Su Salute e
territorio, n. 80 settembre-ottobre 1992 sono stati pubblicati due
articoli: "L'incertezza dei diritti degli anziani" di Cristiano Di
Francia, ricercatore del Labos, e "I servizi per disabili" di Antonio
Samà, formatore dello stesso ente.
Il primo sostiene che c'è «un notevole grado di incertezza complessiva nella definizione dei
diritti di tutela sociale per quanto riguarda gli anziani e nella conseguente
possibilità, da parte di questi ultimi, di poterli vedere riconosciuti e soddistatti».
Ci sembra questo un modo molto scorretto di
presentare il problema, in quanto l'anziano, essendo - com'è ovvio - un
cittadino, gode di tutti i diritti riconosciuti dalla Costituzione e dalle leggi
alla popolazione.
Fra le numerose disposizioni, ricordiamo quelle
concernenti le cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, disposizioni che il
Labos si era rifiutato di prendere in considerazione al momento della
predisposizione della ricerca commissionata dal Ministero dell'interno sugli
anziani non autosufficienti (1).
Se il Di Francia vuole aiutare veramente gli anziani,
in particolare quelli più deboli e bisognosi di interventi sociali, perché non
elenca i diritti sanciti da leggi vigenti, non indica gli strumenti
utilizzabili per esigerli e non segnala la documentazione e le esperienze
compiute?
Affermare che i diritti (tutti?) sono incerti, rappresenta
- anche al di là delle intenzioni - una comoda copertura per gli enti
inadempienti e per il relativo personale.
Siamo, invece, perfettamente d'accordo con Di Francia
quando afferma che «se i servizi socio-assistenziali
hanno una funzione di regolazione e compensazione rispetto alle inefficienze o
ai bassi livelli di accessibilità delle strutture, dei servizi e delle
infrastrutture sociali, sanitarie, economiche, culturali, appare fuorviante
indirizzare sforzi alla rincorsa di servizi speciali, piuttosto che non
all'adeguamento dell'offerta dei servizi generali».
Per quanto riguarda l'articolo di Antonio Samà, è
sorprendente l'affermazione secondo cui «la
legge quadro per l'handicap (..) sancisce, rende esigibili e legittimi diritti
che si sono costruiti nel corso degli ultimi decenni. È una legge che assume l'integrazione
sociale quale principio fondativo e su di esso fa ruotare l'enunciazione di
diritti specifici: diritto all'aiuto personale (art. 9), diritto all'educazione
e all'istruzione (artt. 12, 13, 14, 15, 16), diritto alla formazione professionale
(art. 17), diritto al lavoro (art. 18), diritto alla mobilità (artt. 24, 26,
27), diritto allo sport (art 23), diritto alla partecipazione (artt. 29, 30),
ecc.».
Ma Samà ha letto la legge? Non ha trovato più di
venti volte le parole «il servizio può essere istituito», «gli enti possono» e
mai «gli enti devono»?
Poiché l'art. 9 della legge 104/1992 è così redatto:
«Il servizio di aiuto personale, che può
essere istituito dai comuni o dalle unità sanitarie locali nei limiti delle
proprie ordinarie risorse di bilancio, è diretto...», è ovvio che non è
enunciato nessun diritto, ma è solo indicata una possibilità che gli enti,
oltretutto, possono concretizzare esclusivamente «nei limiti delle proprie ordinarie risorse di bilancio». Altro che
diritto!?!
Analoghe
considerazioni valgono per gli altri "diritti" inventati da Samà.
Le chiavi sbagliate
Nell'articolo "Le chiavi della gabbia" (La rivista del volontariato, n. 5,
1992), Michele Bertola sostiene che «solo
con la legge 142 del 1990, la riforma delle autonomie locali, il Comune si incammina
su una strada dove l'autonomia locale si afferma a discapito di una logica
statale di servizi e funzioni».
Al riguardo si ricorda che il regio decreto 19
novembre 1889 n. 6535 prevedeva che «mancando
o essendo insufficiente il concorso degli enti sopra indicati (ricoveri di
mendicità, istituti equivalenti, confraternite, n.d.r.), la spesa totale o parziale di mantenimento sarà a carico dei Comuni di
origine».
Da segnalare che l'art. 2 del suddetto regio decreto
stabiliva quanto segue: «Sono considerate
come inabili a qualsiasi lavoro proficuo le persone dell'uno e dell'altro
sesso, le quali per infermità cronica o per insanabili difetti fisici o intellettuali
non possono procacciarsi il modo di sussistenza. La legge ritiene come inabili
i fanciulli che non hanno compiuto i 12 anni».
