Prospettive assistenziali, n. 98, aprile-giugno 1992

 

 

LE PICCONATE CONTRO LA LEGGE 184

PIERGIORGIO GOSSO

 

 

2. Se si dovesse tracciare la "storia" dell'adozione dei minori in Italia (e qualcuno un giorno dovrà pur scriverla), sarebbe assai istruttivo soffermarsi sulle tappe principali che di volta in volta hanno accompagnato le fasi della sua introduzione, del suo sviluppo e della sua trasformazione nel corso degli anni.

Per limitarci qui ad una estrema sintesi, non si può fare a meno di ricordare, innanzi tutto, che per garantire ai minori privi di genitori o con ge­nitori incapaci di allevarli il diritto alla pienezza degli affetti familiari con il varo della legge 431 del 5 giugno 1967 fu necessario sostenere una dura lotta contro resistenze di varia natura e di ri­salente origine storica, ancora ferme alla conce­zione tradizionale della tutela dell'infanzia abban­donata intesa come un mero intervento assisten­ziale imperniato sulla istituzionalizzazione, e tutte attestate sulla difesa ad oltranza dei privilegi del­la "famiglia di sangue".

L'introduzione a pieno titolo del minore abban­donato nella famiglia di accoglienza e la totale equiparazione giuridica degli effetti dell'adozione al regime della filiazione legittima fu a lungo sen­tita nel comune modo di pensare come un artifi­cio legale che si poneva in contrasto con i dati dell'esperienza naturale, e soltanto una paziente e capillare opera di penetrazione culturale e so­ciale riuscì in un successivo arco di tempo a far passare quella profonda rinnovazione del costu­me - sorretta dalla contestuale riforma del diritto di famiglia e da una più attenta considerazione dei princípi fondamentali della nostra carta costi­tuzionale - che ridisegnò l'adozione dei minori come l'estrinsecazione, nel campo dell'infanzia, dei diritti della persona umana.

 

2. Si andava così affermando l'esigenza priori­taria di dare concreta realizzazione - su di un piano autenticamente familiare - alla difesa dei soggetti più deboli, in una scala di valori in cui la cura del fanciullo passava dall'antica fun­zione "protettiva" ad una più compiuta finalità di stampo educativo, nella consapevolezza che il nucleo primario in cui si forma la personalità dell'individuo non può che essere la cellula fami­liare, la quale deve essere assicurata ad ogni bambino per tutta la durata della sua crescita, così come deve rappresentare un settore di intervento in cui lo Stato ha il potere-dovere di incidere ogni qual volta si tratti di prevenire o di reprimere gli abusi all'infanzia che si com­mettono nel chiuso delle istituzioni familiari. Era nata una seconda fase, quella che oggi si suol definire come la "cultura dell'adozione”, e che veniva a trovare la sua traduzione giuridica nell'articolata disciplina normativa delineata dalla legge 184 del 4 maggio 1983 sull'adozione e sull'affidamento dei minori, tuttora in vigore.

 

3. Nello spazio di circa quindici anni si era così arrivati ad una regolamentazione organica dell'adozione, perfezionando una linea di svilup­po e di programmazione sociale che vedeva pro­tagonista la figura del minore, il cui ingresso nel­la famiglia di accoglienza era finalmente realizza­to come inserimento con effetti uguali alla pro­creazione responsabile, in un concetto di fami­glia prioritariamente incentrato sull'educazione e sugli affetti. Nello stesso contesto erano esaltate le risorse della solidarietà per sopperire alle diffi­coltà educative di tipo transitorio (ed ecceziona­le) dei nuclei familiari (l'affidamento), così come era data una dettagliata regolamentazione al fe­nomeno dell'adozione internazionale (in prece­denza lasciata in balìa di prassi prive di ogni se­rio controllo giudiziario), parificandolo il più pos­sibile all'adozione interna.

