IMPARARE PER VIVERE: HANDICAPPATI
INTELLETTIVI A SCUOLA DI AUTONOMIA
Imparare, malgrado il deficit intellettivo e l'età
adulta, è possibile. È stata questa l'affermazione intorno alla quale si è
svolto a Roma, il 29 maggio, il convegno "Imparare per vivere - Handicappati
mentali adulti a scuola di autonomia", organizzato dalla Comunità di S.
Egidio e dalla Cooperativa Pulcinella.
I
principali temi trattati sono stati:
- l'esigenza di una educazione individualizzata che
superi la dicotomia tra una presunta educazione standardizzata per i
"normali" e una educazione speciale per i "diversi";
- l'attenzione particolare alla fascia d'età che
vede, dopo la scuola dell'obbligo, gli handicappati intellettivi abbandonati
in un vuoto di proposte mirate all'integrazione;
- l'esigenza di educare all'autonomia per la
conquista di più ampi margini di libertà personale, compresa quella
fondamentale di evitare l'istituzionalizzazione quando viene a mancare il
sostegno della famiglia.
Educare per gettare un ponte
Ha aperto i lavori Mauro Laeng, Ordinario di pedagogia all'Università di Roma "La
Sapienza" con una relazione dal titolo: "Margini di educabilità in
handicappati mentali".
«L'educazione
ha una antichità e una priorità fondamentale nei confronti della scuola; esiste
educazione ovunque esiste una relazione interpersonale», - ha detto il relatore. Affrontando poi il tema
della educazione speciale, ha ricordato che «nell'ottica di una pedagogia separata, è fatale cadere in una
classificazione tipologica ulteriore, mettendosi su una strada senza fine
(...). O l'educazione è individualizzata sempre, o non è educazione completa,
perché non rende un servizio appropriato, equilibrato, aggiustato sulle
necessità della persona».
I tre "traguardi" dell'educazione individuati
dal prof. Laeng sono: l'autosufficienza, l'autonomia e la libertà.
Autonomia vuol dire avere un pieno controllo verso le
cose, l'ambiente fisico, lo spazio temporale, la manualità, la capacità di
comunicazione. Deve mirare all'orientamento nel mondo, anzitutto verso
l'ambiente prossimo. «Qualunque soggetto,
normale o con deficit, viene costruendo fin dalla tenera infanzia una
rappresentazione del mondo, una specie di doppio del mondo nella propria testa,
che costituisce una mappa ambientale e cognitiva indispensabile».
In anni passati l'handicappato chiuso in istituto o
nella scuola speciale costruiva la sua "mappa" in modo falso,
incapsulato in una pseudostruttura, ma indolore, protetto da problematici
confronti. «Oggi, nella scuola aperta a tutti
viene indubbiamente favorito, ma nello stesso tempo avverte tutta una somma di
possibilità che gli sono interdette. Sarebbe però, palesemente distorta ed
assurda la conclusione di chiudere gli handicappati in un falso mondo per
proteggerli; bisogna piuttosto andare fino in fondo, e non interrompere lo
sforzo educativo alla fine della scuola».
Gli handicappati che hanno frequentato, negli ultimi
20 anni, regolarmente le scuole si trovano ad una svolta, vivono una crisi a
cui «dobbiamo essere preparati come
società e come singoli».
È necessario perseguire - ha continuato il prof.
Laeng - una «terapia del successo, che incoraggi
la persona a proseguire, ad autoaffermarsi».
Autosufficienza ed autonomia, dunque, e, insieme ad
essa, l'affermazione della libertà della persona che si fa attività creativa: «La libertà vera della persona si realizza
in due aspetti: l'atteggiamento di cooperazione e quello di autogestione».
I margini di educabilità sono dunque maggiori di
quanto da più parti si creda. «Quando noi
ci troviamo di fronte a un soggetto che ha dei limiti, l'importante è gettare
il ponte, ma appena questo esiste, occorre andare a individuare le possibilità
alternative, quella somma di energie riposte, segrete, non sempre visibili...
il cui studio dovrebbe essere il primo compito dell'educatore... Un uomo,
anche nelle condizioni più gravi, conserva la forza interiore delle
motivazioni... ed usa tutte le proprie risorse per realizzarsi appieno».