Dunque, da più di 100 anni i Comuni sono per la legge
(purtroppo molto spesso non rispettata) obbligati a provvedere ai minori (il
limite di 12 anni è stato successivamente elevato ai 15), agli handicappati e
agli anziani (le persone sono considerate inabili al lavoro dopo il pensionamento).
Le norme sopra riportate sono state confermate dal
regio decreto 3 marzo 1934 n. 383 "Testo unico della legge comunale e
provinciale, il cui art. 91 sanciva nei confronti dei Comuni: «Sono obbligatorie le spese concernenti (..)
il mantenimento degli inabili al lavoro», e cioè nuovamente quelle
relative ai minori, agli handicappati e agli anziani (2).
Dunque è da più di un secolo che i Comuni sono tenuti
dalla legge a svolgere una funzione rilevante nel campo dell'assistenza.
Com'è noto, il ruolo centrale dei Comuni è stato
confermato dal DPR 24 luglio 1977 n. 616 che ha disposto il trasferimento ai
Comuni stessi di «tutte le funzioni
amministrative relative all'organizzazione e alla erogazione dei servizi di
assistenza e beneficenza».
Il DPR 616/1977 prevedeva inoltre quanto segue: «La Regione determina con legge, sentiti i
Comuni interessati, gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi
sociali e sanitari, promuovendo forme di cooperazione fra gli enti locali
territoriali e, se necessario, promuovendo ai sensi dell'ultimo comma dell'art.
117 della Costituzione forme anche obbligatorie di associazione fra gli
stessi. Gli ambiti territoriali di cui sopra devono concernere contestualmente
la gestione dei servizi sociali e sanitari».
In base alle norme sopra specificate in alcune
Regioni (Umbria, Veneto, Lombardia, Piemonte, ecc.), in certi casi anche su
iniziativa dei gruppi di volontariato (3), sono state approvate leggi dì
riordino dei servizi, leggi che hanno consentito, dove sono state applicate
correttamente, non solo la continuità delle prestazioni prima assicurate dalla
miriade di enti, organi e uffici disciolti (oltre 50 mila), ma anche il
miglioramento, a volte rilevante, delle condizioni di vita degli assistiti.
Purtroppo una gran parte delle Regioni non ha dato
attuazione al DPR 616/1977 e quasi tutti i Comuni non hanno sollecitato
iniziative al riguardo, determinando situazioni altamente lesive per gli assistiti,
situazioni che si riscontrano ancora oggi dopo 15 anni dall'entrata in vigore
del DPR 616/1977.
Non è dunque assolutamente esatto quel che afferma M.
Bertola e cioè «il Comune si trova
"caricato" di domande che non trovano possibilità di risposta immediata
e precisa proprio per difetto di competenza». È, invece, vero che molti
Comuni da più di un secolo violano le leggi, fra l'altro senza che nessuno
degli organi preposti alla vigilanza, in primo luogo le Prefetture, abbia mosso
un dito.
Ciò premesso, è evidente che, se vogliono veramente
operare a favore delle esigenze e dei diritti delle persone in grave difficoltà
personale e familiare, i gruppi di volontariato devono in primo luogo chiedere
alle Regioni e ai Comuni di dare attuazione alle leggi vigenti, la prima delle
quali - come abbiamo scritto - risale addirittura al secolo scorso.
Inoltre, occorre - aspetto del tutto ignorato dalla
legge 142/1990 - che i gruppi di volontariato rilancino l'esigenza della
definizione di ambiti territoriali identici per i servizi sociali, sanitari,
assistenziali, in modo da rendere possibile la costituzione di un unico governo
locale, condizione indispensabile per una adeguata integrazione dei servizi.
Al riguardo, si fa presente che in Italia su 8.100 Comuni
ve ne sono ben 7.065 con una popolazione inferiore ai 10 mila abitanti, e
quindi nell'assoluta impossibilità di istituire e gestire servizi sanitari,
sociali e assistenziali: la loro unione è quindi urgente e indispensabile.
(1) Cfr. F. SANTANERA, "Ricerca
Labos sugli anziani non autosufficienti: metodologia e conclusioni
fuorvianti", Prospettive
assistenziali, n. 82, aprile-giugno 1988 e n. 85, gennaio-marzo 1989.
(2) Lo stesso R.D. attribuiva alle Province le competenze in
materia di assistenza «agli infanti
illegittimi, abbandonati od esposti all'abbandono, ai ciechi e ai sordomuti».
(3) Si ricorda, al riguardo, la
proposta di legge regionale "Riorganizzazione dei servizi sanitari e
assistenziali e costituzione dell'unità locale di tutti i servizi",
presentata con iniziativa popolare al Consiglio regionale piemontese il 21
luglio 1978 con 13.167 firme.
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