Prospettive assistenziali, n. 98, aprile-giugno 1992

 

 

Notiziario del Centro italiano per l'adozione internazionale

 

 

CIAI... IL CORAGGIO DELLE SCELTE

MASSIMO CAMIOLO (*) GABRIELLA MERGUICI (**)

 

La nascita del CIAI ed i suoi ideali sono stati il risultato di un velleitario bisogno di provocazione in una fase storico-culturale piena di fermenti.

Ci si può domandare perché velleitaria: la ri­sposta è forse più semplice di quanto possa sembrare. Velleitario perché voleva rappresen­tare una sfida, con piccole forze nei confronti di un mondo ostile e molto più forte, una sorta di Davide contro Golia. La storia ci insegna che sono rari i casi in cui Davide può vincere, o perché soccombe di fronte alla forza altrui, o perché Golia impara anch'esso ad usare la fionda e quindi non solo è più possente ma si appropria anche del sapere e degli strumenti del piccolo Davide.

Il CIAI ha sfidato il "mondo" lanciando per anni i suoi sassolini con un'efficacia obiettivamente relativa, ma quando il mondo ha scoperto anch'esso l'adozione internazionale se ne è ap­propriato adeguandola alla propria forza ed ai propri bisogni.

Uscendo dalla metafora si potrebbe quasi dire che la sfida dell'adozione internazionale lanciata dal CIAI è diventata oggi la sfida di qualcosa che assomiglia all'adozione internazionale lanciata contro il CIAI.

Ciò che era bisogno dell'infanzia si sta tra­sformando in necessità dell'adulto, ciò che era impulso per una maggior vicinanza tra varie et­nie si è trasformato in ricerca spasmodica del "bambino giusto".

Il velleitarismo, quindi, non è dato dalle ado­zioni portate a termine (poche o tante che sia­no), ma dal fatto che l'espansione dell'adozione internazionale non è il risultato dello sviluppo dl una cultura dell'accoglienza, bensì di una cac­cia sfrenata, incontrollata e abnorme ad un bambino oggetto da possedere e manipolare, oltre che dalla diminuzione di bambini italiani adottabili.

Non solo, il CIAI ha pensato anche di gestire la sfida prevalentemente sul piano delle idee, senza rendersi conto fino in fondo che in realtà l'adozione internazionale, proprio grazie alla sua espansione, è entrata in una "logica promozio­nale", nella quale il problema del potere si pre­senta in tutta la sua volgarità: fare adozioni in­ternazionali significa anche trovare il proprio "posto al sole", farsi conoscere, assumere ruoli importanti, proporsi come mediatore culturale, acquisire possibilità di controllo sociale, tutti elementi funzionali sia alla gratificazione di un "rozzo rampantismo" individuale che all'apertu­ra di strumentali ambiti di proselitismo ideo­logico.

La differenza tra costoro e il CIAI non è però, come si diceva, solo negli "effettivi contenuti ideali", ma anche nella "potenza di fuoco", nelle risorse a disposizione, umane ed economiche e nella collusione e complicità di apparati pubblici e/o di potere, questi ultimi, soprattutto, fuori dal­la logica del CIAI.

Non è questo, forse, un indizio di velleita­rismo? Sia ben chiaro, Davide qualche impronta l'ha lasciata e non ha perso la fionda, ma deve incominciare a riflettere se questa è ancora uno strumento efficace.

Certo, raccogliere qualche centinaio di milioni tra parrocchie, contributi degli Enti locali, dona­zioni di qualche partito politico e umanitarismo di qualche corporazione non dispiacerebbe a nessuno, anche perché non si può negare che le risorse economiche consentono comunque una maggior presenza culturale e ideale, ma pensare che ciò potrebbe essere risolutivo non coglie, forse, la complessità delle variabili oggi in campo sul problema dell'adozione internazio­nale e della solidarietà interetnica e interraz­ziale.

In sostanza, esiste un'Associazione che ritie­ne, grazie anche alla propria storia, di avere svolto una funzione sociale di grande significa­to, che ha compartecipato, in Italia e all'estero al sostegno di iniziative culturali, concrete e solide, nei confronti di zone del mondo e realtà sociali gravemente depauperate e che ha contribuito ad esaudire i desideri di molti bambini abbando­nati secondo procedure e principi corretti e condivisibili.

Oggi però il CIAI, Insieme ad altri, potrebbe essere chiamato a rispondere della "correspon­sabilità" sia della diffusione dello spirito solidari­stico, sia dell'accoglimento del bambino, ovun­que nato e di qualunque etnia.

