Prospettive assistenziali, n. 101, gennaio-marzo 1993

 

 

IL PRETORE CONDANNA I GENITORI PER MALTRATTAMENTO DEI FIGLI COSTRETTI A MENDICARE

 

 

Il Pretore di Torino, dott. Amos Pignatelli - Sez. Dibattimento, alla pubblica udienza del 4.11.1991 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente sentenza nei confronti di H.B., nato a Visegrad (YU) il 22.10.1936, residente a Banja Luka (Bosnia), elettivamente domiciliato ex art. 161 C.P.P. c/o Campo Nomadi di Strada Arrivore n. 44/20, de­tenuto presente e di H.H., nata a Banja Luka (Bosnia) il 10.10.1937 (data non certa), elettivamente domiciliata c/o Campo Nomadi di Strada Arrivore n. 44/20, detenuta presente, imputati del reato di cui agli artt. 110, 572 c.p., per avere in concorso fra di loro maltrattato i figli minori H.R. di anni 9, S. di anni 9, J. di anni 7, H. di anni 15 e V. di anni 13, sottoponendo i medesimi ad una esistenza penosa e tormentosa, tale da le­dere l'integrità fisica e morale degli stessi, co­stringendoli a mendicare in prossimità degli in­croci regolati da semafori, lasciandoli esposti alle intemperie ed al concreto pericolo di inve­stimento da parte delle autovetture, nonché ai fumi di monossido di carbonio sprigionati dalle autovetture e dalle esalazioni di amianto prodot­te dai freni e frizioni delle auto stesse, sottraen­doli altresì all'obbligo scolastico e alle normali attività e svaghi propri dei bambini e degli adole­scenti; in Torino da epoca imprecisata e comun­que anteriore al settembre 1991, sino alla data odierna. Recidivo l'H.B.

Con l'intervento del P.M., Dr. A.R. e degli avv. C.R. e L.T., difensori di fiducia.

Le parti hanno concluso come segue:

P.M.: chiede per H.B. non concedersi le atte­nuanti generiche (per la gravità del fatto e per la recidiva), pena: 1 anno e 6 mesi di reclusione; per H.H. (tenuto conto del provvedimento di espulsione) pena: escluse le attenuanti generi­che si richiede: anni 1 e mesi 3 di reclusione; inoltre per entrambi le pene accessorie di cui all'art. 34 C.P. (decadenza della patria potestà di genitori e esercizio della stessa) per la durata doppia a quella della pena inflitta per il reato di cui sopra.

Difesa: avv. R.: ritiene non sufficientemente in­tegrata la fattispecie criminosa prevista dall'art. 572 C.P., chiede assolversi entrambi gli imputati con formula ampia e conseguente scarcerazio­ne; Avv. T.: si associa all'avv. R., precisando che in via di principalità gli imputati vanno assolti dal reato loro ascritto in quanto il fatto non sussiste; in subordine chiede che il reato di cui sopra venga derubricato a quello previsto dall'art. 671 C.P.; in estremo subordine concessione delle attenuanti generiche, minimo pena e sospensio­ne condizionale per entrambi; revoca della mi­sura cautelare disposta.

Il P.M. esprime parere negativo sia per quanto concerne la derubricazione del reato sia sulla istanza di revoca o modificazione della misura cautelare disposta.

 

Motivazione

 

Con presentazione in stato di arresto all'udienza del 31 ottobre 1991 veniva esercitata l'azione penale in ordine al delitto previsto dall'art. 572 c.p. nei confronti di H.B. e H.H. per il fatto descritto nell'imputazione. Convalidato l'ar­resto in flagranza per entrambi gli imputati, il di­battimento veniva rinviato all'udienza odierna avendo il difensore richiesto un termine a difesa. Nel corso dell'odierno dibattimento venivano ac­quisite varie prove, tra le quali le deposizioni te­stimoniali dell'Ispettore di P.S. T.F., dei V.U. M.G. e DI F.A. per l'accusa e di S.R. e Z.A. per la dife­sa, nonché i verbali di accertamento di P.G. con allegate fotografie e videoregistrazione a com­pletamento del fascicolo del dibattimento. Veni­va infine acquisito l'esame dell'imputato H.B. e una serie di documenti relativi allo stato di salu­te dello stesso imputato.