Insegnare a chi? Cosa? Come?
"L'esperienza delle scuole dell'autonomia"
è stato il tema della relazione di Bruna
Cicconi, della Comunità di S. Egidio. Dopo aver parlato dell'educazione
come necessità nei confronti delle persone con deficit intellettivo, la
relatrice ha ripercorso in breve l'esperienza della Comunità di S. Egidio e
quella della Cooperativa Pulcinella: «Il
servizio oggi raggiunge più di 700 handicappati mentali, nella stragrande
maggioranza adulti, che vivono per lo più in famiglia, ma anche in istituto, a
Roma ed in altre città: Napoli, Genova, e Wurzburg, in Germania».
Ha quindi spiegato il nome della Cooperativa e dei
centri gestiti dalla Comunità: «Il teatro
non c'entra. Pulcinella è la maschera antichissima del pover'uomo, ed ha poi
simboleggiato il popolino napoletano, asservito e schiacciato da sempre nuovi
potenti tiranni. Pulcinella non muore mai, afferma la tradizione, perché conosce
l'arte dell'arrangiarsi, il segreto della solidarietà e dell’amicizia. Così,
in barba al potere dei forti, resta l'ultimo sorridente vincitore e non perde
la sua allegria. Dietro la maschera di Pulcinella non si nasconde solo chi è
reso debole dall'handicap, ma anche chi lotta con lui per superarlo, spesso
incontrandosi con l'esiguità delle risorse destinate ai servizi socio-sanitari
e la inadeguatezza della riflessione pedagogica e didattica».
Ogni proposta educativa - ha proseguito - «deve essere articolata attorno a tre
domande: "insegnare a chi? Cosa? Come?". Insegnare anzitutto agli
handicappati mentali adulti. Gli stessi che negli anni '70 sono stati
deistituzionalizzatl, socializzati, difesi, integrati nella scuola di tutti.
Erano divenuti un simbolo per chi voleva chiudere la parola "normale"
tra due virgolette (..). Sono stati delusi, poi, dopo la scuola dell'obbligo,
abbandonati: il lavoro non c'è, la casa non si trova. L'istituto e il
cronicario, per fortuna con valide eccezioni, restano uno spettro minaccioso
per chi potrebbe restare a casa propria, ma anche quasi l'unica risposta
concreta alla domanda del genitori invecchiati: cosa ne sarà di mio figlio,
quando non ci saremo più? Si afferma oggi una nuova emarginazione, che fa
ruotare, attorno all'handicap nella fascia giovanile, ricerca, sperimentazione,
risorse. Autorevoli pareri scientifici e la nostra abitudine mentale affermano:
i giovani Imparano, gli adulti lavorano, al massimo, si aggiornano.
L'esperienza delle scuole dell'autonomia dimostra che può non essere così».
«Vorremmo a
volte - ha detto ancora Bruna Cicconi - poter tracciare una bella linea dritta e
stabilire: fin qui e non oltre. Ma onestamente non è possibile. Un giorno
osservi che il tuo allievo non è in grado dl aprire un rubinetto, e il giorno
dopo ammiri i suoi virtuosismi col telecomando della TV: le contraddizioni sono
tante, e si intuisce che se un confine esiste, è frastagliato e mal del tutto
esplorabile».
Don Milani diceva che una buona scuola è «quella che rende tutti uguali». In
questo senso la formulazione dei programmi nelle scuole dell'autonomia avviene
stilando per ciascuno l'elenco delle differenze tra l'handicappato e i suoi
coetanei normodotati. L'abisso che li separa è reso più profondo dalla
mancanza di esperienze comuni: viaggiare col treno, conoscere il centro della
città, fare acquisti autonomamente.
