EUTANASIA ATTIVA, PASSIVA E DA
ABBANDONO
MARIA GRAZIA BREDA
Da alcuni mesi si parla molto "di eutanasia. Non
solo più in America, dove il dibattito è iniziato da alcuni anni, ma anche
nella nostra Europa e per la precisione in Olanda.
"La buona morte", questo significa il
termine in Olanda, può essere praticata dal medico quando il suo malato, in
fase terminale, gli chiede di morire.
L'autorizzazione ai medici è arrivata in questi
giorni dal parlamento olandese, una votazione che ha suscitato reazioni profonde,
anche in Italia (1).
Si è riaperto così l'eterno problema: può la società,
con le sue leggi, codificare se e quando un uomo ha diritto o meno di
continuare a vivere? E ancora: ha senso parlare e distinguere tra eutanasia
attiva e eutanasia passiva?
Senza entrare nel merito specifico della questione e
tanto meno senza schierarci pro o contro una delle due tesi, vorremmo tuttavia
porre il problema sull'eutanasia.
Ma di questa pratica, per ora non legale, desideriamo
porre l'accento su un aspetto più marginale, ma non per questo a nostro parere
meno grave, che è l'eutanasia d'abbandono, così come è stata definita dal
Cardinale Carlo Maria Martini e dal Senatore e filosofo Norberto Bobbio nel
corso del convegno tenutosi a Milano il 20-21 maggio 1988 dal titolo
"Anziani cronici non autosufficienti: nuovi orientamenti culturali ed
operativi" (2).
Eutanasia attiva o passiva? Il dibattito è aperto
Apriamo il volume II del Lessico Universale Italiano e leggiamo alla voce eutanasia che: «nel pensiero filosofico si intende la morte
bella, tranquilla e naturale, accettata con spirito sereno e intesa come
perfetto compimento della vita; la morte non dolorosa, procurata o affrettata
mediante l'uso di farmaci atti ad alleviare gli spasmi dell'agonia» (...)
e ancora «la morte che pone fine alle
sofferenze della persona per cui non vi sia più nessuna speranza».
Un
esempio.
«Leon Myszka, un sarto di 78 anni, è inciampato
rovinando giù, fino alla base. La figlia lo ha soccorso, ma si vedeva che era
una brutta ferita. E infatti al Kings Hospital di Brooklyn l'operazione al
cranio non permette che una diagnosi senza speranza. Attaccato al respiratore
automatico Leon Myszka ha davanti a sé solo un calvario senza coscienza. I
figli chiedono che vengano sospese le cure e l'ospedale rifiuta. Il giorno dopo
l'incidente, i tre figli si riuniscono attorno al letto del padre e decidono
di staccargli il respiratore. Quando la vigilanza dell'ospedale arriva, per
Leon Myszka non c'è più nulla da fare. Non ci saranno arresti, le condanne
saranno lievissime» (3).
È questo uno di quei casi che rientrano nella
definizione di eutanasia passiva, che si ottiene cioè astenendosi dalla
prestazione delle cure o con la loro cessazione.
Usata fin dall'antichità e sempre più spesso nella
nostra epoca, al punto che in alcuni Paesi sono state presentate proposte di
legalizzazione, l'eutanasia passiva comunque - secondo il diritto naturale e
secondo recenti pronunce giurisprudenziali - costituisce ancora omicidio volontario
(4).
Fautore indiscusso dell'eutanasia attiva è il
professor Leon Schwatzenberg (5) che afferma: «Quando la malattia è inguaribile e non ci sono più mezzi efficaci,
quando tutte le ultime cure sono state fatte, se il malato ripetutamente,
responsabilmente chiede che venga messa fine ad una vita che per lui non ha
più senso, allora il rispetto della dignità di scelta del malato mi sembra essere
una forma di rispetto della vita» (6).
Per eutanasia attiva si intende, infatti, il cagionare
volontariamente e con azione diretta la morte di un individuo per sottrarlo
alla sofferenza fisica, su sua precisa richiesta.
Il business realizzato dall'autore del libro "L'addio alla vita" (7),
scritto dal dirigente di un'Associazione - Derek Humphry - che si batte per
l'eutanasia, è quanto mai significativo. Il volume, che ha già superato le
centomila copie in America, spiega come fare a togliersi la vita agli aspiranti
suicidi, spesso malati in fase terminale, prima che la mente perda lucidità e
il corpo sia paralizzato dal dolore.
