RIFLESSIONI
SULLA MOSTRA "COMPAGNI SILENZIOSI" ORGANIZZATA DAL COTTOLENGO DI
TORINO
EMILIA DE RIENZO
"Compagni silenziosi", questo è il titolo
della mostra di fotografie che il Cottolengo ha organizzato al Chiostro dello Juvarra in Maria Vittoria 5 a Torino.
È una mostra che non si può guardare senza
riflettere, senza ancora una volta interrogarci su come la nostra società
affronta il problema dell'emarginazione.
- Una prima considerazione è sull'ubicazione della
mostra stessa. Per raggiungerla, infatti, bisogna salire quattro rampe di
scale, il che equivale a dire che gli handicappati non sono invitati. È da
sottolineare che nello stesso edificio a piano terra esiste un lungo corridoio
dove agevolmente avrebbero potuto essere collocate le fotografie.
- Ci siamo chiesti poi leggendo il titolo di chi i
soggetti ritratti fossero "compagni di viaggio"? In genere i compagni
di viaggio sono seduti sullo stesso treno, condividono lo stesso spazio, tra di
loro ci sono continue interrelazioni volontarie o non. Come si può definire
"compagno" chi viaggia su un treno diverso dal nostro, non vive
insieme a noi, è fuori dalla nostra storia?
Ci è sembrato, invece, appropriato il termine
"silenzioso". La mostra è composta, infatti, da
"foto-ritratto", da volti che ci guardano, uomini fuori dal tempo e
dallo spazio. Nulla viene detto della loro storia, dei luoghi in cui hanno
trascorso e trascorrono la loro esistenza: dove mangiano, dove dormono, con
chi parlano, dove possono passeggiare, cosa possono vedere, con chi possono
incontrarsi, insomma come vivono...
Queste
persone sono fotografate fuori dal loro attuale contesto di vita, perché?
- Le fotografie sono accompagnate da brevi commenti
che a volte ci hanno lasciato quanto meno perplessi.
Partiamo
da quello che ci è sembrato il più discutibile come messaggio.
Oddone Camerana dice: «Due secoli - da quando Thomas Jefferson introdusse nella dichiarazione
d'Indipendenza Americana il 2 luglio 1776 il diritto alla felicità - sono
trascorsi gonfiando la insidiosa lista dei diritti: diritto alla salute, alla
pace, alla sicurezza, al benessere, alla cultura, alla pensione, al successo,
alla giovinezza, alla vecchiaia, al rispetto, alla bellezza, al piacere, al
riposo, al divertimento, al viaggio, alla vacanza... una mostruosa
escrescenza, un cattivo fai da te delle illusioni che ci ha stordito, fiancheggiato
da un tribunale infuriato di pretese. Ma non ha diminuito o risolto il bisogno
di essere capiti. Poiché questo vivrà e non si deturperà mai in un
diritto...».
Cosa volesse veramente dire Camerana non è molto
chiaro. Forse avrebbe dovuto fare una distinzione tra quelli che sono diritti
veri e propri facenti parte della nostra normativa e quelle che sono
"pretese" prodotte da una società in cui il consumismo, la pubblicità
e i mass media hanno ragione su ogni senso morale.
- Non possono certo essere considerati
"escrescenza" o prodotto di un "tribunale infuriato di
pretese" diritti come quello della salute, della pace, della sicurezza,
della pensione, ecc.
Non possono essere considerati escrescenze tutti quei
diritti sociali che in questi anni sono nati in difesa dei più deboli. Ci
riferiamo alla legge 184 del 1983 che ha affermato il diritto di ogni minore
ad avere una famiglia, quella d'origine o una adottiva o affidataria.
Ci
riferiamo alla legge sull'integrazione scolastica dei ragazzi handicappati.
