Notiziario del Centro italiano per l'adozione
internazionale
IL MERCATO DI BAMBINI
SALVADOREGNI E BRASILIANI ADOTTATI IN ITALIA: UN CASO DI "NON
GIUSTIZIA"
Con una requisitoria di alcune scarne paginette, il
4 febbraio 1991 il P.M. del Tribunale di Roma, dottor Martellino, ha deciso di
mettere la parola "fine" ad un'inchiesta giudiziaria protrattasi per
oltre due anni ed imbattutasi in un enorme "traffico" di bambini
salvadoregni e brasiliani adottati in Italia e che aveva coinvolto nove cittadini
italiani di età compresa tra i 74 ed i 34 anni.
I fatti parlano da soli. Spiega infatti il magistrato
nella sua motivazione che tra il 1984 ed il 1988 «migliaia di pratiche di adozione internazionale» di bambini
provenienti da El Salvador e da Salvador de Bahia erano state trattate da
"articolate organizzazioni" del tutto abusive (e cioè prive
dell'autorizzazione richiesta dall'articolo 38 della legge 5 maggio 1983 n.
184), operanti «per bassi e abietti fini speculativi» sia nei paesi
di cui sopra che in Italia e con esborsi medi, da parte degli adottanti, di
circa 20-25.000 dollari USA per pratica (pari, quindi, a circa 30 milioni di
lire italiane dell'epoca).
Soltanto il referente fisso in Salvador, l'avvocato
Pedro Garballo Alvarez, risulta aver intascato complessivamente la somma di
circa 4 milioni di dollari, corrispondenti ad oltre 5 miliardi di lire.
Naturalmente ogni singolo esborso era fatto passare come "rimborso per le
spese vive". L'avvocato Garballo si avvaleva della complicità di
un'impiegata del consolato italiano di San Salvador, certa Castro Maria, e le
pratiche gli venivano appoggiate da tale Strazzanti Liboria, da Barrafranca in
provincia di Enna, definita dal magistrato romano come "assistente sociale
privata" (non si sapeva, prima d'ora, dell'esistenza di una qualifica
professionale di questo genere).
Quanto alle adozioni di bambini provenienti da
Salvador de Bahia (Brasile), i minori erano procurati e concentrati sul posto
da un ex sacerdote di origine italiana, il tristemente famoso Di Nuzzo Luca,
che li ammassava in un vero e proprio "orfanatrofio-lager" ad
elevatissima mortalità, oppure da una traduttrice di lingua italiana
accreditata in esclusiva presso il nostro consolato (tale Galeffi Luigia,
titolare anche di una propria "fondazione" per l'adozione). Le coppie
italiane interessate all'adozione erano reclutate - previa corresponsione degli
immancabili "rimborsi spese" - da parenti e conoscenti del Di Nuzzo
(il padre Pasquale, la madre Piscitelli Vincenza, il fratello Clemente e la
cognata Pianura Rosanna, nonché tale Rizzo Nicola e tali coniugi Chiurco
Gianfilippo e Rapex Lorenzina: tutti abitanti nelle province di Napoli e di
Caserta). A sua volta, il Di Nuzzo agiva in combutta con un giudice di un
tribunale brasiliano (tale Machado Costa), poi destituito dall'incarico e
sottoposto con lui a processo penale dalle autorità giudiziarie di quello
Stato.
Tutte le pratiche di adozione trattate da queste
organizzazioni clandestine risultavano - spiega il magistrato - "formalmente
regolari", ma quasi sempre l'inusitata, incredibile rapidità dei
procedimenti e la sommarietà degli atti di affidamento provvisorio indicavano
che le stesse si erano in realtà svolte al di fuori di ogni legalità. In
particolare, nelle pratiche acquisite presso la rappresentanza diplomatica
italiana nel Salvador si accertava che gli atti di affidamento, le dichiarazioni
consolari di conformità ed i visti sui passaporti dei minori recavano
addirittura la stessa data e che inoltre in molti casi gli stessi provvedimenti
di affidamento emessi dalle autorità locali non erano conformi alla
legislazione dello Stato e pertanto non avrebbero potuto costituire titolo
valido per il rilascio del visto di ingresso in Italia dei minori (e,
aggiungiamo noi, non avrebbero assolutamente potuto essere dichiarati efficaci
in Italia dai competenti tribunali per i minorenni!).