"Divenuti capaci di padroneggiare la vita, che
cosa ci trattiene dal possedere la morte?"
È l'inquietante interrogativo che si pone Giuseppe
Anzani, nell'articolo "La morte self service" apparso su "L'Avvenire" del 10 ottobre 1991.
Nello Stato di Washington - riporta l'articolo - verrà indetto all'inizio di
novembre un referendum per decidere se l'eutanasia deve diventare un diritto,
per chi la chiede: negli ospedali si dovrà prevedere un reparto organizzato,
per uscire dalla vita alla svelta, senza soffrire, senza accorgersi... una
puntura in vena e poi l'ultimo sonno.
«Diritto di
morire invocando la legge. I fautori dell'eutanasia portano ad esempio i
casi-limite: i malati terminali, per i quali la scienza medica non potrebbe
offrire che il tormento di terapie sconfitte, inutilmente dolorose. Ma, al
solito, i casi-limite sono il grimaldello per far saltare la porta e
impadronirsi de! valore della vita...».
Dopo i moribondi incurabili verranno gli handicappati,
poi i pazzi, poi quelli di razza non pura...? È già accaduto nel III Reich,
come ha ricordato il Card. Saldarini, arcivescovo di Torino nel corso di un
incontro tenutosi a Torino il 12 novembre 1991 sul tema "Cultura popolare
e famiglia".
«Una volta
ammesso che la vita è un bene disponibile (...) chi si arbitrerà di dire (...)
che è il momento giusto per decidere di morire?».
Gli elettori di Washington hanno detto no, ribaltando
le previsioni della vigilia, ma non è necessario correre fino a Washington,
poiché anche i medici italiani si sono già pronunciati. Su un campione di 132
anestesisti e rianimatori italiani, il 60% si è mostrato favorevole ad una legge
sull'interruzione della vita di un malato inguaribile giunto alla fase
terminale. È il risultato della prima inchiesta fra i medici italiani,
condotta dall'associazione culturale "Psicoanalisti contro": «Rientra nel dibattito sulla proposta di
regolamentazione dell'eutanasia presentata dal Parlamento europeo all'inizio
di luglio e la cui discussione è prevista in settembre. Degli 80 rianimatori
favorevoli a una legge sull'eutanasia, 60 (il 45,5%) ritengono che debba essere
autorizzata sia !'eutanasia attiva (la somministrazione di una sostanza che
provoca la morte del paziente) sia quella passiva (la sospensione delle cure);
20 (il 15,101o) sono invece favorevoli soltanto all'eutanasia
passiva». «Quasi tutti - ha osservato il coordinatore della ricerca, Emilio
Mordini - hanno ammesso che l'eutanasia è
una realtà negli ospedali italiani, e che i rianimatori sono lasciati soli ad
affrontare le situazioni più drammatiche» (8).
Su posizioni diametralmente opposte a quelle espresse
nella ricerca su citata, è Federico Lenchi di Novara che interviene con la
lettera pubblicata su La Stampa del 26 luglio 1991 dal titolo "La dolce
morte non è una salvezza": «Ho occasione
di leggere periodicamente articoli sull'eutanasia e su medici che, con
argomentazioni falsamente umanitarie, se ne fanno paladini. Ho esercitato in
passato, per 12 anni, la professione di rianimatore, e avendo assistito molti
malati terminali posso assicurare di non averne mai incontrato uno che
desiderasse abbreviare di un solo giorno le sue sofferenze per quanto grandi
fossero. Tutti, indistintamente, anche se depressi o disperati, si
aggrappavano alla vita ed alla scienza medica e fino all'ultimo speravano
nell'impossibile».
Il dibattito in corso sull'eutanasia assume risvolti
a volte drammaticamente concreti, perché si incarna in una società fortemente
selettiva, dove non c'è posto per chi "fa perdere tempo", denaro e
risorse senza capitalizzarle.
«È più
giusto spendere tutti i risparmi per tenere in vita la madre novantenne (in
America la salute si paga...) o mandare il figlio all'Università?» si è chiesto l'autore di una petizione al Tribunale
di Seattle. E gli ospedali - sempre in America - nello scorso mese di maggio a
Minneapolis hanno chiesto ai giudici il permesso legale di non curare più i
pazienti in stato vegetativo.