Dalle risultanze dell'istruzione dibattimentale, ed in particolare dalla deposizione del teste T., dalle fotografie in atti e dalla videoregistrazione esaminata in aula, risulta con certezza che en­trambi gli imputati nel periodo di circa un mese (dal 4 settembre al 28 ottobre 1991) accompa­gnarono più volte i figli minori indicati nell'impu­tazione a mendicare presso alcuni incroci rego­lati da semafori, consentendo quanto meno che essi si inserissero tra le autovetture in attesa del segnale favorevole per avvicinarsi ai guidatori, che chiedessero denaro ai passanti sul vicino marciapiede, coperti da vestiti estivi mentre i passanti indossavano abiti pesanti, il tutto sotto il controllo almeno di uno dei due genitori, che dopo alcune ore riportava via i figli. Non vi è al­cun dubbio che ognuno di tali episodi, realizzati in giorni diversi, costituisca il reato di impiego di minori nell'accattonaggio previsto dall'art. 671 c.p., come del resto ha ammesso la stessa dife­sa degli imputati nelle sue conclusioni finali.

Allo stesso modo va ritenuto provata l'abituali­tà di tale comportamento, dato il frequente sus­seguirsi degli atti di impiego dei minori nel breve periodo di un mese. Il vero problema giuridico che deve affrontare questo giudice è invece il seguente: può l'impiego abituale di minori da parte dei genitori per l'accattonaggio rivestire gli estremi del delitto contestato dalla pubblica ac­cusa, vale a dire i maltrattamenti in famiglia? Per affrontare tale problema occorre in primo luogo chiedersi che cosa intenda il legislatore con l'uso del termine "maltrattamenti" nell'art. 572 c.p. Dalla relazione al progetto definitivo del co­dice penale si ricava la seguente affermazione del guardasigilli Rocco: «Non mi è sembrato conveniente dare una definizione dei maltratta­menti, non potendosi contenere in una formula legislativa le varie specie che tali maltrattamenti assumono in pratica».

Gli atti di maltrattamento possono dunque es­sere ì più vari: percosse, lesioni, ingiurie, minac­ce, violenze private, ecc., tutti comportamenti già costituenti di per sé reato, ma anche azioni di disprezzo, vessazioni, rimproveri aspri e brutali, anche non integranti da soli una qualsiasi fatti­specie criminosa. L'importante è che atti di tale natura si susseguano in serie, si accumulino, per così dire, in un complesso di comportamenti che si dispiega nel tempo, tale da ingenerare quella che dottrina e giurisprudenza chiamano efficacemente "un regime di vita". Va infatti mes­so in luce che il singolo atto di maltrattamento (già dotato, nel caso in cui si tratti di un reato, dì un suo autonomo disvalore) assume una diver­sa e più grave natura lesiva qualora si inserisca nella serie di atti simili che lo precedono e lo se­guono, contribuendo a realizzare l'offesa tipica del delitto previsto dall'art. 572 c.p.

In che cosa consista poi tale offesa, intesa nel senso tecnico di contenuto sostanziale del rea­to, dipende dall'individuazione dell'interesse protetto dalla specifica norma incriminatrice, potendosi concepire correttamente l'offesa solo come lesione o messa in pericolo dell'interesse oggetto del reato.

A questo proposito sembra di dover aderire a quella più moderna ricostruzione interpretativa che, una volta escluso che oggetto del reato di maltrattamenti sia la famiglia (posto che il testo della norma si estende oltre la ristretta cerchia familiare, ancorché la collocazione della figura criminosa sia interna al Titolo XI del codice), op­pure l'integrità fisica e psichica del soggetto passivo (in quanto tale interesse sarebbe già protetto dalle norme incriminatrici dei singoli e più frequenti atti di maltrattamento), individua nella personalità o dignità del soggetto debole del rapporto familiare o quasi-familiare l'autono­mo interesse protetto dalla norma incriminatrice contenuta nell'art. 572 c.p.