Gli anni che sono seguiti a questa produzione legislativa sono stati assai intensi, permeati da sollecitazioni e da problematiche di diversa natu­ra e di grande impegno sociale, ed attraversati da non poche contraddizioni e disomogeneità, a fronte di una realtà assai variegata e ricca di chiaroscuri, ed anche a causa dei vistosi divari culturali esistenti tra le varie zone geografiche e culturali del paese.

 

4. In ogni caso, sembra legittimo poter afferma­re che si è passati durante quest'ultimo pe­riodo ad una nuova fase che potremmo definire di "liberalizzazione dell'adozione", nel senso che - anche sotto l'impulso di ricorrenti fatti di crona­ca e con l'influsso di atteggiamenti poco meditati degli organi di informazione - si è preso atto dell'alto numero dei minori che continuano anco­ra oggi ad essere ricoverati negli istituti per l'in­fanzia abbandonata per contrapporre questo da­to alle critiche riguardanti la macchinosità, la len­tezza ed il preteso fiscalismo delle procedure re­lative al vaglio delle domande di adozione (che sono, come si sa, eccedenti rispetto alle dichia­razioni di adottabilità), invocando l'introduzione di meccanismi che facilitino e incrementino le adozioni, anziché selezionarle. Questa tendenza si è ultimamente accentuata in maniera notevole, facendosi appello anche ad un altro dato sugge­stivo, e cioè all'immenso numero di minori che si trovano in situazione di totale abbandono nelle nazioni sottosviluppate e che potrebbero essere adottati in Italia.

Sta di fatto che, in questi ultimi anni, è in atto una vera e propria "corsa" alla adozione interna­zionale, in cui l'attenzione verso le esigenze dell'infanzia abbandonata si è andata spostando, in maniera più o meno inavvertita, verso l'angolo visuale delle esigenze degli adulti desiderosi di ricevere un bambino in adozione. Questo feno­meno, favorito anche dal ricorso indiscriminato ai canali privati per ottenere all'estero l'affidamento di minori da adottare e dalle carenze degli organi dello Stato nel dar corso al riconoscimento ed al controllo delle organizzazioni previste dall'artico­l0 38 della legge 184 per lo svolgimento delle pratiche di adozione internazionale e nel predi­sporre accordi bilaterali con gli Stati di prove­nienza dei minori (ed ulteriormente incentivato da dichiarazioni di idoneità affrettatamente e su­perficialmente rilasciate da alcuni Tribunali per i minorenni e da svariate Corti d'appello), ha fatto sì che siano aumentati in misura allarmante i casi di adozioni irregolari e di adozioni non riuscite, quando non anche i casi di "mercato" dei bambi­ni (si veda, in proposito, quanto pubblicato su questa rivista sullo scandalo dei bambini com­prati in Salvador e in Brasile) (1).

Le conseguenze di tutto ciò sono facilmente immaginabili: scarsi o inesistenti verifiche circa la reale capacità degli adottanti ad educare e at­teggiamenti tolleranti circa l'omesso rispetto dei limiti di età che la legge prescrive per far sì che l'esperienza adozionale avvenga con le risorse fi­siche e psichiche indispensabili per realizzare un rapporto genitoriale a tutti i livelli (la cosiddetta "imitatio naturae").

 

5. È in questa temperie che va letta non senza preoccupazione una recente sentenza della Corte costituzionale (1° aprile 1992, n. 148), con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzio­nale dell'articolo 6, comma secondo, della legge 184 nella parte in cui non consente l'adozione di uno o più fratelli in stato di adottabilità quando per uno di essi l'età degli adottanti supera di più di quarant'anni l'età dell'adottando, e dalla sepa­razione deriva un danno grave per il venir meno della comunanza di vita e di educazione (cfr., in questo numero, l'articolo "Sentenza inquietante della Corte costituzionale").