Anche il coma profondo rientra tra gli argomenti
spinosi e dibattuti. Quando la morte cerebrale può essere davvero definita
tale?
Negrina Negrello (9) solleva il problema dell'illegalità
che - a suo parere - imperversa negli ospedali: certificazioni di morte,
espianti, vengono praticati contro la volontà dei soggetti, o le macchine
vengono staccate per arbitrio medico.
Questi sono i casi che rappresentano la punta più
evidente di quel problema che a noi pare molto più vasto, perché coinvolge
migliaia di persone malate (giovani, adulti, anziani) che, pur non trovandosi
in condizioni estreme - e cioè tra la vita e la morte - come lo sono per
l'appunto le persone in coma profondo o nella fase terminale della vita, sono
ugualmente malate e inguaribili.
Ci riferiamo per esempio ai malati di Aids, e a tutte
quelle persone anziane, malate gravemente con patologie croniche e invalidanti,
irreversibili e, per questo, ridotte ad uno stato di non più autosufficienza,
che le rende dipendenti in tutto e per tutto dagli altri.
Gli ospedali e l'abbandono dei malati cronici non
autosufficienti
Il giorno 7 gennaio 1991 la signora E.G.R. di anni
81, operata al femore, assolutamente incapace di muoversi e stare in piedi da
sola, è stata spedita a casa sua, dove vive sola e priva di parenti anche
prossimi.
L'ospedale dell'Ordine Mauriziano di Torino, presso
il quale era stata ricoverata per l'intervento necessario a causa di una
brutta caduta in casa, non ha esitato a dimetterla, pur conoscendo le sue
precarie condizioni abitative (alloggio, piccolo, riscaldato con stufa a gas,
impossibilità a muoversi e quindi a procurarsi il necessario per mangiare). Né
ha considerato lo stato di salute della signora che, oltre all'immobilizzazione
degli arti inferiori, dovuta all'intervento subito e alla mancanza di
fisioterapia necessaria, presentava già piaghe da decubito al calcagno e segni
evidenti di confusione mentale.
È accaduto ad una signora anziana che, se non fosse caduta, probabilmente avrebbe
continuato a vivere dignitosamente con la solidarietà dei vicini di casa, che
nulla poteva però fare di fronte ad una condizione così grave, bisognosa di
assistenza e cure 24 ore su 24.
Il sociologo Antonio Censi ben evidenzia come il
fenomeno debba essere affrontato con urgenza, perché non riguarda - come a
torto si pensa - solo i vecchi che sono poveri. «L'emergenza cronici è un problema che interessa vasti strati della
popolazione e attraversa settori diversi del nostro sistema di sicurezza sociale.
A pagare i costi del ritardo tecnico, organizzativo e culturale del sistema
non sono soltanto gli anziani, ma anche i loro familiari e gli operatori.
«L'anziano
ricoverato in ospedale, non autosufficiente è considerato una presenza scomoda
e ingombrante per la semplice ragione che evidenzia in modo inequivocabile la
contraddizione di un modello assistenziale costruito in funzione delle esigenze
del paziente "acuto". Il nostro sistema ospedaliero sembra di fatto
ignorare i cambiamenti della domanda di assistenza sanitaria (compresa quella
ospedaliera) prodotti dal processo di invecchiamento della popolazione. Le
ragioni con le quali i responsabili dei reparti ospedalieri tendono a dimettere
i pazienti anziani non autosufficienti cronici sono discutibili sia sotto il
profilo tecnico scientifico che sotto il profilo giuridico. Sotto il profilo
strettamente tecnico le ragioni che vengono addotte per giustificare le
dimissioni di un anziano dell'ospedale sono:
«a) la necessità di impedire che i
posti letto ospedalieri siano tutti occupati dai cronici;
«b)
l'affermazione secondo cui le leggi stabilirebbero che gli ospedali sono
riservati agli ammalati acuti. Sulla base della legislazione vigente il
diritto al ricovero ospedaliero "senza limiti di durata" non è
condizionato da alcun requisito di "acuzie" della malattia, ma bensì
dal requisito della necessità di cure o accertamenti "non normalmente
praticabili a domicilio";
«c) la non
guaribilità delle situazioni di cronicità e di non-autosufficienza e quindi
l'inutilità degli interventi medici, infermieristici, riabilitativi. A questa
obiezione si può rispondere che inguaribile non è sinonimo di incurabile. La
cura può essere finalizzata a ridurre le sofferenze o a rallentare il
processo di perdita dell'autonomia» (10).