L'esperienza di stanchezza degli handicappati
coincide con la noia dell'inattività. La scuola dell'autonomia conduce, invece,
ad una vita attiva, e quindi anche alla stanchezza vera. Makarenko,
pedagogista sovietico, diceva: «In condizioni
di pura natura, cresce solo quel che può crescere: la solita gramigna».
Con gli handicappati mentali la natura è stata avara,
e l'inattività è proprio la solita, noiosa gramigna. In assenza di stimoli, lo
sappiamo tutti, l'handicap si moltiplica.
Quando arrivano alla scuola dell'autonomia, i primi
giorni, nelle loro tasche e nelle loro borse c'è solo un fazzolettino pulito;
via via si popolano di portafogli, chiavi, documenti, scontrini stropicciati,
biglietti dell'autobus... diventano vere tasche da adulti, un po' disordinate.
I programmi, che toccano anzitutto le abilità della vita quotidiana, come
l'uso del denaro, del telefono, del supermercato, l'igiene personale e dell'ambiente,
comprendono sempre anche elementi di un sapere più tradizionale: leggere,
scrivere, calcolare, firmare, e sempre proiettato nel mondo esterno. Quanto
alle linee didattiche, viene sottolineata l'esigenza di insegnare nell'ambiente
di vita, e valorizzata l'immagine come catalizzatore delle capacità di
apprendimento. In particolare, si attuano costantemente strategie di semplificazione
del compito, attingendo alle possibilità consentite dalla nostra cultura occidentale
di tecnologia avanzata.
«Nel corso
del nostro lavoro - ha aggiunto
Bruna Cicconi - abbiamo notato una
innegabile voglia di scuola nei nostri allievi handicappati: desiderio e
soddisfazione emergono nell'apprendimento; è questo il patrimonio più prezioso
dl ogni scuola. A noi è richiesto un impegno di misura non inferiore».
Concludendo, la relatrice ha spiegato che la scuola
porta un nome ambizioso: quello di Edouard Séguin, il grande pedagogista
francese che per primo, alla metà del secolo scorso, affermò e difese l'educabilità
degli handicappati mentali e che scrisse parole ancora incredibilmente
attuali: «Se è disteso, fatelo sedere, se
è seduto, mettetelo in piedi, se non mangia da solo, tenetegli le dita e non il
cucchiaio... se non parla e non guarda, parlategli e guardatelo. Nutritelo
come un uomo che lavora e fatelo lavorare, lavorando voi stessi con lui... e se
in quattro anni non potrete dargli intelligenza né parola né movimento
volontario, la somma di energia che avrete speso con lui non sarà ancora
perduta.., starà meglio, sarà più forte, più obbediente o più morale. Vi par
poco? E colui che ha fatto tutto quel che può, non ha forse fatto tutto?».
Un video e una mostra per dimostrare
che imparare è possibile
Dopo le due relazioni iniziali, è stato proiettato un
video dal titolo: «La scuola
dell'autonomia Edouard Séguin». Situata nel quartiere di Primavalle, «a un passo dalle case dei suoi allievi»,
la scuola accoglie quattro handicappati mentali che imparano giorno dopo giorno
abilità come: mantenere in ordine la propria abitazione, cucinare, telefonare,
prendere l'autobus, fare la spesa, attraversare la strada. Spunti
significativi a riguardo delle attività di pittura, giardinaggio, ed altre,
sono mescolati ai continui stimoli rivolti alla conoscenza del mondo esterno,
all'uso dei servizi pubblici come l'ufficio postale o la circoscrizione, alla
visita dei luoghi più importanti della città.
Nell'ambito del convegno è stata, inoltre, allestita
una mostra, composta di foto e
documentazione didattica: le carte del supermercato (che consentono anche ad
handicappati mentali gravi di fare la spesa autonomamente), il telefono con le
foto (che può essere usato anche da chi non conosce i numeri), la rubrica, i
giochi didattici destinati ad apprendere l'uso del denaro e la capacità di
muoversi nella città, il "contasoldi" e il semaforo (vero) usato per
le esercitazioni degli allievi. Presenti anche ricette di cucina "senza
parole né quantità", attrezzi modificati per l'artigianato del cuoio,
dipinti degli allievi.
