Prospettive assistenziali, n. 101, gennaio-marzo 1993

 

 

AGLI ESPERTI CHIEDIAMO OBIETTIVITÀ E COMPETENZA

 

 

Su Salute e territorio, n. 80 settembre-ottobre 1992 sono stati pubblicati due articoli: "L'incertezza dei diritti degli anziani" di Cristiano Di Francia, ricercatore del Labos, e "I servizi per disabili" di Antonio Samà, formatore dello stesso ente.

Il primo sostiene che c'è «un notevole grado di incertezza complessiva nella definizione dei diritti di tutela sociale per quanto riguarda gli anziani e nella conseguente possibilità, da parte di questi ultimi, di poterli vedere riconosciuti e soddi­statti».

Ci sembra questo un modo molto scorretto di presentare il problema, in quanto l'anziano, essendo - com'è ovvio - un cittadino, gode di tutti i diritti riconosciuti dalla Costituzione e dalle leggi alla popolazione.

Fra le numerose disposizioni, ricordiamo quelle concernenti le cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, disposizioni che il Labos si era rifiutato di prendere in considerazione al momento della predisposizione della ricerca commissionata dal Ministero dell'interno sugli anziani non autosufficienti (1).

Se il Di Francia vuole aiutare veramente gli anziani, in particolare quelli più deboli e bisognosi di interventi sociali, perché non elenca i diritti sanciti da leggi vigenti, non indica gli strumenti utilizzabili per esigerli e non segnala la documentazione e le esperienze compiute?

Affermare che i diritti (tutti?) sono incerti, rappresenta - anche al di là delle intenzioni - una comoda copertura per gli enti inadempienti e per il relativo personale.

Siamo, invece, perfettamente d'accordo con Di Francia quando afferma che «se i servizi socio-assistenziali hanno una funzione di regolazione e compensazione rispetto alle inefficienze o ai bassi livelli di accessibilità delle strutture, dei servizi e delle infrastrutture sociali, sanitarie, economiche, culturali, appare fuorviante indirizzare sforzi alla rincorsa di servizi speciali, piutto­sto che non all'adeguamento dell'offerta dei ser­vizi generali».

Per quanto riguarda l'articolo di Antonio Samà, è sorprendente l'affermazione secondo cui «la legge quadro per l'handicap (..) sancisce, rende esigibili e legittimi diritti che si sono costruiti nel corso degli ultimi decenni. È una legge che assume l'integrazione sociale quale principio fondativo e su di esso fa ruotare l'enunciazione di diritti specifici: diritto all'aiuto personale (art. 9), diritto all'educazione e all'istruzione (artt. 12, 13, 14, 15, 16), diritto alla formazione profes­sionale (art. 17), diritto al lavoro (art. 18), diritto alla mobilità (artt. 24, 26, 27), diritto allo sport (art 23), diritto alla partecipazione (artt. 29, 30), ecc.».

Ma Samà ha letto la legge? Non ha trovato più di venti volte le parole «il servizio può essere isti­tuito», «gli enti possono» e mai «gli enti devono»?

Poiché l'art. 9 della legge 104/1992 è così redatto: «Il servizio di aiuto personale, che può es­sere istituito dai comuni o dalle unità sanitarie locali nei limiti delle proprie ordinarie risorse di bi­lancio, è diretto...», è ovvio che non è enunciato nessun diritto, ma è solo indicata una possibilità che gli enti, oltretutto, possono concretizzare esclusivamente «nei limiti delle proprie ordinarie risorse di bilancio». Altro che diritto!?!

Analoghe considerazioni valgono per gli altri "diritti" inventati da Samà.

 

Le chiavi sbagliate

Nell'articolo "Le chiavi della gabbia" (La rivista del volontariato, n. 5, 1992), Michele Bertola sostiene che «solo con la legge 142 del 1990, la ri­forma delle autonomie locali, il Comune si incammina su una strada dove l'autonomia locale si afferma a discapito di una logica statale di ser­vizi e funzioni».

Al riguardo si ricorda che il regio decreto 19 novembre 1889 n. 6535 prevedeva che «man­cando o essendo insufficiente il concorso degli enti sopra indicati (ricoveri di mendicità, istituti equivalenti, confraternite, n.d.r.), la spesa totale o parziale di mantenimento sarà a carico dei Co­muni di origine».

Da segnalare che l'art. 2 del suddetto regio decreto stabiliva quanto segue: «Sono conside­rate come inabili a qualsiasi lavoro proficuo le persone dell'uno e dell'altro sesso, le quali per infermità cronica o per insanabili difetti fisici o in­tellettuali non possono procacciarsi il modo di sussistenza. La legge ritiene come inabili i fan­ciulli che non hanno compiuto i 12 anni».