Per queste persone malate, inguaribili, sofferenti,
non c'è dibattito. C'è l'omertà, il silenzio, il rifiuto soprattutto di
considerarle un tema di discussione medica. La loro condizione non è ritenuta
- ingiustamente - una condizione di malato grave.
Così, mentre per i malati in fase terminale o in coma
profondo almeno si discute animatamente sull'eutanasia, naturalmente per il
loro bene, per non farli soffrire, per le persone - adulte o anziane -
croniche e non più autosufficienti non si discute neppure. È già scelto.
Non si ha neppure il coraggio di proporre
l'eutanasia, di provvedere direttamente all'eliminazione "fisica"
della persona; la si allontana dall'ospedale condannandola, così, a una lunga
sofferenza, che anticipa spesso di molto la stessa morte, perché non sono più
assicurate le cure e le prestazioni sanitarie, che sono indispensabili per
poter mantenere un livello dignitoso di vita e per limitare in tutta la misura
del possibile il dolore e la sofferenza.
Una volta scaricata dall'ospedale, la persona anziana
cronica non autosufficiente è abbandonata ai suoi familiari (quando ci sono),
che a loro volta sono lasciati soli dal servizio sanitario nazionale (11);
oppure viene ricoverata in strutture non adatte, sovente anche fuori dalle
norme più elementari di sicurezza e garanzia, come sono le pensioni
"abusive", tristemente riportate periodicamente alla ribalta dai
giornali (12). Sembra così assodato che, per chi è anziano cronico e non più
autosufficiente, malato di Aids, malato di Alzheimer, malato inguaribile... sia
praticamente impossibile morire con dignità e con la certezza di poter contare
su una fine naturale, umanamente accettabile, come la terapia del dolore
garantisce, per esempio, ai malati oncologici.
Anche se l'assunzione di certi farmaci può costare
indirettamente qualche giorno di vita in meno, è comunque una soluzione che
permette di morire umanamente: essa non dovrebbe essere negata, così come non
dovrebbero essere negate le cure sanitarie ai malati cronici e non più
autosufficienti.
«A chi è
vecchio, malato e povero in America non resta che spararsi» si legge in un articolo di Siegmund Ginzberg
pubblicato su l'Unità dei 18.9.1991.
Non
crediamo nel modo più assoluto che sia questa una risposta accettabile.
«Bisogna ben
vigilare peraltro, che coloro che hanno realmente bisogno non vengano strumentalizzati
diventando occasione di sperperi e di profitto per organizzazioni intermedie
prive di scrupolo e inclini all'interesse privato e bisogna oltretutto
vigilare, in uno Stato sociale, ispirato alla giustizia e all'equità, che non
si insinuino proposte ispirate all'utilitarismo cinico, per cui, quando il
malato diventa oneroso e inguaribile lo si metta in lista d'attesa per un
abbreviamento eutanasico della vita allo scopo di realizzare risparmi dei
quali, in questi anni spensierati, mai ci si è fatti carico» (13).
La negazione contemporanea della
malattia
Rifiutare di riconoscere lo status di malato alla
persona che si trova in condizioni di cronicità e di non autosufficienza,
autorizza i medici a sottrarsi ad ogni responsabilità nei suoi confronti e
permette a chi governa di operare risparmi considerevoli negando a queste
persone gli stessi diritti previsti per gli altri cittadini malati e, quindi,
gli stessi servizi.
Il continuo impegno del Csa - Comitato per la difesa
dei diritti degli assistiti di Torino si è a lungo diretto a promuovere, per
esempio, forme innovative di intervento in favore di queste persone allo scopo
anche di individuare prestazioni differenziate, che non comportino unicamente
il ricovero ospedaliero o in struttura analoga. Da qui è scaturito il primo (e
purtroppo per ora unico) servizio di ospedalizzazione a domicilio, che - oltre
a dimostrare concretamente che "l'ospedale" pub trasferirsi a casa
dell'ammalato - secondo noi ha affermato ancor più che le persone anziane malate
croniche non autosufficienti sono, dunque, davvero delle persone malate,
curabili con una spesa non rilevante. Infatti il servizio di ospedalizzazione
a domicilio, che cura gli anziani cronici non autosufficienti dimessi dagli
ospedali, è un servizio sanitario.
