IL PRETORE CONDANNA I GENITORI PER
MALTRATTAMENTO DEI FIGLI COSTRETTI A MENDICARE
Il Pretore di Torino, dott. Amos Pignatelli - Sez.
Dibattimento, alla pubblica udienza del 4.11.1991 ha pronunziato e pubblicato
mediante lettura del dispositivo la seguente sentenza nei confronti di H.B.,
nato a Visegrad (YU) il 22.10.1936, residente a Banja Luka (Bosnia),
elettivamente domiciliato ex art. 161 C.P.P. c/o Campo Nomadi di Strada
Arrivore n. 44/20, detenuto presente e di H.H., nata a Banja Luka (Bosnia) il
10.10.1937 (data non certa), elettivamente domiciliata c/o Campo Nomadi di
Strada Arrivore n. 44/20, detenuta presente, imputati del reato di cui agli
artt. 110, 572 c.p., per avere in concorso fra di loro maltrattato i figli
minori H.R. di anni 9, S. di anni 9, J. di anni 7, H. di anni 15 e V. di anni
13, sottoponendo i medesimi ad una esistenza penosa e tormentosa, tale da ledere
l'integrità fisica e morale degli stessi, costringendoli a mendicare in
prossimità degli incroci regolati da semafori, lasciandoli esposti alle
intemperie ed al concreto pericolo di investimento da parte delle autovetture,
nonché ai fumi di monossido di carbonio sprigionati dalle autovetture e dalle
esalazioni di amianto prodotte dai freni e frizioni delle auto stesse, sottraendoli
altresì all'obbligo scolastico e alle normali attività e svaghi propri dei
bambini e degli adolescenti; in Torino da epoca imprecisata e comunque
anteriore al settembre 1991, sino alla data odierna. Recidivo l'H.B.
Con
l'intervento del P.M., Dr. A.R. e degli avv. C.R. e L.T., difensori di fiducia.
Le
parti hanno concluso come segue:
P.M.: chiede per H.B. non concedersi le attenuanti
generiche (per la gravità del fatto e per la recidiva), pena: 1 anno e 6 mesi
di reclusione; per H.H. (tenuto conto del provvedimento di espulsione) pena:
escluse le attenuanti generiche si richiede: anni 1 e mesi 3 di reclusione;
inoltre per entrambi le pene accessorie di cui all'art. 34 C.P. (decadenza
della patria potestà di genitori e esercizio della stessa) per la durata doppia
a quella della pena inflitta per il reato di cui sopra.
Difesa: avv. R.: ritiene non sufficientemente integrata
la fattispecie criminosa prevista dall'art. 572 C.P., chiede assolversi
entrambi gli imputati con formula ampia e conseguente scarcerazione; Avv. T.:
si associa all'avv. R., precisando che in via di principalità gli imputati
vanno assolti dal reato loro ascritto in quanto il fatto non sussiste; in
subordine chiede che il reato di cui sopra venga derubricato a quello previsto
dall'art. 671 C.P.; in estremo subordine concessione delle attenuanti
generiche, minimo pena e sospensione condizionale per entrambi; revoca della
misura cautelare disposta.
Il P.M. esprime parere negativo sia per quanto
concerne la derubricazione del reato sia sulla istanza di revoca o
modificazione della misura cautelare disposta.
Motivazione
Con presentazione in stato di arresto all'udienza del
31 ottobre 1991 veniva esercitata l'azione penale in ordine al delitto previsto
dall'art. 572 c.p. nei confronti di H.B. e H.H. per il fatto descritto
nell'imputazione. Convalidato l'arresto in flagranza per entrambi gli
imputati, il dibattimento veniva rinviato all'udienza odierna avendo il
difensore richiesto un termine a difesa. Nel corso dell'odierno dibattimento
venivano acquisite varie prove, tra le quali le deposizioni testimoniali
dell'Ispettore di P.S. T.F., dei V.U. M.G. e DI F.A. per l'accusa e di S.R. e
Z.A. per la difesa, nonché i verbali di accertamento di P.G. con allegate
fotografie e videoregistrazione a completamento del fascicolo del
dibattimento. Veniva infine acquisito l'esame dell'imputato H.B. e una serie
di documenti relativi allo stato di salute dello stesso imputato.
Dalle risultanze dell'istruzione dibattimentale, ed
in particolare dalla deposizione del teste T., dalle fotografie in atti e dalla
videoregistrazione esaminata in aula, risulta con certezza che entrambi gli
imputati nel periodo di circa un mese (dal 4 settembre al 28 ottobre 1991)
accompagnarono più volte i figli minori indicati nell'imputazione a mendicare
presso alcuni incroci regolati da semafori, consentendo quanto meno che essi
si inserissero tra le autovetture in attesa del segnale favorevole per
avvicinarsi ai guidatori, che chiedessero denaro ai passanti sul vicino
marciapiede, coperti da vestiti estivi mentre i passanti indossavano abiti
pesanti, il tutto sotto il controllo almeno di uno dei due genitori, che dopo
alcune ore riportava via i figli. Non vi è alcun dubbio che ognuno di tali
episodi, realizzati in giorni diversi, costituisca il reato di impiego di
minori nell'accattonaggio previsto dall'art. 671 c.p., come del resto ha
ammesso la stessa difesa degli imputati nelle sue conclusioni finali.
