Prospettive assistenziali, n. 97, gennaio-marzo 1992

 

 

Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale

 

 

IL MERCATO DI BAMBINI SALVADOREGNI E BRASILIANI ADOTTATI IN ITALIA: UN CASO DI "NON GIUSTIZIA"

 

Con una requisitoria di alcune scarne paginette, il 4 febbraio 1991 il P.M. del Tribunale di Roma, dottor Martellino, ha deciso di mettere la parola "fine" ad un'inchiesta giudiziaria protrat­tasi per oltre due anni ed imbattutasi in un enor­me "traffico" di bambini salvadoregni e brasiliani adottati in Italia e che aveva coinvolto nove citta­dini italiani di età compresa tra i 74 ed i 34 anni.

I fatti parlano da soli. Spiega infatti il magistra­to nella sua motivazione che tra il 1984 ed il 1988 «migliaia di pratiche di adozione internazio­nale» di bambini provenienti da El Salvador e da Salvador de Bahia erano state trattate da "arti­colate organizzazioni" del tutto abusive (e cioè prive dell'autorizzazione richiesta dall'articolo 38 della legge 5 maggio 1983 n. 184), operanti «per bassi e abietti fini speculativi» sia nei paesi di cui sopra che in Italia e con esborsi medi, da parte degli adottanti, di circa 20-25.000 dollari USA per pratica (pari, quindi, a circa 30 milioni di lire italiane dell'epoca).

Soltanto il referente fisso in Salvador, l'avvo­cato Pedro Garballo Alvarez, risulta aver inta­scato complessivamente la somma di circa 4 milioni di dollari, corrispondenti ad oltre 5 miliar­di di lire. Naturalmente ogni singolo esborso era fatto passare come "rimborso per le spese vive". L'avvocato Garballo si avvaleva della complicità di un'impiegata del consolato italiano di San Salvador, certa Castro Maria, e le pratiche gli venivano appoggiate da tale Strazzanti Liboria, da Barrafranca in provincia di Enna, definita dal magistrato romano come "assistente sociale privata" (non si sapeva, prima d'ora, dell'esi­stenza di una qualifica professionale di questo genere).

Quanto alle adozioni di bambini provenienti da Salvador de Bahia (Brasile), i minori erano pro­curati e concentrati sul posto da un ex sacerdo­te di origine italiana, il tristemente famoso Di Nuzzo Luca, che li ammassava in un vero e pro­prio "orfanatrofio-lager" ad elevatissima mortali­tà, oppure da una traduttrice di lingua italiana accreditata in esclusiva presso il nostro conso­lato (tale Galeffi Luigia, titolare anche di una propria "fondazione" per l'adozione). Le coppie italiane interessate all'adozione erano reclutate - previa corresponsione degli immancabili "rim­borsi spese" - da parenti e conoscenti del Di Nuzzo (il padre Pasquale, la madre Piscitelli Vin­cenza, il fratello Clemente e la cognata Pianura Rosanna, nonché tale Rizzo Nicola e tali coniugi Chiurco Gianfilippo e Rapex Lorenzina: tutti abi­tanti nelle province di Napoli e di Caserta). A sua volta, il Di Nuzzo agiva in combutta con un giudi­ce di un tribunale brasiliano (tale Machado Co­sta), poi destituito dall'incarico e sottoposto con lui a processo penale dalle autorità giudiziarie di quello Stato.

Tutte le pratiche di adozione trattate da que­ste organizzazioni clandestine risultavano - spiega il magistrato - "formalmente regolari", ma quasi sempre l'inusitata, incredibile rapidità dei procedimenti e la sommarietà degli atti di af­fidamento provvisorio indicavano che le stesse si erano in realtà svolte al di fuori di ogni legalità. In particolare, nelle pratiche acquisite presso la rappresentanza diplomatica italiana nel Salva­dor si accertava che gli atti di affidamento, le di­chiarazioni consolari di conformità ed i visti sui passaporti dei minori recavano addirittura la stessa data e che inoltre in molti casi gli stessi provvedimenti di affidamento emessi dalle auto­rità locali non erano conformi alla legislazione dello Stato e pertanto non avrebbero potuto co­stituire titolo valido per il rilascio del visto di in­gresso in Italia dei minori (e, aggiungiamo noi, non avrebbero assolutamente potuto essere di­chiarati efficaci in Italia dai competenti tribunali per i minorenni!).