Recuperiamo senz'altro tutto l'apporto che la
famiglia, quando c'è, è in grado di assicurare al malato, anche anziano, ma il
servizio di ospedalizzazione a domicilio prestato a questi pazienti dimostra
altresì che non basta la "buona volontà" della famiglia per curarli:
sono indispensabili prestazioni mediche, medico-specialistiche, infermieristiche,
riabilitative che nessun familiare può inventarsi, né obbligatoriamente
conoscere e attuare.
Per ora ci si trova in una condizione di disuguaglianza.
Non a tutti i cittadini anziani cronici non autosufficienti è riconosciuto il
diritto ad essere curati a casa, come in ospedale. L'ospedalizzazione a
domicilio, anche se costa meno del ricovero ospedaliero stenta a decollare e la
famiglia è abbandonata a se stessa come leggiamo nella lettera al giornale
che riportiamo tratta da La Stampa
del 7 giugno 1991:
«Mio padre,
già afflitto da morbo di Parkinson, a seguito di una operazione d'urgenza è completamente
immobilizzato nel letto. Per evitare di fargli finire i suoi giorni in un
pensionato, lo teniamo in casa ed è accudito giorno e notte da mia madre (fin
che ce la fa: ha 74 anni) e da una collaboratrice a pagamento. Non muovendosi
più, è pieno di piaghe da decubito (schiena, fianchi, gambe, piedi) che man
mano si espandono. Deve essere medicato 2 volte al giorno e a questa
incombenza provvede mia madre, io (nei giorni festivi e quando posso) e,
saltuariamente, un infermiere a pagamento, in quanto l'infermiera, mandata dal
Servizio Sociale, viene solo un'ora al giorno, ovviamente mai di sabato e di
domenica, e solo quando ha tempo (ha troppi malati da accudire). Il colmo è che
i! Servizio Sanitario, invece di fare di tutto per incentivare chi si tiene il
malato in casa (si pensi a quanto costa al giorno un degente in ospedale),
passa, per il materiale di medicazione, 300.000 lire ogni 3 mesi. Con il
consumo che abbiamo di garze e di cerotti e altro materiale, le 300.000 lire
bastano sì e no per un mese. La pensione che prendono i miei genitori basta
appena a pagare la collaboratrice e l'infermiere. La pensione di invalidità chissà
tra quanti anni arriverà. Ha un senso tutto questo?».
Segue la firma
È per queste ragioni che le perplessità sin qui
sollevate circa l'eutanasia sono a nostro parere estensibili anche all'altro
aspetto del problema, che è appunto quello sommerso e dimenticato dei vecchi
cronici e non autosufficienti.
Queste persone, senza scegliere di morire, di fatto
finiscono prima la propria esistenza, per omissione voluta di cure e interventi
sanitari da parte di chi è tenuto, per legge, a mantenerle in condizioni di
vita accettabile (14).
E
in questi casi non possiamo parlare neppure di "buona morte".
Morire perché lo decide chi comanda
La
dimissione di un malato cronico non autosufficiente non è eutanasia?
Esistono molti modi per morire, ma la forma insolita
e quanto mai crudele, che sta sicuramente prendendo piede nella nostra epoca è
il morire perché si è abbandonati e non seguiti e riguarda - come abbiamo
cercato di motivare fin qui - il caso della persona inguaribile.
La pratica dell'eutanasia non è ancora accettata
come lecita, anche se lo ripetiamo, l'Olanda per ora è il Paese con la legge
più permissiva nel mondo in tema di interruzione volontaria della vita. Né sono
mancati esempi tristemente famosi, quale quello delle infermiere di Vienna
(15).
In Italia, in ogni caso, è vietato sopprimere la
persona gravemente malata con l'eutanasia. Tuttavia, un sistema analogo, meno
violento e meno evidente, ma non per questo meno efficace, a noi pare che sia
proprio quello che viene realizzato con le dimissioni (o il non ricovero) in
ospedale di persone malate croniche non autosufficienti. È la morte lenta, la
morte per abbandono, la morte per sottrazione delle cure (non quelle
fondamentali legate ad una macchina che ti tiene in vita), ma quelle ugualmente
importanti per poter terminare in modo, il più possibile indolore,
l'esistenza.