 

6. A questo punto ci sia consentito di mettere in evidenza un altro pericolo ancor più serio che si sta profilando all'orizzonte nel settore del­le adozioni: e cioè il pericolo che in nome di un presunto "interesse" del minore finiscano per prendere piede delle prassi che in concreto va­dano, viceversa, ad assecondare prevalentemen­te, se non esclusivamente, le aspettative degli adulti. E questa preoccupazione deve essere espressa con estrema fermezza per quanto ri­guarda la questione che quanto prima la Corte costituzionale dovrà esaminare in merito all'ec­cezione di incostituzionalità sollevata dalla Corte d'appello di Venezia con riferimento all'attuale testo dell'articolo 27 della legge 184, nella parte in cui non prevede la revoca dell'adozione legitti­mante di un minore (ordinanza 20 dicembre 1991).

Il caso, da quel poco che si riesce a capire dal­la lettura dell'ordinanza dei giudici, sembra esse­re il seguente. Una coppia ha chiesto al Tribunale per i minorenni la revoca dell'adozione di un mi­nore da essa adottato, essendosi il ragazzo (non ne è indicata l'età, né è indicata quella dei geni­tori adottivi) «allontanato dall'abitazione per an­dare a vivere con la madre naturale». Orbene, la Corte di Venezia, nell'accogliere l'eccezione sol­levata dai legali della coppia, scrive che, nei casi di "fallimento" del rapporto adozionale, la revoca dell'adozione si porrebbe come una doverosa forma di "protezione" dell'adottato, qualora si sia in presenza di «gravi motivi da valutare dal giudi­ce caso per caso» (come, ad esempio, la possibi­lità di un ripristino dei rapporti con i genitori di origine): soluzione, questa, che ad opinione di quella Corte sarebbe la stessa che è stata accol­ta a suo tempo dalla Convenzione europea di Strasburgo sull'adozione di minori del 24 aprile 1967 - ratificata dall'Italia i125 maggio 1976 - e precisamente dall'articolo 13, oltre ad essere raccomandata dalla considerazione che esclude­re ogni possibilità di revoca dell'adozione (ad ec­cezione di quella consentita dagli articoli 51 e se­guenti della legge 184 per l'adozione in casi par­ticolari) spingerebbe «al di là del necessario» la «finzione di biologicità della filiazione adottiva» (sic!).

In questi tempi di "picconate", siamo ormai abituati al peggio. Ciò non toglie che questo mal­destro tentativo di demolire dalle sue fondamen­ta l'istituto dell'adozione debba essere respinto con ogni energia. Accondiscendervi anche solo con riserva significherebbe semplicemente an­nullare con un colpo di spugna la profonda ra­gion d'essere dell'istituto, azzerando quella "cultura dell'adozione" acquisita grazie ad una inte­grale evoluzione del costume, facendoci precipi­tare ai tempi in cui l'adozione era circoscritta al rango di palliativo dell'abbandono, un'opera di misericordia e di carità lasciata all'insindacabile e volubile disponibilità degli adottanti.

Dev'essere chiaro, al contrario, che la scelta adozionale introdotta dal legislatore del 1967 e poi perfezionata da quello del 1983 si identifica per sua stessa essenza con il rapporto familiare tout court, attraverso l'instaurazione di un vincolo di genitorialità responsabili, rappresentando la matrice di quella rete di educazione e di amore che, allo stesso modo della filiazione naturale, può essere recisa soltanto da una situazione di rifiuto o di incapacità irreversibili. Pensare, allora, di rivolgersi al giudice per chiedergli di annullare il rapporto di filiazione, sia che si tratti di figli bio­logici, sia che si tratti di figli adottivi, non può che avere sempre e soltanto un unico significato: quello di abdicare alla propria figura di genitore. E questo equivale a riaprire per il figlio, per qual­siasi figlio, l'odissea dell'abbandono. Allo stesso modo del figlio respinto da chi lo ha generato.

È davvero triste dover ritornare ancora una vol­ta su questi discorsi.