Nonostante risultanze così drammatiche, il P.M. romano si è dichiarato fermamente convin­to che le pratiche a lui sottoposte fossero tutte "formalmente regolari", e che quindi tutti gli im­putati fossero (così come è in effetti accaduto) da prosciogliere da ogni accusa, in quanto a suo modo di vedere la colpa di tutto sarebbe da ascrivere alle «carenze strutturali della discipli­na delle adozioni», le quali «lasciano purtroppo ampi spazi di manovra a questo tipo di attività», e non puniscono - secondo lui - l'intermedia­zione a fine di lucro, ma soltanto «l'introduzione in Italia di minori in violazione delle procedure stabilite dalla legge sulle adozioni internaziona­li».

Ma è proprio su queste affermazioni che deve esprimersi un totale dissenso. Se può anche convenirsi con il magistrato che la dizione dell'articolo 38 della legge 184 andrebbe oggi rivista nel senso di rendere sempre obbligatorio il ricorso ad organizzazioni autorizzate per ogni pratica di adozione internazionale, è anche vero, però, che quando si indaga seriamente in merito a casi di intermediazione a mero scopo di lucro si scopre sempre che al "mercato" si accompa­gna in maniera più o meno palese la violazione delle norme che disciplinano il regolare svolgi­mento delle pratiche.

Ed anche questo è esattamente il caso dell'istruttoria romana. Come può, infatti, il dott. Martellino ritenere la "regolarità formale" di una pratica di adozione internazionale come quella portata a compimento da Favata Antonino, nato a Mazara del Vallo 61 anni fa, nei confronti di una bambina salvadoregna di nemmeno due mesi di vita, mediante esibizione al Comune di Roma di un falso atto di nascita formato sulla base di un falso riconoscimento di paternità? Come fa a ritenere "formalmente regolari" tutte quelle altre pratiche di adozione internazionale perfezionate in Brasile tramite «lauti compensi in denaro» versati al Di Nuzzo, senza nemmeno porsi il problema che tali coppie concorrevano penalmente con l'ex sacerdote ai sensi dell'arti­colo 110 del Codice Penale italiano?

Come mai il dott. Martellino, una volta informa­to che il giudice brasiliano che agiva in combut­ta con il Di Nuzzo era stato con lui sottoposto a processo penale in Brasile, non si è attivato per conoscere gli estremi degli illeciti e perseguire i complici nel territorio italiano? Perché non ha ri­tenuto di quantificare i complici nel territorio ita­liano? Perché non ha ritenuto di quantificare i versamenti effettuati dalle coppie italiane agli in­termediari, per poi metterli a confronto con una semplicissima operazione con i costi reali delle adozioni internazionali "regolari" vigenti all'epo­ca dei fatti?

Scrive, poi, il P.M. (alla pagina 334 del fasci­colo processuale) che i provvedimenti di affida­mento di minori a coppie italiane emessi dalle autorità dello Stato di San Salvador erano per lo più di tale genericità e incompletezza (spesso non vi erano neppure indicate le generalità dei bambini affidati) da non essere conformi alla le­gislazione locale, e quindi che «non potevano costituire valido titolo per il rilascio del visto di ingresso in Italia dei minori ai sensi dell'articolo 31 della legge 5 maggio 1983 n. 184», ed allora è doveroso chiedersi: perché mai, di fronte ad irregolarità così clamorose (e certamente non solo "formali"), il P.M., anziché assumere le ne­cessarie iniziative avvalendosi del competente Ufficio per la giustizia minorile operante presso il Ministero di grazia e giustizia (a due passi dal palazzo di giustizia romano), si è limitato a muo­vere dei timidi rilievi alle autorità consolari ed all'ambasciata italiana di quello Stato, la quale ultima a sua volta (cfr. pagina 4 della requisito­ria) non ha ritenuto di meglio che rivolgersi per un "parere" non vincolante ad un legale del po­sto (tale avvocato Gutierrez)?