La morte che si verifica per decisione di questi
"altri", che possono decidere della nostra persona non è un fatto
nuovo. La storia è piena di esempi, tristi quanto questo. Ci sono altre
morti
inflitte da chi ha il "potere" di decidere sulla vita degli altri,
trovandosi in posizione avvantaggiata. Le minoranze etniche da sempre sfruttate
fino alla loro scomparsa, le popolazioni sottoposte a lavori estenuanti in
condizioni di vita impossibili, la miseria, la sottoalimentazione, la
deprivazione anche delle più elementari forme di igiene. Persone usate fino
allo stremo delle loro forze, perché ritenute - da chi comanda - inutili e,
quindi, non degne di vivere.
Analogamente non possiamo che allarmarci nel
verificare in chi ci amministra una tendenza evidente a scegliere l'eutanasia
d'abbandono quale tecnica sommersa per l'eliminazione di chi, malato, cronico,
inguaribile è ritenuto - illegalmente - privo di diritto in campo sanitario,
in pieno contrasto con quanto prevede la legislazione vigente (16).
Vorremmo aprire, al riguardo, una riflessione che
parte dal recente pronunciamento della Commissione europea in merito
all'eutanasia. Sul problema della malattia terminale e della morte, la
Commissione europea Ambiente e Sanità ha scritto una risoluzione molto
inquietante, così come viene rilevato da Laura Cima (17). Il passaggio cruciale
del testo recita: «In mancanza di
qualsiasi terapia curativa e dopo il fallimento delle cure palliative e ogni
qualvolta un malato pienamente cosciente chieda in modo insistente e continuo
che sia fatta cessare un'esistenza ormai priva per lui di qualsiasi dignità,
ed un collegio di medici constati l'impossibilità di dispensare nuove cure
specifiche, detta richiesta deve essere soddisfatta, senza che in tal modo sia
pregiudicato il rispetto della vita umana».
Gli interrogativi sollevati da Laura Cima non sono pochi:
«Che cosa significa mancanza di qualsiasi
terapia curativa e fallimento delle cure palliative ed istituzione di un
collegio dei medici che constati questa mancanza e questo fallimento?».
«Questa
mancanza e questo fallimento devono assolutamente riferirsi alla scuola di
medicina a cui la persona ammalata è stata affidata. La mancanza di cura, il
fallimento terapeutico, il giudizio del collegio dei medici può essere perciò
determinato da un'appartenenza e potrebbe anche non coincidere o coincidere parzialmente
con la posizione e il giudizio di un collegio di medici, appartenenti ad altra
scuola».
D'altronde come si può stabilire "la pienezza
della coscienza" così difficile da accertare anche in una persona sana?
«Le parole
dell'ammalato che chiedono la fine, quanto sono invece contestuali, indotte dal
trovarsi in un ospedale, nelle mura dell'estraneità, perciò resistenti a
comunicare il conforto degli affetti più cari?».
«L'esistenza
priva di dignità, cui si riferisce
il testo della Commissione europea, è
determinata dalla sofferenza o anche,
soprattutto, dal luogo in cui l'ammalato è costretto dalla sua situazione? Dall'accanimento terapeutico che spesso
riduce la persona ad oggetto di sperimentazione? L'essere curata in casa, nel
luogo degli affetti, indurrebbe nella persona che soffre quella percezione di
assenza di dignità, di cui parla il testo? Oppure l'intimità del luogo e delle
persone determinerebbe altro?».
Conclude, Laura Cima, con il chiedersi se non sia
fondamentale un'altra concezione del vivere e il lavoro di una politica che
voglia supportarla.
Oltre l'eutanasia e l'accanimento terapeutico
Come si misura la civiltà di un Paese che maltratta
i propri vecchi, quando sono malati inguaribili e dipendono in tutto e per
tutto dagli altri, anche per le più piccole azioni quotidiane? Quale
democrazia può essere mai quella che non sa garantire il rispetto dei diritti e
delle esigenze - peraltro sanciti dalle leggi vigenti - a questa minoranza di
cittadini non più in grado di difendersi, né tanto meno di protestare?
Non è nostra intenzione, lo ripetiamo, entrare
specificamente nel merito del dibattito sull'eutanasia; ma come viene rilevato
bene in "Testimoni" (18),
a monte della richiesta di eutanasia, c'è quasi sempre la mancanza o l'insufficienza
di una risposta sociale.