A mero titolo di postilla, è appena il caso di ri­cordare, infine, che l'affermazione della Corte di Venezia, secondo la quale nell'escludere la revo­ca dell'adozione piena dei minori la legislazione italiana non si sarebbe attenuta al dettato dell'ar­ticolo 13 della convenzione di Strasburgo, è semplicemente frutto di un grossolano abbaglio, poiché il senso di tale disposizione è quello di raccomandare, a quegli Stati che ammettono an­cora la revoca dell'adozione, di farla almeno di­pendere non dalla esclusiva volontà dei privati, ma di affidarla al sindacato decisionale dell'auto­rità statale.

 

 

TESTO DELL'ORDINANZA DELLA CORTE DI APPELLO, SEZIONE MINORI DI VENEZIA

 

La Corte di appello ha pronunciato la seguen­te ordinanza nella causa promossa in appello con ricorso depositato il 28 giugno 1991 da G.A e R.A., rappresentati e difesi dall'avv. M.L.M. per mandato a margine del ricorso ex art. 742 del c.p.c., con domicilio eletto nello studio della stessa in Mestre, via Q.; reclamanti, con l'inter­vento del p.g. presso l'intestata Corte.

Oggetto: Riforma del decreto 13 maggio 1991 del tribunale per i minorenni di Venezia; in pun­to: Revoca adozione minore.

Causa trattata in camera di consiglio il 20 di­cembre 1991.

 

Ritenuto in fatto

 

Con decreto 13 maggio 1991 il tribunale per i minorenni di Venezia respinse l'istanza di revo­ca dell'adozione legittimante del minore G.L. proposta dai genitori adottivi G.A. e R.A., i quali avevano fatto presente che il predetto minore si era allontanato dalla loro abitazione per andare a vivere con la madre naturale LM.I. e che lo stesso p.m. aveva quindi richiesto che fosse for­malizzato l'affidamento a quest'ultima, osservan­do che la revoca dell'azione ai sensi degli artt. 51 e seguenti, legge n. 184/1983, è prevista solo in ipotesi tassativa.

Hanno proposto reclamo, con ricorso deposi­tato il 28 giugno 1991 i predetti coniugi ribaden­do che il tribunale, con il decreto 17 dicembre 1990, con il quale aveva affidato il minore al ser­vizio sociale ai sensi dell'art. 25 l.m. con facoltà di autorizzarlo a risiedere presso la madre natu­rale aveva di fatto ripristinato i rapporti con que­sta.

Successivamente gli stessi hanno proposto eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 27 della legge n. 184/1983 in quanto non preve­de alcuna possibilità di revoca del decreto di adozione.

Il p.g. si è associato alla predetta eccezione, sia pure sotto diverso profilo.

 

Considerato in diritto

 

L'eccezione non è manifestamente infondata. È da premettere che erroneamente il tribunale ha ritenuto astrattamente ammissibile la revoca pur respingendo l'istanza per insussistenza di una delle ipotesi tassative previste dagli artt. 51 e seguenti della legge n. 184/1983, in quanto nella fattispecie si tratti non già di adozione in casi particolari, per la quale è prevista tale limi­tata possibilità di revoca, ma di adozione legitti­mante, che non può essere revocata per nessun motivo. L'adozione legittimante appare "immagi­ne" della famiglia legittima, nella quale non può certo revocarsi il rapporto di filiazione. Lo status conferito dall'adozione legittimante o piena può cessare solo per effetto di un'altra adozione pie­na (la quale presuppone, naturalmente, che il minore venga a trovarsi nuovamente in stato di abbandono).

Anche chi, in dottrina, ritiene che l'esclusione di ogni forma di revoca sia condivisibile, reputa tuttavia che una possibilità di controllo, seppur cauto e discreto, da parte del tribunale sarebbe stata forse auspicabile in quanto incomprensio­ni, contrasti dei genitori adottivi con l'ambiente circostante, e magari la tentazione di attribuire le difficoltà del rapporto alla nascita "estranea" sono sempre possibili.

