Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale
CIAI... IL CORAGGIO DELLE
SCELTE
MASSIMO CAMIOLO (*) GABRIELLA MERGUICI (**)
La nascita del CIAI ed i suoi ideali sono stati il
risultato di un velleitario bisogno di provocazione in una fase storico-culturale piena di fermenti.
Ci si può domandare perché velleitaria: la risposta
è forse più semplice di quanto possa sembrare. Velleitario perché voleva
rappresentare una sfida, con piccole forze nei confronti di un mondo ostile e
molto più forte, una sorta di Davide contro Golia. La storia ci insegna che sono
rari i casi in cui Davide può vincere, o perché soccombe di fronte alla forza
altrui, o perché Golia impara anch'esso ad usare la fionda e quindi non solo è
più possente ma si appropria anche del sapere e degli strumenti del piccolo
Davide.
Il CIAI ha sfidato il "mondo" lanciando per
anni i suoi sassolini con un'efficacia obiettivamente relativa, ma quando il
mondo ha scoperto anch'esso l'adozione internazionale se ne è appropriato
adeguandola alla propria forza ed ai propri bisogni.
Uscendo dalla metafora si potrebbe quasi dire che la
sfida dell'adozione internazionale lanciata dal CIAI è diventata oggi la sfida
di qualcosa che assomiglia all'adozione internazionale lanciata contro il CIAI.
Ciò che era bisogno dell'infanzia si sta trasformando
in necessità dell'adulto, ciò che era impulso per una maggior vicinanza tra
varie etnie si è trasformato in ricerca spasmodica del "bambino
giusto".
Il velleitarismo, quindi, non è dato dalle adozioni
portate a termine (poche o tante che siano), ma dal fatto che l'espansione
dell'adozione internazionale non è il risultato dello sviluppo dl una cultura
dell'accoglienza, bensì di una caccia sfrenata, incontrollata e abnorme ad un
bambino oggetto da possedere e manipolare, oltre che dalla diminuzione di
bambini italiani adottabili.
Non solo, il CIAI ha pensato anche di gestire la
sfida prevalentemente sul piano delle idee, senza rendersi conto fino in fondo
che in realtà l'adozione internazionale, proprio grazie alla sua espansione, è
entrata in una "logica promozionale", nella quale il problema del
potere si presenta in tutta la sua volgarità: fare adozioni internazionali
significa anche trovare il proprio "posto al sole", farsi conoscere,
assumere ruoli importanti, proporsi come mediatore culturale, acquisire
possibilità di controllo sociale, tutti elementi funzionali sia alla
gratificazione di un "rozzo rampantismo" individuale che all'apertura
di strumentali ambiti di proselitismo ideologico.
La differenza tra costoro e il CIAI non è però, come
si diceva, solo negli "effettivi contenuti ideali", ma anche nella
"potenza di fuoco", nelle risorse a disposizione, umane ed economiche
e nella collusione e complicità di apparati pubblici e/o di potere, questi
ultimi, soprattutto, fuori dalla logica del CIAI.
Non è questo, forse, un indizio di velleitarismo?
Sia ben chiaro, Davide qualche impronta l'ha lasciata e non ha perso la fionda,
ma deve incominciare a riflettere se questa è ancora uno strumento efficace.
Certo, raccogliere qualche centinaio di milioni tra
parrocchie, contributi degli Enti locali, donazioni di qualche partito
politico e umanitarismo di qualche corporazione non dispiacerebbe a nessuno,
anche perché non si può negare che le risorse economiche consentono comunque
una maggior presenza culturale e ideale, ma pensare che ciò potrebbe essere
risolutivo non coglie, forse, la complessità delle variabili oggi in campo sul
problema dell'adozione internazionale e della solidarietà interetnica e
interrazziale.
In sostanza, esiste un'Associazione che ritiene,
grazie anche alla propria storia, di avere svolto una funzione sociale di
grande significato, che ha compartecipato, in Italia e all'estero al sostegno
di iniziative culturali, concrete e solide, nei confronti di zone del mondo e
realtà sociali gravemente depauperate e che ha contribuito ad esaudire i
desideri di molti bambini abbandonati secondo procedure e principi corretti e
condivisibili.
Oggi però il CIAI, Insieme ad altri, potrebbe essere
chiamato a rispondere della "corresponsabilità" sia della diffusione
dello spirito solidaristico, sia dell'accoglimento del bambino, ovunque nato
e di qualunque etnia.
Ma se altri non dovessero porre il problema è
comunque opportuno che il CIAI stesso si domandi quali effetti ha prodotto la
sua esistenza e se è ancora sufficiente rimanere chiusi nel "ghetto
adozionale" (in varie forme manifestato) e se la propria mentalità
rispetto a aree culturali di confine non rischia di diventare un vincolo troppo
opprimente.