Nonostante risultanze così drammatiche, il P.M.
romano si è dichiarato fermamente
convinto che le pratiche a lui sottoposte fossero tutte "formalmente
regolari", e che quindi tutti gli imputati fossero (così come è in effetti accaduto) da prosciogliere
da ogni accusa, in quanto a suo modo di vedere la colpa di tutto sarebbe da
ascrivere alle «carenze strutturali della disciplina delle adozioni», le quali
«lasciano purtroppo ampi spazi di manovra a questo tipo di attività», e non
puniscono - secondo lui - l'intermediazione a fine di lucro, ma soltanto
«l'introduzione in Italia di minori in violazione delle procedure stabilite
dalla legge sulle adozioni internazionali».
Ma è proprio su queste affermazioni che deve
esprimersi un totale dissenso. Se può anche convenirsi con il magistrato che la
dizione dell'articolo 38 della legge 184 andrebbe oggi rivista nel senso di
rendere sempre obbligatorio il ricorso ad organizzazioni autorizzate per ogni
pratica di adozione internazionale, è anche vero, però, che quando si indaga
seriamente in merito a casi di intermediazione a mero scopo di lucro si scopre
sempre che al "mercato" si accompagna in maniera più o meno palese
la violazione delle norme che disciplinano il regolare svolgimento delle
pratiche.
Ed anche questo è esattamente il caso
dell'istruttoria romana. Come può, infatti, il dott. Martellino ritenere la
"regolarità formale" di una pratica di adozione internazionale come
quella portata a compimento da Favata Antonino, nato a Mazara del Vallo 61 anni
fa, nei confronti di una bambina salvadoregna di nemmeno due mesi di vita,
mediante esibizione al Comune di Roma di un falso atto di nascita formato sulla
base di un falso riconoscimento di paternità? Come fa a ritenere
"formalmente regolari" tutte quelle altre pratiche di adozione
internazionale perfezionate in Brasile tramite «lauti compensi in denaro»
versati al Di Nuzzo, senza nemmeno porsi il problema che tali coppie
concorrevano penalmente con l'ex sacerdote ai sensi dell'articolo 110 del
Codice Penale italiano?
Come mai il dott. Martellino, una volta informato
che il giudice brasiliano che agiva in combutta con il Di Nuzzo era stato con
lui sottoposto a processo penale in Brasile, non si è attivato per conoscere
gli estremi degli illeciti e perseguire i complici nel territorio italiano?
Perché non ha ritenuto di quantificare i complici nel territorio italiano?
Perché non ha ritenuto di quantificare i versamenti effettuati dalle coppie
italiane agli intermediari, per poi metterli a confronto con una semplicissima
operazione con i costi reali delle adozioni internazionali "regolari"
vigenti all'epoca dei fatti?
Scrive, poi, il P.M. (alla pagina 334 del fascicolo
processuale) che i provvedimenti di affidamento di minori a coppie italiane
emessi dalle autorità dello Stato di San Salvador erano per lo più di tale
genericità e incompletezza (spesso non vi erano neppure indicate le generalità
dei bambini affidati) da non essere conformi alla legislazione locale, e
quindi che «non potevano costituire valido titolo per il rilascio del visto di
ingresso in Italia dei minori ai sensi dell'articolo 31 della legge 5 maggio
1983 n. 184», ed allora è doveroso chiedersi: perché mai, di fronte ad
irregolarità così clamorose (e certamente non solo "formali"), il
P.M., anziché assumere le necessarie iniziative avvalendosi del competente
Ufficio per la giustizia minorile operante presso il Ministero di grazia e
giustizia (a due passi dal palazzo di giustizia romano), si è limitato a muovere
dei timidi rilievi alle autorità consolari ed all'ambasciata italiana di quello
Stato, la quale ultima a sua volta (cfr. pagina 4 della requisitoria) non ha
ritenuto di meglio che rivolgersi per un "parere" non vincolante ad
un legale del posto (tale avvocato Gutierrez)?
Risulta, inoltre, che il P.M. di Roma si era a suo
tempo recato personalmente ed ufficialmente, con il rito della rogatoria
internazionale, nella capitale dello Stato di San Salvador nel corso dell'anno
1989 per assumervi direttamente le necessarie informazioni, e viene perciò
spontaneo a questo punto domandarsi come mai in tale occasione egli non abbia
ritenuto doveroso acquisire dalle autorità locali la documentazione relativa al
traffico dei minori. A questo proposito, il dott. Martellino scrive nel suo
provvedimento finale che la seconda parte della rogatoria in San Salvador,
attraverso l'audizione di vari testimoni sul posto, avrebbe dovuto svolgersi
nel gennaio del 1991, ma che l'atto non è stato poi compiuto a causa della
scadenza dei termini determinata dall'entrata in vigore in Italia del nuovo
codice di procedura penale. Ma al riguardo è fin troppo facile osservare in
contrario che - come è noto a qualsiasi operatore giudiziario - il termine di
scadenza delle indagini era stato poi prorogato con il decreto legislativo n.