Allo stesso modo va ritenuto provata l'abitualità di
tale comportamento, dato il frequente susseguirsi degli atti di impiego dei
minori nel breve periodo di un mese. Il vero problema giuridico che deve
affrontare questo giudice è invece il seguente: può l'impiego abituale di
minori da parte dei genitori per l'accattonaggio rivestire gli estremi del
delitto contestato dalla pubblica accusa, vale a dire i maltrattamenti in
famiglia? Per affrontare tale problema occorre in primo luogo chiedersi che
cosa intenda il legislatore con l'uso del termine "maltrattamenti" nell'art.
572 c.p. Dalla relazione al progetto definitivo del codice penale si ricava la
seguente affermazione del guardasigilli Rocco: «Non mi è sembrato conveniente
dare una definizione dei maltrattamenti, non potendosi contenere in una
formula legislativa le varie specie che tali maltrattamenti assumono in
pratica».
Gli atti di maltrattamento possono dunque essere ì
più vari: percosse, lesioni, ingiurie, minacce, violenze private, ecc., tutti
comportamenti già costituenti di per sé reato, ma anche azioni di disprezzo,
vessazioni, rimproveri aspri e brutali, anche non integranti da soli una
qualsiasi fattispecie criminosa. L'importante è che atti di tale natura si
susseguano in serie, si accumulino, per così dire, in un complesso di
comportamenti che si dispiega nel tempo, tale da ingenerare quella che dottrina
e giurisprudenza chiamano efficacemente "un regime di vita". Va
infatti messo in luce che il singolo atto di maltrattamento (già dotato, nel
caso in cui si tratti di un reato, dì un suo autonomo disvalore) assume una
diversa e più grave natura lesiva qualora si inserisca nella serie di atti
simili che lo precedono e lo seguono, contribuendo a realizzare l'offesa
tipica del delitto previsto dall'art. 572 c.p.
In che cosa consista poi tale offesa, intesa nel
senso tecnico di contenuto sostanziale del reato, dipende dall'individuazione
dell'interesse protetto dalla specifica norma incriminatrice, potendosi
concepire correttamente l'offesa solo come lesione o messa in pericolo
dell'interesse oggetto del reato.
A questo proposito sembra di dover aderire a quella
più moderna ricostruzione interpretativa che, una volta escluso che oggetto del
reato di maltrattamenti sia la famiglia (posto che il testo della norma si
estende oltre la ristretta cerchia familiare, ancorché la collocazione della
figura criminosa sia interna al Titolo XI del codice), oppure l'integrità
fisica e psichica del soggetto passivo (in quanto tale interesse sarebbe già
protetto dalle norme incriminatrici dei singoli e più frequenti atti di
maltrattamento), individua nella personalità o dignità del soggetto debole del
rapporto familiare o quasi-familiare l'autonomo interesse protetto dalla norma
incriminatrice contenuta nell'art. 572 c.p.
Solo la lesione di tale dignità della persona spiega
da un lato perché sia necessaria l'instaurazione di un vero e proprio
"regime di vita", mentre giustifica d'altro lato l'entità della pena
comminata dal legislatore. Se dunque il delitto di maltrattamenti deve essere
qualificato come un delitto contro la dignità della persona nel rapporto
necessariamente squilibrato che sussiste nei casi considerati e tipicizzati
dall'art. 572 c.p., la funzione della norma appare chiaramente quella di
impedire la degradazione di tale rapporto sociale familiare o quasi-familiare
in un regime di vita caratterizzato dalla abituale lesione o messa in pericolo
della dignità personale del soggetto passivo attraverso l'aggressione
sistematica dei fondamentali valori di decoro, di libertà morale, di integrità
fisica e psichica, di cui esso è titolare.
Alla luce delle precedenti considerazioni appare
condivisibile la rinuncia del legislatore a dare una definizione normativa dei
"maltrattamenti", poiché l'ampiezza della formula usata permette di
attribuire rilevanza penale non solo alle più frequenti e corpose aggressioni
alla dignità del soggetto debole del rapporto attraverso la sistematica
lesione del suo decoro (ingiurie), della sua libertà morale (minacce), della
sua integrità fisica (percosse e lesioni), ma anche della sua libertà sessuale
(violenza carnale, corruzione di minorenni), e così via.