Se, quindi, la provocazione iniziale, consumata poi
nel cercare di integrare bambini di razza o etnia diversa nella realtà
italiana, sortiva, mediamente, come effetto un alto livello di curiosità, per
le ragioni sopra citate, oggi può incanalarsi in quel filone di intolleranza
che sembrerebbe ingrossarsi in tutta Europa. Certo, non che la curiosità non
contenesse elementi aggressivi e di ostilità, ma la nostra realtà contemporanea
ha visto attenuarsi i fattori di sublimazione e compensazione tanto da
rivivificare le già accennate istanze persecutorie tradotte poi nella minaccia
da parte del "diverso".
La sottrazione di posti di lavoro e la trasformazione
delle strade e delle piazze in slum pieni di mendicanti e venditori, pur essendo
problemi concreti, sembrano però sopraffatti e subalterni ad un tentativo di
esorcizzare e razionalizzare delle istanze arcaiche e primitive legate a un bisogno
di differenziazione. Fallita quindi la catarsi bellica sembrerebbe rientrare
dalla finestra ciò che abbiamo cercato di espellere dalla porta. Anche se i
figli adottivi difficilmente vagheranno per le strade vendendo accendini e lavando
i vetri delle automobili, tenderanno sempre più a rappresentare la
manifestazione della diversità e, contemporaneamente, ad alimentare i sensi di
colpa nei confronti di una umanità tuttora sfruttata e vilipesa. Nello stesso
tempo, la famiglia adottiva percepita nel passato come "buona, brava,
benefica e santificata" tende anch'essa a divenire "strumento del demonio"
che contribuisce ad importare nuova manodopera, a mischiare le culture che
perdono i connotati originari, a mischiare le razze a scapito di una supposta
supremazia e predominanza della razza ariana.
Oltre alle prevedibili e possibili difficoltà di
adattamento sociale e di integrazione (scuola, gruppo dei pari, rapporti tra
partners, lavoro), da una osservazione più approfondita sembrano emergere
ulteriori segnali di disagio facilmente comprensibili sul piano psicologico ma
più difficilmente catalogabili su quello sociale: dai figli adottivi ci si
aspetta che, memori della loro esperienza, esprimano un forte senso di solidarietà,
generosità, ecc. mentre, sempre più spesso, si evidenzia un meccanismo,
definibile come identificazione con l'aggressore, per cui si sviluppa in loro
una intolleranza e una presa di distanza, ma non nei confronti dei bianchi
vissuti come prevaricatori, bensì verso quelli più scuri di loro, più poveri di
loro, più ..., più ...
L'adozione internazionale è quindi ancora solo un
problema che riguarda le famiglie adottive, le Associazioni, le agenzie di
adozione, i tribunali per i minorenni, il mondo della scuola ed i consultori
familiari? L'adozione internazionale riguarda ancora solo l'area degli affetti più intimi e della relazione
genitore/figlio?
Queste domande non dovrebbero rappresentare una
provocazione, od uno sforzo retorico per garantire solamente una riflessione,
bensì indurre una piena assunzione di responsabilità del CIAI e di chi ne
condivide l'esperienza ed un impegno più concreto rispetto a quei problemi
generali che coinvolgono oggi l'umanità.
Il problema delle guerre, delle sperequazioni tra
aree del mondo, dello sfruttamento intensivo di individui e territori, del
razzismo e della intolleranza verso culture differenti, delle ingiustizie e
della negazione della dignità umana sono argomenti che non possono essere
separati dalle condizioni di vita dei minori e da una lotta senza quartiere per
garantire loro, ad ogni latitudine e di qualunque razza, cultura e religione
siano, gli elementi basilari per un sano ed armonico sviluppo psicofisico.
Partecipare attivamente alle battaglie contro i soprusi che affliggono buona
parte dell'umanità è un ulteriore mezzo per confermare al mondo la necessità
di rifondare una vera cultura dell'infanzia; ciò significa, quindi, uscire dal
"ghetto intimistico" nel quale il CIAI si è sostanzialmente isolato,
assumersi le proprie responsabilità di fronte alle istituzioni, alla società
nel suo complesso, ma, soprattutto, rispetto a quei bambini che "a
causa" del CIAI, diretta o indiretta, hanno trovato una loro collocazione
affettiva e sociale in Italia o ancora la stanno cercando.
(*) Consulente CIAI.
(**) Segretario esecutivo CIAI.
www.fondazionepromozionesociale.it