Abbattere il pregiudizio del: a questo
punto non c'è più niente da fare
Ha concluso il convegno una tavola rotonda introdotta
e coordinata da Andrea Bartoli, direttore
del Centro Studi e Programmi Sociali e Sanitari, di Roma. Il primo intervento
è stato quello di Antonio Guidi, neupsichiatra,
responsabile del Dipartimento H della CGIL. «Abbiamo
sempre fatto degli interventi prendendo come punto di riferimento una
normalizzazione possibile ma non sempre raggiungibile - ha detto - cercando fenomeni di miglioramento
eclatanti... con un grosso pensiero a se stessi, alla gratificazione
dell'operatore (...). Il discorso avrebbe dovuto essere molto più flessibile:
bene l'intervento precoce, ma non al prezzo di togliere i bambini ai genitori
per medicalizzarli nel momento In cui avrebbero più bisogno di sostegno; a
quell'età certe torture possono provocare danni per tutta la vita».
Guidi ha quindi sottolineato come la fascia di età in
cui si interviene di più sia quella coincidente con gli anni dell'obbligo
scolastico, in una specie di scuola-centrismo a discapito dell'extrascuola.
Come se a una certa età, quando la scuola è finita, la riabilitazione non
servisse più. Il non intervento, al contrario, dopo una certa età, provoca non
soltanto una regressione, ma soprattutto un autismo di ritorno di devastanti
proporzioni. L'intervento sull'handicappato mentale adulto non è solo un atto
di solidarietà o di giustizia sociale, di cui siamo orgogliosi, ma un atto
scientifico. «Non possiamo più accettare
il servizio fornito in una griglia che esclude gli incurabili, perché
incurabili non ce ne sono...».
Dario Ianes, psicologo, del Centro Studi Erikson di Trento, ha
ribadito le tesi sulla non limitazione nel tempo della capacità di imparare citando
numerosissime ricerche sperimentali che hanno dimostrato, soprattutto nella
cultura anglosassone, la possibilità di apprendere in età adulta una vasta
gamma di comportamenti ed abilità quotidiane. Si tratta di sperimentazioni
condotte con canoni di massimo rigore scientifico ormai da più di venti anni,
che il dottor Ianes ha rintracciato nelle tesi dell'analisi comportamentale,
della psicologia cognitiva, fino alle più moderne teorie di analisi ecologica.
Ha quindi sottolineato, commentando il video, la validità dei percorsi di
semplificazione degli obiettivi: «Portare
il più vicino possibile alla competenza della persona quello che è un complesso
di comportamenti altrimenti troppo difficile, utilizzando quelle tecniche, in
cui credo molto, con una nota di cautela; non si potrebbe fare una scuola
dell'autonomia tutta a tavolino, bisogna inserire naturalezza, spontaneità,
bisogna giocarsi nella strada, nel quartiere, uscendo dagli schematismi
assoluti. Occorre investire senza esitazioni nell'autonomia, per potenziare le
capacità di vita, fino all'autostima e alla sicurezza personale. Difficoltà si
sono, però, incontrate nel proporre una rivitalizzazione dei curricoli
all'interno delle strutture formative. La scuola media, ad esempio, è
strutturata sottolineando sempre i processi cognitivi relativi alle diverse
discipline, quasi fosse una università. Si fa fatica a scendere nella strada,
a fare un lavoro nel territorio».
Marisa
Faloppa, presidente del Comitato per
l'integrazione scolastica di Torino, membro del CSA - Coordinamento sanità e
assistenza per i movimenti di base, ha sottolineato come «l'integrazione nella scuola dell'obbligo, pur fra tanti difetti e
Inadempienze, ha favorito negli ultimi vent'anni la formazione di una diverse
coscienza sull'handicap». L'integrazione scolastica doveva costituire la
prima parte di un progetto globale che per molti motivi è rimasto incompiuto. «Bisogna ammettere che la scuola a vari
livelli appare impegnata a trasmettere conoscenze piuttosto che a favorire
progetti dl costruzione dl conoscenza... Per il ragazzo in condizioni di
handicap in molti casi si utilizzano metodi basati esclusivamente sull'imitazione
e sul condizionamento per raggiungere obiettivi eccessivamente specifici, senza
curarsi di ottenere un miglioramento complessivo della qualità della vita».