Va ancora osservato che, mentre nella maggior parte
dei casi (maltrattamenti mediante percosse, lesioni, violenze private) al
singolo atto si accompagna immancabilmente una sofferenza fisica o morale del
soggetto passivo, tale elemento non è peraltro richiesto dalla norma e può,
sia pure eccezionalmente, mancare, senza per questo impedire la consumazione
del reato. Siccome infatti non è richiesto per la consumazione dell'ingiuria o
della minaccia l'effettivo offendersi o spaventarsi del soggetto passivo, ne
consegue che nell'ipotesi di maltrattamenti consistenti esclusivamente in
ingiurie e minacce, ben potrebbe mancare ogni sofferenza del soggetto passivo,
pur sussistendo il delitto "de quo".
Tornando ora al caso di specie, si deve rilevare
che, a parere di questo giudice, l'impiegare abitualmente i figli minori
nell'accattonaggio ben può dar luogo ad un regime di vita lesivo della dignità
personale dei minori stessi, indotti ad acquisire abitudini ed atteggiamenti di
servilismo, di piaggeria, di falsità, di auto-commiserazione, che sono
frontalmente contrari alla dignità della persona e all'eguaglianza tra gli
uomini. A ciò si aggiunga che il sistematico impiego dei figli minori
nell'accattonaggio si traduce poi in una sostanziale strumentalizzazione dei
figli stessi a scopi di guadagno economico dei coniugi, i quali, abusando
della loro posizione di autorità nel rapporto con i figli, li riducono a membri
attivi di una impresa economica, inducendoli ad esplicare una vera e propria
attività lavorativa semplicemente organizzata e diretta dai genitori.
Le prove testimoniali e documentali prodotte
dall'accusa dimostrano anche che i minori venivano impiegati in condizioni
ambientali (semafori, incroci, traffico stradale, freddo, gas di scarichi
degli autoveicoli) dannose o almeno pericolose per la loro salute e tali da
ingenerare fatica e disagi (accattonaggio in tali condizioni per almeno due o
tre ore consecutive), ma si è visto in precedenza come le sofferenze non siano
elemento essenziale del reato. Se il bene protetto è la dignità personale del
soggetto debole del rapporto familiare, data la giovanissima età dei minori,
può ben darsi che essi non fossero per nulla consapevoli del cattivo
trattamento riservato loro dai genitori, ma ciò è del tutto irrilevante, ai
fini dell'integrazione del delitto, non dovendosi confondere il piano degli
interessi offesi dal reato con quello delle reazioni soggettive alla condotta
(come dimostra il chiaro esempio dell'ingiuria, nel qual caso coesistono sia la
lesione dell'onore sia l'indifferenza eventuale in termini di perturbazione
psichica e sofferenza morale del soggetto passivo).
Deve dunque concludersi per la sussistenza, nei fatti
provati, dell'elemento oggettivo del delitto contestato, potendosi certamente
qualificare l'impiego abituale di figli minori nell'accattonaggio come ipotesi
di maltrattamenti intesa come aggressione al bene della dignità delle persone.
Per quanto riguarda l'elemento soggettivo del reato,
va ricordato che esso consiste nel semplice dolo generico, inteso come
consapevolezza e volontà di sottoporre il soggetto passivo al regime di vita
in cui si identificano i maltrattamenti. Non hanno rilievo i motivi del
comportamento del soggetto attivo del reato, mentre è sufficiente il dolo
eventuale, inteso come accettazione del rischio che si verifichi l'evento dei
maltrattamenti.
Nel caso concreto il motivo ha natura economica ed è
certamente accompagnato dal dolo nella sua forma di dolo eventuale, non potendo
ignorare i due imputati che, per raggiungere le loro finalità economiche,
avevano strumentalizzato i figli minori, creando per essi un vero e proprio
regime di vita consistente nell'abituale accattonaggio. Si pone a questo punto
un delicato problema sollevato dalla difesa nelle sue conclusioni finali, che
così si può sintetizzare: se possa dirsi che gli imputati hanno agito con la
consapevolezza del disvalore sociale della loro condotta dal momento che essi
appartengono ad una minoranza etnica, nella cui cultura l'impiego dei minori
all'accattonaggio non è contrario ai valori del gruppo, ma appartiene al novero
delle tradizioni più risalenti. Sostituire il giudizio di valore maggioritario
a quello della minoranza a cui appartengono gli imputati non è per caso una
manifestazione di intolleranza o peggio di monolitismo culturale, se non di razzismo?
Ai fini del decidere non sarebbe necessario
affrontare tale problema per la fondamentale ragione che entrambi gli imputati
si sono dimostrati consapevoli del disvalore sociale della condotta loro
attribuita, dichiarando essi, durante l'interrogatorio per la convalida
dell'arresto in flagranza, che si sarebbero vergognati di mandare i propri figli
a mendicare.