Dunque, da più di 100 anni i Comuni sono per la legge (purtroppo molto spesso non rispettata) obbligati a provvedere ai minori (il limite di 12 anni è stato successivamente elevato ai 15), agli handicappati e agli anziani (le persone sono considerate inabili al lavoro dopo il pensiona­mento).

Le norme sopra riportate sono state confer­mate dal regio decreto 3 marzo 1934 n. 383 "Te­sto unico della legge comunale e provinciale, il cui art. 91 sanciva nei confronti dei Comuni: «Sono obbligatorie le spese concernenti (..) il mantenimento degli inabili al lavoro», e cioè nuo­vamente quelle relative ai minori, agli handicap­pati e agli anziani (2).

Dunque è da più di un secolo che i Comuni sono tenuti dalla legge a svolgere una funzione rilevante nel campo dell'assistenza.

Com'è noto, il ruolo centrale dei Comuni è stato confermato dal DPR 24 luglio 1977 n. 616 che ha disposto il trasferimento ai Comuni stessi di «tutte le funzioni amministrative relative all'organizzazione e alla erogazione dei servizi di assi­stenza e beneficenza».

Il DPR 616/1977 prevedeva inoltre quanto se­gue: «La Regione determina con legge, sentiti i Comuni interessati, gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sociali e sanitari, pro­muovendo forme di cooperazione fra gli enti lo­cali territoriali e, se necessario, promuovendo ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 117 della Costi­tuzione forme anche obbligatorie di associazione fra gli stessi. Gli ambiti territoriali di cui sopra de­vono concernere contestualmente la gestione dei servizi sociali e sanitari».

In base alle norme sopra specificate in alcune Regioni (Umbria, Veneto, Lombardia, Piemonte, ecc.), in certi casi anche su iniziativa dei gruppi di volontariato (3), sono state approvate leggi dì riordino dei servizi, leggi che hanno consentito, dove sono state applicate correttamente, non solo la continuità delle prestazioni prima assicu­rate dalla miriade di enti, organi e uffici disciolti (oltre 50 mila), ma anche il miglioramento, a vol­te rilevante, delle condizioni di vita degli assistiti.

Purtroppo una gran parte delle Regioni non ha dato attuazione al DPR 616/1977 e quasi tutti i Comuni non hanno sollecitato iniziative al ri­guardo, determinando situazioni altamente lesive per gli assistiti, situazioni che si riscontrano ancora oggi dopo 15 anni dall'entrata in vigore del DPR 616/1977.

Non è dunque assolutamente esatto quel che afferma M. Bertola e cioè «il Comune si trova "caricato" di domande che non trovano possibilità di risposta immediata e precisa proprio per di­fetto di competenza». È, invece, vero che molti Comuni da più di un secolo violano le leggi, fra l'altro senza che nessuno degli organi preposti alla vigilanza, in primo luogo le Prefetture, abbia mosso un dito.

Ciò premesso, è evidente che, se vogliono veramente operare a favore delle esigenze e dei diritti delle persone in grave difficoltà personale e familiare, i gruppi di volontariato devono in pri­mo luogo chiedere alle Regioni e ai Comuni di dare attuazione alle leggi vigenti, la prima delle quali - come abbiamo scritto - risale addirittura al secolo scorso.

Inoltre, occorre - aspetto del tutto ignorato dalla legge 142/1990 - che i gruppi di volonta­riato rilancino l'esigenza della definizione di am­biti territoriali identici per i servizi sociali, sanita­ri, assistenziali, in modo da rendere possibile la costituzione di un unico governo locale, condi­zione indispensabile per una adeguata integra­zione dei servizi.

Al riguardo, si fa presente che in Italia su 8.100 Comuni ve ne sono ben 7.065 con una popolazione inferiore ai 10 mila abitanti, e quindi nell'assoluta impossibilità di istituire e gestire servizi sanitari, sociali e assistenziali: la loro unione è quindi urgente e indispensabile.

 

 

 

(1) Cfr. F. SANTANERA, "Ricerca Labos sugli anziani non autosufficienti: metodologia e conclusioni fuorvianti", Prospettive assistenziali, n. 82, aprile-giugno 1988 e n. 85, gennaio-marzo 1989.

 (2) Lo stesso R.D. attribuiva alle Province le competenze in materia di assistenza «agli infanti illegittimi, abbandonati od esposti all'abbandono, ai ciechi e ai sordomuti».

(3) Si ricorda, al riguardo, la proposta di legge regionale "Riorganizzazione dei servizi sanitari e assistenziali e co­stituzione dell'unità locale di tutti i servizi", presentata con iniziativa popolare al Consiglio regionale piemontese il 21 luglio 1978 con 13.167 firme.

 

 

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