Numerose ricerche condotte soprattutto negli Stati
Uniti, viceversa, consigliano di privilegiare programmi di intervento aventi
caratteristiche ecologiche, il più possibile cioè collegati all'ambiente del
soggetto, evitando situazioni artificiose.
«L'handicap
- ha proseguito - non è una situazione statica ma una situazione che può e deve
essere modificata. Le moderne tecnologie possono consentire al disabile di
superare almeno in piccola parte la necessità di dipendere dagli altri, ma la
legislazione diventa a volte un ostacolo al raggiungimento di questo
obiettivo». La stessa richiesta generalizzata di insegnanti di sostegno,
secondo Faloppa, non si muove in un'ottica di educazione all'indipendenza.
Anna
Contardi, coordinatrice
dell'Associazione Bambini Down (ABD), ha sottolineato che «benché tutti abbiano detto giustamente che l’imparare è una cosa
che si può iniziare ad ogni età, va anche riaffermato con forza che
l'educazione all'autonomia deve nascere il più presto possibile: non è
soltanto una necessità che nasce dal vivere quotidiano, ma è anche uno spazio
reale di crescita». L'adolescenza è il momento cruciale nella crescita
dell'autonomia: «È un momento di disagio
perché bisogna riappropriarsi di chi si è. Anche gli handicappati mentali
diventano grandi e c'è un grosso bisogno che le famiglie vengano aiutate a
riconoscerlo. Per questo 1'ABD ha scelto gli adolescenti come interlocutori,
nel momento in cui si passa dalla scuola dell'obbligo a chissà cosa».
Il corso di educazione all'autonomia, promosso
dall'ABD, non è una scuola; è rivolto in un contesto di tempo libero, a ragazzi
dai 15 ai 20 anni, una volta alla settimana, e ha come obiettivo cinque aree
di intervento, che riguardano prevalentemente comunicazione e orientamento,
con interventi individuali e di gruppo. Ai ragazzi è stato proposto un
contesto di riferimento che li aiutasse ad identificarsi come grandi: l'appartenenza
a un club, con tessera, distintivo, regolamento scritto da loro; uno spazio in
cui le famiglie non c'entrano. Una caratteristica metodologica importante, è
il contesto della motivazione; dopo la stanchezza di una scuola spesso
staccata dalla realtà, il clima di verità ha un doppio effetto positivo:
rinforza le energie e la coscienza di essere preso sul serio, di essere
considerato grande.
Mario
Tortello, giornalista de La Stampa di Torino e direttore di
Quaderni di Promozione Sociale, ha quindi ricordato che «la verifica di una attività educativa deve sempre servire a
rilanciarla, come infatti avviene in questa sede rilanciando il tema della
educazione all'autonomia negli handicappati. Guardando il video mi tornavano
alla mente due espressioni di un libro che riferiva su un'esperienza romana dei
primi anni '70: Imparare a parlare per conversare con chi? Imparare a
camminare per andare dove? Questo è 1'interrogativo di fondo che, sulle
sollecitazioni di stamane, ci coinvolge tutti». Facendo riferimento alla
Carta costituzionale, Tortello ha continuato: «Il diritto e il dovere al lavoro è il fulcro attorno al quale
dobbiamo costruire una nuova cultura dell'integrazione delle persone
handicappate... Gli interventi assistenziali devono essere riservati solo a
quelle persone che non sono assolutamente in grado di svolgere alcuna attività
lavorativa... Troppo spesso la persona con handicap viene identificata dai
media come un assistito a vita, non come un cittadino, un protagonista».