Sempre riguardo alle persone handicappate la legge
quadro 104/1992 afferma: «la rimozione
delle cause invalidanti, la promozione dell'autonomia e la realizzazione
dell'integrazione sociale ...» e nel punto c) ribadisce la necessità di «garantire l'intervento tempestivo dei
servizi terapeutici e riabilitativi che assicurino il recupero consentito
dalle conoscenze scientifiche e dalle tecniche attualmente disponibili, il
mantenimento della persona handicappata nell'ambiente famigliare e sociale, la
sua integrazione e partecipazione alla vita sociale».
Nel 1982, inoltre, su iniziativa dell'ONU si è tenuta
a Vienna un'assemblea mondiale sui problemi della condizione degli anziani.
L'assemblea alla quale hanno partecipato 134 paesi, si è conclusa con
l'adozione di un "Piano di azione
mondiale per l'invecchiamento" . II 30 gennaio 1992 il Parlamento
italiano ha così approvato il progetto obiettivo "Tutela della salute degli anziani" in cui tra gli altri
punti si afferma il diritto alle cure sanitarie domiciliari che permettono
appunto alla persona anziana malata cronica non autosufficiente di continuare a
vivere nel proprio ambiente.
- Non ci si può nascondere che l'affermazione di
nuovi diritti metta in questione vecchi privilegi di cui beneficiavano altre
persone. Alcuni diritti possono essere realizzati solo se vengono imposti ad
altri, compresi gli organi pubblici, un certo numero di obblighi che ne
permettano l'attuazione.
È innegabile che purtroppo molti dei diritti suddetti
siano oggi ancora troppo soltanto sulla carta, ma sta a noi difenderli, lottare
perché vengano predisposte tutte le misure necessarie per renderli
attualizzabili.
Come dice il Cardinale Arcivescovo di Milano Martini:
«Tutto questo ha evidentemente bisogno di
un supporto legislativo e istituzionale, di un trasferimento di risorse
economiche indirizzate a tale priorità sociale e al decisivo criterio di salvaguardare
e proteggere maggiormente i più deboli» e continua dicendo: «Non possiamo proclamare il valore
intangibile della vita senza poi impegnarci a qualificare, in umanità e
dignità, quella dei più deboli che vivono al limite della disperazione o
della solitudine o dell'abbandono!» (1).
- Abbiamo, invece, avuto la sensazione che il
messaggio della mostra fosse solo un valorizzare l'impegno che il Cottolengo
mette nei confronti dei poveri, senza indicare la possibilità di nuove strade,
anzi in un certo senso escludendole.
Giovanni Trovati nel commentare una delle fotografie
dice: «Perché Signore a me hai dato la
luce dell'intelligenza e l'hai negata a questa persona che tu mi dici di
considerare fratello? ( ..) Aiutami a capire questo mistero». Questo e
altri commenti nella mostra denunciano lo sgomento che proviamo di fronte alla
sofferenza, alla miseria, alla diversità. Uno sgomento che però genera solo
un moto interiore e non il desiderio di cambiare una società troppo chiusa
nella difesa dei privilegi di chi ha di più. Ancora Trovati, infatti, dice: «Questa persona, che la fede di Dio Padre
mi dice essere mia sorella, non può lasciarmi tranquillo. lo ho quello che lei
non ha: un mistero di Dio che forse non comprenderò mai, ma che mi impone di
averla sempre presente perché condizioni la mia condotta...».
- Nessuno certamente mette in discussione l'amore che
anima religiosi e laici volontari all'interno delle istituzioni che si
occupano dei più deboli. Questo è un fatto che riguarda la coscienza
individuale e non spetta a nessuno giudicare. Ma un atto d'amore, a nostro
avviso, per essere tale, non deve aver paura di mettersi in discussione alla
luce di nuove conoscenze e dell'evoluzione della storia e soprattutto non deve
creare assiomi quali quello lanciato da L. Mondo su "La Stampa": «L'amore non fabbrica ghetti».
Non si può negare che l'amore che anima quelli che
operano nel Cottolengo sia ispirato ad una posizione di fondo: difendere i
deboli da una società considerata troppo cattiva per poterli integrare,
accettare al suo interno. È bene quindi, creare una struttura dove essi possano
essere curati, amati, accuditi lontano dal male che oggi è così presente nella
nostra società.
