora che giuridici; ma la tutela della salute è compito
primario dello Stato che non può essere assolutamente delegato alla (o meglio
scaricato sulla) famiglia, la quale talora non ha i mezzi economici e
sicuramente non le capacità per intervenire in supplenza.
Del resto non può ritenersi
coincidente l'obbligo di custodia e cura indicato dall'art. 591 c.p. con
l'obbligo alimentare previsto dall'art. 433 c.c. (e che consiste nella
prestazione dello stretto necessario per mantenere in vita il soggetto) cui
sono tenuti nell'ordine il coniuge, i figli legittimi, naturali, adottivi, o
in mancanza gli ascendenti prossimi, i generi e le nuore, i suoceri e le
suocere, i fratelli. E anche se così fosse andrebbe precisato che l'art. 443
c.c. si limita ad attribuire una «facoltà» (e non l'obbligo) dì accogliere e
mantenere nella propria casa l'avente diritto da parte dell'obbligato, che può
invece scegliere (ed è il modo più frequente di somministrazione) di versare
un assegno.
Ma soprattutto va chiarito -
anche se parrebbe constatazione ovvia, ma evidentemente non è così - che
obbligazione alimentare e prestazione assistenziale (e a maggior ragione sanitaria)
sono del tutto differenti, l'una privatistica (rapporto privato tra l'avente diritto e il parente obbligato
nel senso che spetta al primo e solo ad esso la scelta discrezionale di agire
nei confronti del secondo) l'altra pubblica: sanità ed assistenza sono
funzioni fondamentali dello Stato moderno (spetta in tal senso al sistema
sanitario individuare le forme più appropriate di prestazione, non certo
delegabili alla famiglia e ai parenti). Eppure la cultura efficientistica, che
si va diffondendo in questi anni, sembra ritenere il contrario: si ammanta di
falsa modernità e invece riporta la società indietro di decenni.
(*) Ordinario di Diritto civile
dell'Università di Roma.
(**) Docente all'Università della Calabria
e Magistrato del Tribunale di Genova. L'articolo che riproduciamo è in corso
di pubblicazione su Giurisprudenza di
merito con il titolo "Ancora sugli anziani cronici non
autosufficienti. Sono imputabili i parenti o i responsabili delle strutture
sanitarie?".
www.fondazionepromozionesociale.it