Sul piano del diritto comparato si deve poi osservare che, accanto a legislazioni che accol­gono la soluzione della piena equiparazione della filiazione adottiva a quella legittima, come quella francese (art. 359 code civil) e quella belga (art. 370 par. 5 code civil), oltre a quella italiana, ne esistono altre in cui vige la regola opposta in tema di revoca, come quella olande­se (art. 231 cod. civ.) e quella tedesca (pas. 1763 B G B).

Si può peraltro rilevare la sussistenza di un orientamento di ordine generale nelle regola­mentazioni moderne dell'adozione, legittimante o meno, volto a configurare la revoca come uno strumento di protezione dell'adottato contro il fallimento del rapporto, utilizzabile principal­mente allo scopo di rendere possibile una nuo­va adozione o di ripristinare legami familiari preesistenti. Tale orientamento si manifesta so­prattutto nelle disposizioni che espressamente limitano la revoca al caso che essa sia richiesta dall'interesse dell'adottato, come quella olande­se e tedesca da ultimo ricordate, ma la realizza­zione delle esigenze che vi stanno a base è resa ugualmente possibile dalla crescente diffusione di clausole legislative generali che, anziché elencare specifiche cause legali di dissoluzione del rapporto, subordinano la revoca unicamente alla presenza di gravi motivi da valutarsi dal giu­dice caso per caso. Una tale soluzione è accolta anche dall'art. 13, primo comma, della conven­zione europea sull'adozione di minori del 24 aprile 1967, ratificata il 25 maggio 1976. Si po­trebbe profilare un contrasto della normativa ita­liana con tale convenzione (ratificata senza ri­serva sul punto) e, sul piano costituzionale, con l'art. 10, primo comma, della Costituzione giac­ché, per quanto esposto, l'esclusione di ogni possibilità di revoca sarebbe contraria alle nor­me di diritto internazionale generalmente rico­nosciute.

Il mantenimento, sia pure in ipotesi tassativa, della possibilità di revoca delle ipotesi di adozio­ne in casi particolari sembra poi contrastare con l'art. 3 della Costituzione, soprattutto se si considera che l'ipotesi di cui all'art. 44 lettera C) non si differenzia sostanzialmente da quelle che danno luogo all'adozione legittimante presuppo­nendo anch'essa l'accertamento dello stato di abbandono e la conseguente dichiarazione del­lo stato di adottabilità.

Come ha poi rilevato la dottrina, riecheggiata dai reclamanti, l'esclusione di ogni revoca a be­neficio esclusivo dell'adottato (divenuto capace) negli stessi limiti circoscritti adombrati dalla convenzione di Strasburgo comporta che la fin­zione di "biologicità" della filiazione adottiva sia spinta al di là del necessario forzando il dato della equiparazione dello status con effetti che, a ben vedere, possono essere contrastanti pro­prio con l'interesse del minore che viene nor­malmente invocato a favore della scelta oppo­sta. Si deve, tra l'altro, osservare che l'istituto dell'adozione legittimante si giustifica, sotto il profilo costituzionale, in base all'art. 30, secon­do comma della Costituzione per il quale «nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti». Tale fonda­mento costituzionale dell'istituto ne segua an­che il limite nel senso che ove ricorrano gravi motivi quale il fallimento dell'adozione, che co­stituisce ovviamente il motivo fondamentale, e, quale motivo subordinato, la possibilità di un ri­pristino dei rapporti con i genitori naturali, non vi è motivo di escludere la revoca, la cui esclusio­ne appare contrastante sia con l'interesse dell'adottato sia con ogni criterio di ragionevo­lezza.

 

P.Q.M.

 

Visto l'articolo 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;

Dichiara rilevante e non manifestamente in­fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 della legge 4 maggio 1983, n. 184 in relazione agli artt. 3, 10, 30 della Costituzione in quanto non prevede la revoca dell'adozione le­gittimante, e in particolare per gravi motivi nell'interesse dell'adottato, come stabilito anche dalla convenzione di Strasburgo 24 aprile 1967, ratificata il 25 maggio 1976.

 

 

(1) Cfr. Prospettive assistenziali, n. 97, gennaio-marzo 1992.

 

 

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