Ma se altri non dovessero porre il problema è comunque opportuno che il CIAI stesso si do­mandi quali effetti ha prodotto la sua esistenza e se è ancora sufficiente rimanere chiusi nel "ghetto adozionale" (in varie forme manifestato) e se la propria mentalità rispetto a aree culturali di confine non rischia di diventare un vincolo troppo opprimente.

Se, quindi, la provocazione iniziale, consuma­ta poi nel cercare di integrare bambini di razza o etnia diversa nella realtà italiana, sortiva, media­mente, come effetto un alto livello di curiosità, per le ragioni sopra citate, oggi può incanalarsi in quel filone di intolleranza che sembrerebbe ingrossarsi in tutta Europa. Certo, non che la curiosità non contenesse elementi aggressivi e di ostilità, ma la nostra realtà contemporanea ha visto attenuarsi i fattori di sublimazione e com­pensazione tanto da rivivificare le già accennate istanze persecutorie tradotte poi nella minaccia da parte del "diverso".

La sottrazione di posti di lavoro e la trasfor­mazione delle strade e delle piazze in slum pieni di mendicanti e venditori, pur essendo problemi concreti, sembrano però sopraffatti e subalterni ad un tentativo di esorcizzare e razionalizzare delle istanze arcaiche e primitive legate a un bi­sogno di differenziazione. Fallita quindi la catar­si bellica sembrerebbe rientrare dalla finestra ciò che abbiamo cercato di espellere dalla por­ta. Anche se i figli adottivi difficilmente vaghe­ranno per le strade vendendo accendini e la­vando i vetri delle automobili, tenderanno sem­pre più a rappresentare la manifestazione della diversità e, contemporaneamente, ad alimentare i sensi di colpa nei confronti di una umanità tut­tora sfruttata e vilipesa. Nello stesso tempo, la famiglia adottiva percepita nel passato come "buona, brava, benefica e santificata" tende anch'essa a divenire "strumento del demonio" che contribuisce ad importare nuova manodo­pera, a mischiare le culture che perdono i con­notati originari, a mischiare le razze a scapito di una supposta supremazia e predominanza della razza ariana.

Oltre alle prevedibili e possibili difficoltà di adattamento sociale e di integrazione (scuola, gruppo dei pari, rapporti tra partners, lavoro), da una osservazione più approfondita sembrano emergere ulteriori segnali di disagio facilmente comprensibili sul piano psicologico ma più diffi­cilmente catalogabili su quello sociale: dai figli adottivi ci si aspetta che, memori della loro esperienza, esprimano un forte senso di solida­rietà, generosità, ecc. mentre, sempre più spes­so, si evidenzia un meccanismo, definibile come identificazione con l'aggressore, per cui si svi­luppa in loro una intolleranza e una presa di di­stanza, ma non nei confronti dei bianchi vissuti come prevaricatori, bensì verso quelli più scuri di loro, più poveri di loro, più ..., più ...

L'adozione internazionale è quindi ancora so­lo un problema che riguarda le famiglie adottive, le Associazioni, le agenzie di adozione, i tribuna­li per i minorenni, il mondo della scuola ed i con­sultori familiari? L'adozione internazionale ri­guarda ancora solo l'area degli affetti più intimi e della relazione genitore/figlio?

Queste domande non dovrebbero rappresen­tare una provocazione, od uno sforzo retorico per garantire solamente una riflessione, bensì indurre una piena assunzione di responsabilità del CIAI e di chi ne condivide l'esperienza ed un impegno più concreto rispetto a quei problemi generali che coinvolgono oggi l'umanità.

Il problema delle guerre, delle sperequazioni tra aree del mondo, dello sfruttamento intensivo di individui e territori, del razzismo e della intol­leranza verso culture differenti, delle ingiustizie e della negazione della dignità umana sono ar­gomenti che non possono essere separati dalle condizioni di vita dei minori e da una lotta senza quartiere per garantire loro, ad ogni latitudine e di qualunque razza, cultura e religione siano, gli elementi basilari per un sano ed armonico svi­luppo psicofisico. Partecipare attivamente alle battaglie contro i soprusi che affliggono buona parte dell'umanità è un ulteriore mezzo per con­fermare al mondo la necessità di rifondare una vera cultura dell'infanzia; ciò significa, quindi, uscire dal "ghetto intimistico" nel quale il CIAI si è sostanzialmente isolato, assumersi le proprie responsabilità di fronte alle istituzioni, alla so­cietà nel suo complesso, ma, soprattutto, rispet­to a quei bambini che "a causa" del CIAI, diretta o indiretta, hanno trovato una loro collocazione affettiva e sociale in Italia o ancora la stanno cercando.

 

 

(*) Consulente CIAI.

(**) Segretario esecutivo CIAI.

 

 

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