Poiché ci si vergogna solo di ciò che si ritiene
eticamente e socialmente disdicevole, va ritenuta sussistente in entrambi gli
imputati la necessaria consapevolezza che integra il concetto di dolo.
Tuttavia ritiene questo giudice che il problema
sollevato dalla difesa meriti qualche sia pur sintetica considerazione. È ben
vero che, nella società multietnica nella quale ci stiamo inoltrando, vi
potrebbe essere il pericolo di una sopraffazione culturale del gruppo
maggioritario rispetto ai gruppi minori, ma a ciò può fornire rimedio, per
quanto in questa sede interessa, la verifica costante che il gruppo
maggioritario deve fare dei propri criteri culturali alla luce della comune ed
unica Costituzione.
Affinché non vi sia intolleranza e sopraffazione il
criterio di valore della maggioranza deve risultare "positivizzato"
nella Costituzione, sicché ciò che va assolutamente impedito è soltanto
l'applicazione "immediata" del valore culturale di maggioranza al
gruppo di minoranza, senza una previa verifica costituzionale. D'altra parte
però il gruppo minoritario non può pretendere che la sua cultura sia
globalmente accolta nella società "di arrivo" o comunque dalla
maggioranza, senza le dovute distinzioni effettuate alla stregua, ancora una
volta, della Costituzione. Il problema allora si sposta e diventa quello del
fondamento costituzionale delle norme penali in gioco.
Da questo punto di vista l'interesse della dignità
della persona del minore trova un saldo ancoraggio nella Costituzione attualmente
in vigore, sia nell'art. 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità»), sia nell'art. 3 («Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale» e «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli... che
impediscono il pieno sviluppo della persona umana»), sia nell'art. 30 («È
dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli»), sia
infine nell'art. 31 («La Repubblica protegge la maternità, l'infanzia e la
gioventù»). Dal complesso di tali norme si deduce la piena conformità alla
Costituzione delle incriminazioni dell'impiego dei minori nell'accattonaggio
e dei maltrattamenti in famiglia, sicché ogni diversa tradizione culturale deve
ritenersi non solo inaccettabile sul piano delle valutazioni di principio per
chi voglia vivere nell'area di vigenza della Costituzione italiana, ma
legittimamente reprimibile qualora si concreti in comportamenti costituenti
reato alla stregua degli articoli 572 e 671 c.p.
Appurato dunque che nel comportamento tenuto da
entrambi gli imputati sussistono tutti gli estremi oggettivi e soggettivi
richiesti dalla legge in relazione al delitto contestato, non rimane che
dichiararli colpevoli del reato loro ascritto. I buoni precedenti penali di
entrambi gli imputati permettono la concessione delle attenuanti generiche,
da ritenersi prevalenti per il solo H.B. sulla contestata recidiva. Pena equa
sembra essere quella di anni uno di reclusione per entrambi, diminuita per la
concessione delle attenuanti generiche a mesi otto di reclusione per entrambi.
Ricorrendone i presupposti si concede il beneficio
della sospensione condizionale della pena alla sola H.H., la quale va
immediatamente liberata se non detenuta per altra causa. Va poi respinta
l'istanza di revoca della custodia in carcere presentata dalla difesa per H.B.
continuando a sussistere nei suoi confronti le esigenze cautelari già valutate
in sede di applicazione della misura cautelare. A norma dell'art. 34 C.P. va
disposta la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori per entrambi
gli imputati per un periodo di anni uno e mesi quattro. Gli imputati vanno poi
condannati al pagamento delle spese processuali in solido. A norma dell'art.
544 C.P., data la gravità dell'imputazione, si ritiene di dover indicare per
il deposito della sentenza il termine di mesi uno.
P.Q.M
Visti
gli artt. 533 e segg. C.P.P.,
dichiara entrambi gli imputati colpevoli del reato
loro ascritto e, concesse ad entrambi le attenuanti generiche, ritenute
prevalenti per H.B. sulla contestata recidiva, condanna entrambi alla pena di
mesi 8 di reclusione;
visti
gli artt. 163 e segg. C.P.,
ordina la sospensione condizionale della pena per
H.H. e ne dispone l'immediata liberazione se non detenuta per altra causa;
respinge l'istanza di revoca della custodia in carcere per H.B.;
visto
l'art. 34 C.P.,
dispone la sospensione dall'esercizio della potestà
dei genitori per entrambi gli imputati per un periodo di anni 1 e mesi 4;
condanna
entrambi gli imputati al pagamento delle spese processuali in solido;
visto
l'art. 544 C.P.P.,
indica
il termine di mesi 1 per il deposito della motivazione.
Torino,
4.11.1991 - Depositato in Cancelleria il 26.11.1991.
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