Ed allora non si parla più di integrazione nella
società del singolo individuo, ma semmai di integrazione di tutta
l'istituzione all'interno della città da cui però si difende.
È, forse, questa la logica che fa dire a Oddone
Camerana che «il ricoverato della Piccola
Casa della Divina Provvidenza è un cittadino di Torino che abita in via Cottolengo
n. 14. Egli abita lì come altri abita altrove. È solo una questione di recapito...».
E su questi soggetti così «indifesi, perduti che non crescono mai, si chinano le suore che vivono
così il loro sentimento di maternità» che in questo modo affermano quel «diritto a essere capiti» di cui parla
Camerana che «non si deturperà mai in un diritto»!
Insomma, ci sembra allora di capire che per
handicappati, vecchi, malati la cosa migliore non sia essere soggetti di
diritto, ma avere la fortuna di poter essere accolti al Cottolengo o in qualche
struttura dove suore amorevoli si occuperanno di loro dalla nascita fino alla
morte. In questo modo, allontanati da una società cattiva, entreranno in una
buona, studiata apposta per loro.
Forse, è anche vero che in questo modo la società dei
"privilegi" potrà finalmente dimenticarsi di loro, delegarli ad un
piccolo "esercito" di volontari a cui i più deboli dovranno per sempre
essere riconoscenti.
È chiaro, infatti, che "chiudere" in una
struttura significa escludere dalla vita, non lasciarsi implicare, lasciare ad
"altri", i "più buoni, gli eroi, i santi..." il compito di
occuparsi di loro. A1 massimo possiamo offrirci come "volontari" per
poter continuare, però, la nostra vita di sempre accettandone le regole anche
se sdegnosamente non ci piacciono, ma che comunque consideriamo irreversibili.
Noi, invece, condividiamo la posizione del cardinale
Arcivescovo di Milano Martini che dice: «Ho
più volte affermato l'urgenza di "dar voce a chi non ha voce": nel
nostro caso significa aprire e difendere, per i fratelli con handicap gravi e
per le loro famiglie, orizzonti di vita proprio sul luogo e nell'ambiente in
cui vivono». Per questo sottolinea la necessità di «valorizzare modalità di intervento quali: comunità di vita, comunità
alloggio, comunità di pronto intervento, famiglie affidatarie, piano di
assistenza domiciliare, centri educativi diurni» (2).
E conclude affermando che «tali interventi hanno il merito culturale e sociale di riportare sul
territorio le problematiche dell'handicappato grave, di non sradicarlo dal suo
contesto di vita, di creare adeguata solidarietà alle famiglie, di sviluppare
una forte creatività e integrazione, di porre in primo piano interrogativi che
cercano di capire cause e responsabilità per poter sviluppare un concreto
progetto di prevenzione. E, soprattutto, rispondono a una visione di umanità,
solidarietà, rispetto della vita, che raggiunge una profonda radicalità»
(3).
- Le esperienze hanno dimostrato che molti
handicappati considerati "irrecuperabili" hanno trovato persone che
nei loro diversi ruoli sociali hanno saputo vedere anche negli handicappati più
gravi non "persone irrimediabilmente menomate" ma persone
"comunque ricche di potenzialità". È sicuramente questo il caso di
Roberto e Piero usciti proprio dal Cottolengo e la cui testimonianza è
raccolta in Prospettive assistenziali
(5); è il caso della storia di Nicola, un bambino di quattro anni, considerato
da infermieri e dottori "una bestiolina", "un bambino da buttare
dalla finestra" e di cui, invece, la mamma adottiva ha visto «un
risveglio graduale, lento, ma tenace» (6). È la testimonianza di insufficienti
mentali, soggetti affetti da mongolismo che, grazie a nuove leggi, a genitori
tenaci, alla professionalità e all'impegno di operatori sociali e lavoratori
sono riusciti ad entrare nei circuiti normali della vita. È la testimonianza
anonima di molti e molti altri casi che ancora non sono stati raccontati, ma
che oggi vengono vissuti nella scuola, nei posti di lavoro, nelle famiglie...