Ha, poi, aggiunto:
«Il diritto al lavoro e il diritto alla formazione in corsi prelavorativi si
basano su un elemento non ancora pienamente acquisito, cioè il diritto al
lavoro anche per gli handicappati con ridotta capacità lavorativa; nella legge
nazionale che riguarda la materia della formazione professionale degli
handicappati vi è, su questo aspetto, solo una affermazione del tutto generica».
Fausto
Giancaterina, responsabile del
Servizio handicap e disagio mentale del Comune di Roma ha, dal canto suo,
sottolineato che la esperienza dimostra come si possa lavorare al meglio tra
un servizio pubblico e le energie di un'istituzione in certo senso privata, e
come l'assistenza domiciliare possa essere non solo assistenza, ma anche un
motore della impostazone riabilitativa. Ha inoltre espresso preoccupazione
relativamente alla stesura della leggequadro sull'handicap, che non individua
nessuno tra gli enti pubblici che si faccia carico della situazione relativa
all'handicap e che, in interventi ancora frammentari, ripropone la separazione
tra sociale e sanitario. «C'è bisogno - ha
concluso - di una rete sistematica di
servizi per allargare le esperienze che abbiamo ascoltato oggi, perché non
restino soltanto esperienze pilota».
Pierluigi
Consorti, della Comunità di S.
Egidio, ha anzitutto ricordato come molti degli interventi avessero mostrato
una convergenza nell'affermazione della possibilità di educare gli handicappati
mentali, e in particolare di educarli all'autonomia. «Possibilità su cui molti troverebbero difficoltà a dichiararsi
d'accordo - ha detto - anche se qui
stamattina sembra cosa scontata. Non a caso le esperienze di educazione
speciale trovano ancora oggi molti sostenitori».
Dopo aver ripercorso alcune tappe significative
nella storia della pedagogia legata all'handicap, ha affermato che si assiste
oggi ad una fase di stasi del dibattito. «Ne
è esempio evidente la lentezza con cui vengono trattati in sede legislativa i
temi inerenti agli handicappati. L'esperienza della nostra comunità, come
anche altre esperienze, si innestano nella volontà di abbattere il pregiudizio
all'origine dell'eterno ritornello: a questo punto non c'è più niente da fare.
Non voglio negare l'esistenza di difficoltà, e tanto meno quella di un limite,
ma affermo che il limite può essere spostato in avanti. Direi infatti che non
esiste nessun limite ultimo se non nell'idea dell'operatore che crede di non
poter fare di più».
Ribadendo la necessità di rilanciare il dibattito anche
su basi scientifiche, nelle sedi opportune, e di cambiare la mentalità di
insegnanti, genitori, operatori, ha concluso: «L'educazione all'autonomia è necessaria non solo per 1'handicappato,
ma per tutti. Se educare è possibile, educare all'autonomia costituisce una
sfida ineludibile, e bisogna raccoglierla».
Ha concluso la tavola rotonda Enrico Garaci, Rettore dell'Università di Roma - Tor Vergata e
presidente del Comitato per la biologia e medicina del CNR. «L'handicappato non deve essere solo oggetto
di assistenza, ma soggetto che partecipa a tutte le attività della vita
civile. Con altrettanta convinzione va smentito il pregiudizio che esista un
limite di tempo oltre il quale dilaghi l'irrecuperabilità, che esista
1'incurabile».
Di fronte al fatto che la ricerca conforta il concetto
di educabilità in ogni età, si è poi chiesto il prof. Garaci, come mai non si è
fatto nulla? Come mai l'affermazione di ciò che dovrebbe essere naturalmente
accettato viene invece a suonare come una provocazione?
Si fa poca ricerca in questo settore, e quella che si
fa non viene trasferita a livello applicativo. Occorre creare una cultura
generalizzata, coinvolgere in senso attivo la comunità. Tutto va fatto perché
qualsiasi cittadino abbia diritto al lavoro, alla formazione, all'inserimento,
dopo l'obbligo scolastico. In primo luogo occorre potenziare la ricerca: quella
pedagogica e quella medica vanno reciprocamente trasferite per stimolare il
più possibile il concetto dell'interdisciplinarietà.
www.fondazionepromozionesociale.it