Parimenti, a monte degli interrogativi che ci stiamo
ponendo sull'eutanasia, va fatta una serie di analisi sulla mancanza di
risposte sanitarie e sociali efficienti ai bisogni espressi dai malati cronici
non autosufficienti che, analogamente ai malati in fase terminale, ad esempio
per cancro, devono essere messi in condizione di veder esercitato il loro
diritto alla cura, nonostante sia decretata la loro inguaribilità. Esiste un
diritto a vivere, prima ancora di un diritto alla scelta di come morire.
L'eutanasia da abbandono, per mancanza di interventi
sanitari e cure adeguate, porta ad una morte che non ha nulla di civile e di
dignitoso.
Ci scandalizziamo per la scomparsa dei lupi in
Abruzzo. Gridiamo giustamente per gli eccidi di popoli lontani. Che cosa stiamo
facendo, però, per difendere il vecchio, paralizzato, impossibilitato a
muoversi, spesso con piaghe da decubito e incontinenza?
Qui non è in gioco il diritto di scegliere di morire.
Qui si tratta di poter esercitare il diritto di continuare a vivere, anche
quando si è colpiti da malattia inguaribile.
Domani può toccare a noi, che senz'altro desideriamo
diventare vecchi. Per questo non bisogna lasciare che il servizio sanitario
continui a non volersene occupare. Dobbiamo costruire un futuro che ci
garantisca il rispetto come persona, tanto più se finiremo per essere persone
deboli e alla mercé degli altri. È meglio contare su diritti certi, esigibili
per i quali vanno gettate le basi ora, prima che sia troppo tardi.
Nessun reddito medio può sostenere per anni la cura
privata di una persona malata inguaribile e non autosufficiente.
Oggi paghiamo i nostri contributi per poter essere
tutelati proprio in queste emergenze, un domani. Ma se non siamo in grado di ottenerle,
come è il caso dei vecchi cronici non autosufficienti di oggi, chi mai ci potrà
tutelare?
Proviamo
a immaginare noi stessi:
- o cardiopatici, con i reni affetti da gravi alterazioni
circolatorie, con aneurisma aortico, capaci di muoverci con difficoltà e solo
se aiutati a causa di una paralisi;
- o affetti da insufficienza respiratoria con bisogno
di ossigenoterapia, impediti anche nelle più semplici attività domestiche,
soggetti a somministrazione continua di endovenose di broncodilatatori;
- o con gravi problemi agli occhi in seguito a
processi infiammatori che portano alla cecità, o con disturbi e netta riduzione
dell'udito, o con deterioramento neuropsichico e incontinenza sfinterica
urinaria e fecale;
- o con tumore alla mammella con ulcere e emorragia
che richiedono medicazioni quotidiane e trasfusioni;
- o affetti da miloma multiplo, che necessita di
diversi cicli di chemioterapia, con dolori molto forti, insufficienza renale,
anemia e con necessità di esami anche complessi, terapia di supporto con
trasfusioni di sangue, fleboclisi con nutrienti e farmaci analgesici.
Possiamo dire di non avere bisogno di cure sanitarie?
Possono, anche nelle migliori delle ipotesi, i nostri familiari prestarci tali
e tante cure mediche senza l'aiuto concreto di personale sanitario esperto e
professionalmente capace?
No, non possono. Né possiamo sentirci sicuri in
eventuali case di riposo e istituti assistenziali, che non sono soggetti, come
le strutture sanitarie, al rispetto di parametri precisi di personale sanitario
e di prestazioni (19).
Difendere quindi chi, già oggi, non vede riconosciuto
questo suo bisogno di cura nonostante sia inguaribile, significa ipotecare
nella stessa misura anche il nostro futuro di vecchi, forse malati e forse non
autosufficienti. Rimuovere non serve. Far finta che a noi non capiti è comportarsi
da irresponsabili. Perché quando succede è troppo tardi.
Cominciamo con il difendere le situazioni che
conosciamo (20), con avviare attività di difesa come patronati, gruppi,
associazioni, partiti...
Pretendiamo che chi è malato, sia bambino, giovane,
adulto, anziano, in quanto malato abbia pari diritti, indipendentemente
dall'età, dal tipo di malattia, dal fatto che sia acuto, cronico, lungodegente.
Non abbandoniamo i vecchi malati cronici non
autosufficienti di oggi; solo così possiamo pensare di non venire a nostra
volta abbandonati domani.