- Nel vedere le fotografie della mostra ci siamo
chiesti se almeno alcuni di quei volti non avrebbero potuto avere una vita
diversa da quella a cui sono stati destinati e che è stata scelta per loro.
Difficilmente, infatti, una persona sceglie in presenza di alternative valide
di vivere in un istituto. Nessuno di noi progetta per la propria vita,
soprattutto se in difficoltà, una soluzione che lo escluda dalla propria
famiglia e dal proprio ambiente.
- Rimane comunque vero quello che dice il Cardinale
Martini che le esperienze positive «sono
insufficienti per rappresentare una reale inversione di tendenza al processo
di emarginazione o di affidamento del soggetto grave all'istituto, come unica
risposta alla mancanza di risorse adeguate sul territorio» (7).
- Certo se la società è come la vede Guido Ceronetti
nell'introduzione al catalogo della mostra «un
polipaio» in cui «l'avvelenamento
- egli dice - comincia presto, anzi
subito: la casa, la famiglia, la città avvelenano», l'unica soluzione è la
fuga e rinchiudere in una fortezza chi è più debole per difenderlo.
Altra, invece, è la posizione di Bobbio che dice: «Mi sento abbastanza tranquillo nell'affermare
che la parte oscura della storia dell'uomo sia ben più ampia di quella chiara.
Ma non posso negare che una faccia chiara sia apparsa di tanto in tanto,
sebbene per breve durata. Anche oggi che l'intero corso storico dell'umanità
sembra minacciato di morte, vi sono zone di luce di cui il più convinto
pessimista non può tener conto». E vede come zone di luce proprio «l'interesse
crescente di movimenti, partiti e governi, per l'affermazione, il
riconoscimento, la protezione dei diritti dell'uomo» (8).
Zone di luce sono quelle che vedono molti uomini
impegnarsi perché i soggetti più deboli possano essere restituiti alla società
dopo che per molti secoli ne sono stati esclusi. L'atteggiamento pessimistico,
senza speranza, quasi catastrofico di certi intellettuali, che di fatto non vedono
mai i cambiamenti in positivo, non fa che ritardare con il loro scetticismo, la
loro indolenza e immobilità la realizzazione di quei mezzi che potrebbero
assicurare la realizzazione concreta di una società migliore.
A questi intellettuali chiederemmo meno pressapochismo
negli interventi, più preparazione sui problemi che vogliono trattare e meno
discorsi edificanti dal punto di vista letterario, ma poco costruttivi sul
piano delle proposte. Chiederemmo di produrre una cultura più impegnata e più
coraggiosa per promuovere una nuova mentalità, un nuovo modo di essere che
contrastino quei disvalori che hanno fatto della nostra società quel
"mondo avvelenato" di cui parla Ceronetti.
Il fotografo in un'intervista a La Stampa ha affermato
che dietro ogni volto ritratto al Cottolengo c'è una storia, dei sentimenti,
delle emozioni: perché non raccontarli, perché non far conoscere alla gente il
mondo di sofferenza che sta dietro a quegli occhi al di là della troppo facile
e spesso discutibile e irriverente retorica dei commentatori?
(1) Carlo Maria Martini,
Presentazione del volume di E. De Rienzo - C. Saccoccio - M.G. Breda, Il lavoro conquistato - Storie di
inserimenti di handicappati intellettivi in aziende pubbliche e private, Rosenberg
& Sellier, Torino, 1991, pp. 266.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
(5) Cfr. "Nuovi" istituti,
vecchia emarginazione e gli stessi danni. La storia di Roberto e Piero per
continuare a riflettere, in Prospettive
assistenziali, n. 78, aprile-giugno
1987.
(6) G. Basano, Storia di Nicola - Le conquiste di un bambino handicappato grave nel
racconto della madre adottiva, Rosenberg & Sellier, Torino, 1989.
(7) Ibidem.
(8) N. Bobbio, L'età
dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.
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