Risulta, inoltre, che il P.M. di Roma si era a suo tempo recato personalmente ed ufficialmente, con il rito della rogatoria internazionale, nella capitale dello Stato di San Salvador nel corso dell'anno 1989 per assumervi direttamente le necessarie informazioni, e viene perciò sponta­neo a questo punto domandarsi come mai in ta­le occasione egli non abbia ritenuto doveroso acquisire dalle autorità locali la documentazione relativa al traffico dei minori. A questo proposito, il dott. Martellino scrive nel suo provvedimento finale che la seconda parte della rogatoria in San Salvador, attraverso l'audizione di vari testi­moni sul posto, avrebbe dovuto svolgersi nel gennaio del 1991, ma che l'atto non è stato poi compiuto a causa della scadenza dei termini determinata dall'entrata in vigore in Italia del nuovo codice di procedura penale. Ma al riguar­do è fin troppo facile osservare in contrario che - come è noto a qualsiasi operatore giudiziario - il termine di scadenza delle indagini era stato poi prorogato con il decreto legislativo n. 369 del 7 dicembre 1990 a tutto il 31 dicembre 1991, e pertanto nulla avrebbe impedito (quanto meno per le persone che non erano ancora state for­malmente sentite come imputati, e cioè per la quasi totalità degli indagati e degli indagandi) di proseguire nelle indagini applicando la normati­va del nuovo codice di procedura penale entrato in vigore nell'ottobre 1989.

Né si può fare a meno di rilevare l'evidente contraddittorietà delle motivazioni addotte dall'organo giudiziario, laddove da un lato si danno per dimostrate le corresponsioni illecite di notevolissime somme di denaro agli interme­diari e le irregolarità palesi di gran parte delle pratiche di adozione, e dall'altro se ne afferma la carenza di prova.

Ma altri e più inquietanti rilievi ci sembra di poter muovere in questa sede:

1) perché, nel costruire le torbide vicende re­lative alle adozioni italiane in Salvador de Bahia (Brasile), non si è tenuto in alcun conto la circo­stanziata segnalazione fatta il 20 ottobre 1990 a Milano da una coppia di Firenze durante il Con­vegno nazionale dell'ANFAA in merito alle illecite attività svolte a scopo di lucro dal console italia­no dott. Angelon (il quale è stato tranquillamente sentito come "testimone" dal P.M. romano) e che, se comprovate, non potevano esimere il suddetto da gravi e precise responsabilità pe­nali, oltre ai doverosi provvedimenti disciplinari da parte delle competenti autorità governative italiane?;

2) perché in nessun momento delle indagini si è ritenuto di prendere contatto con quelle orga­nizzazioni ufficiali che, come il Servizio sociale internazionale di Roma, l'ANFAA ed il CIAI, ope­rano da molti anni in collaborazione con le pub­bliche istituzioni nell'attuazione delle finalità di tutela dell'infanzia e nelle tematiche dell'adozio­ne e che pertanto avrebbero potuto fornire alla magistratura concreti e puntuali strumenti di co­noscenza e di investigazione?;

3) perché ci si ostina ad affermare che la difficoltà a perseguire e stroncare il "mercato" dei bambini nell'adozione internazionale sareb­be conseguenza di una legislazione interna inadeguata, quando è invece evidente che un serio e responsabile funzionamento delle pub­bliche istituzioni ed una maggiore attenzione verso le esigenze dei minori costituirebbero di per sé una più che valida remora contro gli abu­si?

Ci si permetta, poi, di far osservare che, con­trariamente a quanto sostiene il magistrato ro­mano, l'articolo 72 della legge 184, nel proibire e punire l'introduzione illecita in Italia di minori, ha inteso far riferimento a qualsiasi violazione delle disposizioni della legge 184 e delle norme che vi fanno da indispensabile corollario, e quindi anche - come risulta dimostrato in molti dei casi esaminati dall'istruttoria in oggetto - di quelle disposizioni che impongono un severo controllo sull'ingresso nello Stato dei minori a scopo di adozione e di tutte quelle altre norme che regolano il diritto di famiglia e dei minori (cfr. articolo 32 della legge 184) e l'ordine pub­blico in genere (cfr. articolo 31 delle disposizioni preliminari al Codice civile).

La conclusione che sembra lecito trarre a commento finale della presente vicenda proces­suale è costituita dalla constatazione che, pur essendo stata scoperta l'esistenza di gravissimi abusi e di ancor più gravi infedeltà perpetrate a vari livelli nell'adozione internazionale di minori provenienti da alcuni paesi del Terzo Mondo, siano venuti meno il coraggio e la professionali­tà per condurre le indagini alle inevitabili e do­verose conseguenze (forse anche per evitare il possibile ripetersi di un altro "caso Serena", co­me significativamente è accennato alla pagina 6 della requisitoria), con una decisione che suona come una confessione di impotenza e come un'ammissione di inefficienza.

Un'occasione mancata, insomma.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it