Non deleghiamo ad altri: è nel nostro interesse per
curare noi stessi o i nostri parenti; pretendiamo dalle nostre USL che sia
attivato il servizio di ospedalizzazione a domicilio (21), servizio diretto
non solo agli anziani, ma a chiunque - bambino o adulto - sia in condizioni di
malattia tali da richiedere il ricovero, ma possa essere ugualmente curato a
domicilio con beneficio di tutti.
Coinvolgiamoci in prima persona negli ambiti che più
ci appartengono come cittadini, nelle circoscrizioni, negli organi di partito,
nelle associazioni, nel sindacato (non basta difendere la "pensione"
se dobbiamo pagare tre volte tanto per avere un'assistenza sanitaria).
Per non morire d'abbandono non si può solo sperare
che non ci capiti; bisogna agire quando si è ancora attivi per modificare i
comportamenti, le azioni di chi ci amministra e/o agisce senza rispettare le
leggi e certamente continuerà a farlo se - democraticamente - non gli sarà
imposto di smettere.
(1) Cfr. A. D'Amico, "II
diritto di morire" divide anche l'Italia, in La Repubblica, 11
febbraio 1993.
(2) Nel volume AA.V.V., Eutanasia da abbandono, Rosenberg &
Sellier, Torino, 1988, sono riportate le relazioni e gli interventi tenuti al
convegno.
(3) Romeo Bossoli, I
confini della vita, "Donna moderna", 6 ottobre 1991.
(4) Grande
Enciclopedia, volume VIII, voce eutanasia.
(5) Leon Schwartzenberg, medico,
parlamentare europeo del gruppo socialista, ispiratore del documento discusso
a Strasburgo.
(6) Cfr. nota 2.
(7) Cfr. La Stampa,
10 agosto 1991; Final Exit è il
titolo originale.
(8) Cfr. "I medici italiani e la legge
sull'eutanasia", La Stampa, 27
luglio 1991.
(9) Cfr. "II coma profondo non è ancora morte", La Stampa, 24 luglio 1991.
(10) Cfr. Antonio Censi, Anziani
non-autosufficienti: il dramma dei diritti negati, "Prospettive
sociali e sanitarie", n. 16/1991.
(11) Il servizio di ospedalizzazione
a domicilio, benché previsto nel progetto obiettivo anziani del Ministero della
sanità, non è tuttavia realizzato nelle USSL nonostante sia economicamente più
vantaggioso del ricovero (il costo giornaliero è di circa 70-80 mila lire
contro le 300 mila del posto letto ospedaliero).
(12) Cfr. Le pensioni
lager di Torino, "Prospettive assistenziali", n. 93,
gennaio-marzo 1991.
(13) Cfr. A Fiore - F. Sgreccia, Sanità, etica, austerità, in "Medicina e Morale",
1992/5.
(14) Cfr.
F. Santanera - M.G. Breda, Vecchi da
morire, Rosenberg & Sellier, Torino, 1987, pag. 117 e seg. e l'articolo
"Il Fatebenefratelli di Venezia viola il diritto alla cura di una anziana
cronica non autosufficiente: la Magistratura non processa l'ente, ma i
familiari", in Prospettive assistenziali,
n. 95, luglio-settembre 1991.
(15) "Vienna: condannate le
infermiere assassine", in Prospettive
assistenziali, n. 95, luglio-settembre 1991.
(16) Cfr. F. Santanera - M.G.
Breda, Vecchi da morire, op. cit.,
pag. 39-41.
(17) Eutanasia secondo la Commissione europea, in "Rocca", 15
agosto - 1 settembre 1991.
(18) Oltre l'eutanasia, Testimoni, n. 14, 30.7.1991.
(19) Cfr. "Perché l'anziano
malato cronico non autosufficiente deve restare a carico del sistema sanitario
nazionale e non del settore assistenziale', in Vecchi da morire, op. cit., pag. 39.
(20) Cfr. per una corretta difesa dei
diritti, F. Santanera - M.G. Breda, Per
non morire d'abbandono, Manuale di autodifesa per pazienti, familiari,
operatori e volontari. Prefazione di Norberto Bobbio, Rosenberg & Sellier,
Torino, 1990.
(21) Cfr. F. Fabris - L. Pernigotti, Cinque anni di ospedalizzazione a domicilio
- Curare a casa malati acuti e cronici: come e perché, Torino, Rosenberg
& Sellier, 1990.
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