369 del 7 dicembre 1990 a tutto il 31 dicembre 1991, e pertanto nulla avrebbe
impedito (quanto meno per le persone che non erano ancora state formalmente
sentite come imputati, e cioè per la quasi totalità degli indagati e degli
indagandi) di proseguire nelle indagini applicando la normativa del nuovo
codice di procedura penale entrato in vigore nell'ottobre 1989.
Né si può fare a meno di rilevare l'evidente
contraddittorietà delle motivazioni addotte dall'organo giudiziario, laddove da
un lato si danno per dimostrate le corresponsioni illecite di notevolissime
somme di denaro agli intermediari e le irregolarità palesi di gran parte delle
pratiche di adozione, e dall'altro se ne afferma la carenza di prova.
Ma
altri e più inquietanti rilievi ci sembra di poter muovere in questa sede:
1) perché, nel costruire le torbide vicende relative
alle adozioni italiane in Salvador de Bahia (Brasile), non si è tenuto in alcun
conto la circostanziata segnalazione fatta il 20 ottobre 1990 a Milano da una
coppia di Firenze durante il Convegno nazionale dell'ANFAA in merito alle
illecite attività svolte a scopo di lucro dal console italiano dott. Angelon
(il quale è stato tranquillamente sentito come "testimone" dal P.M.
romano) e che, se comprovate, non potevano esimere il suddetto da gravi e
precise responsabilità penali, oltre ai doverosi provvedimenti disciplinari da
parte delle competenti autorità governative italiane?;
2) perché in nessun momento delle indagini si è
ritenuto di prendere contatto con quelle organizzazioni ufficiali che, come il
Servizio sociale internazionale di Roma, l'ANFAA ed il CIAI, operano da molti
anni in collaborazione con le pubbliche istituzioni nell'attuazione delle
finalità di tutela dell'infanzia e nelle tematiche dell'adozione e che
pertanto avrebbero potuto fornire alla magistratura concreti e puntuali
strumenti di conoscenza e di investigazione?;
3) perché ci si ostina ad affermare che la difficoltà
a perseguire e stroncare il "mercato" dei bambini nell'adozione
internazionale sarebbe conseguenza di una legislazione interna inadeguata,
quando è invece evidente che un serio e responsabile funzionamento delle pubbliche
istituzioni ed una maggiore attenzione verso le esigenze dei minori
costituirebbero di per sé una più che valida remora contro gli abusi?
Ci si permetta, poi, di far osservare che, contrariamente
a quanto sostiene il magistrato romano, l'articolo 72 della legge 184, nel
proibire e punire l'introduzione illecita in Italia di minori, ha inteso far
riferimento a qualsiasi violazione delle
disposizioni della legge 184 e delle norme che vi fanno da indispensabile
corollario, e quindi anche - come risulta dimostrato in molti dei casi
esaminati dall'istruttoria in oggetto - di quelle disposizioni che impongono un
severo controllo sull'ingresso nello Stato dei minori a scopo di adozione e di
tutte quelle altre norme che regolano il diritto di famiglia e dei minori (cfr.
articolo 32 della legge 184) e l'ordine pubblico in genere (cfr. articolo 31
delle disposizioni preliminari al Codice civile).
La conclusione che sembra lecito trarre a commento
finale della presente vicenda processuale è costituita dalla constatazione
che, pur essendo stata scoperta l'esistenza di gravissimi abusi e di ancor più
gravi infedeltà perpetrate a vari livelli nell'adozione internazionale di
minori provenienti da alcuni paesi del Terzo Mondo, siano venuti meno il coraggio
e la professionalità per condurre le indagini alle inevitabili e doverose
conseguenze (forse anche per evitare il possibile ripetersi di un altro
"caso Serena", come significativamente è accennato alla pagina 6
della requisitoria), con una decisione che suona come una confessione di
impotenza e come un'ammissione di inefficienza.
Un'occasione mancata,
insomma.
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