Solo la lesione di tale dignità della persona spiega da un lato perché sia necessaria l'in­staurazione di un vero e proprio "regime di vita", mentre giustifica d'altro lato l'entità della pena comminata dal legislatore. Se dunque il delitto di maltrattamenti deve essere qualificato come un delitto contro la dignità della persona nel rap­porto necessariamente squilibrato che sussiste nei casi considerati e tipicizzati dall'art. 572 c.p., la funzione della norma appare chiaramente quella di impedire la degradazione di tale rap­porto sociale familiare o quasi-familiare in un regime di vita caratterizzato dalla abituale lesio­ne o messa in pericolo della dignità personale del soggetto passivo attraverso l'aggressione sistematica dei fondamentali valori di decoro, di libertà morale, di integrità fisica e psichica, di cui esso è titolare.

Alla luce delle precedenti considerazioni ap­pare condivisibile la rinuncia del legislatore a dare una definizione normativa dei "maltratta­menti", poiché l'ampiezza della formula usata permette di attribuire rilevanza penale non solo alle più frequenti e corpose aggressioni alla di­gnità del soggetto debole del rapporto attraver­so la sistematica lesione del suo decoro (ingiu­rie), della sua libertà morale (minacce), della sua integrità fisica (percosse e lesioni), ma anche della sua libertà sessuale (violenza carnale, cor­ruzione di minorenni), e così via.

Va ancora osservato che, mentre nella mag­gior parte dei casi (maltrattamenti mediante per­cosse, lesioni, violenze private) al singolo atto si accompagna immancabilmente una sofferenza fisica o morale del soggetto passivo, tale ele­mento non è peraltro richiesto dalla norma e può, sia pure eccezionalmente, mancare, senza per questo impedire la consumazione del reato. Siccome infatti non è richiesto per la consuma­zione dell'ingiuria o della minaccia l'effettivo of­fendersi o spaventarsi del soggetto passivo, ne consegue che nell'ipotesi di maltrattamenti con­sistenti esclusivamente in ingiurie e minacce, ben potrebbe mancare ogni sofferenza del sog­getto passivo, pur sussistendo il delitto "de quo".

Tornando ora al caso di specie, si deve rileva­re che, a parere di questo giudice, l'impiegare abitualmente i figli minori nell'accattonaggio ben può dar luogo ad un regime di vita lesivo della dignità personale dei minori stessi, indotti ad acquisire abitudini ed atteggiamenti di servili­smo, di piaggeria, di falsità, di auto-commisera­zione, che sono frontalmente contrari alla digni­tà della persona e all'eguaglianza tra gli uomini. A ciò si aggiunga che il sistematico impiego dei figli minori nell'accattonaggio si traduce poi in una sostanziale strumentalizzazione dei figli stessi a scopi di guadagno economico dei co­niugi, i quali, abusando della loro posizione di autorità nel rapporto con i figli, li riducono a membri attivi di una impresa economica, indu­cendoli ad esplicare una vera e propria attività lavorativa semplicemente organizzata e diretta dai genitori.

Le prove testimoniali e documentali prodotte dall'accusa dimostrano anche che i minori veni­vano impiegati in condizioni ambientali (semafo­ri, incroci, traffico stradale, freddo, gas di scari­chi degli autoveicoli) dannose o almeno perico­lose per la loro salute e tali da ingenerare fatica e disagi (accattonaggio in tali condizioni per al­meno due o tre ore consecutive), ma si è visto in precedenza come le sofferenze non siano ele­mento essenziale del reato. Se il bene protetto è la dignità personale del soggetto debole del rapporto familiare, data la giovanissima età dei minori, può ben darsi che essi non fossero per nulla consapevoli del cattivo trattamento riser­vato loro dai genitori, ma ciò è del tutto irrilevan­te, ai fini dell'integrazione del delitto, non doven­dosi confondere il piano degli interessi offesi dal reato con quello delle reazioni soggettive alla condotta (come dimostra il chiaro esempio dell'ingiuria, nel qual caso coesistono sia la le­sione dell'onore sia l'indifferenza eventuale in termini di perturbazione psichica e sofferenza morale del soggetto passivo).

Deve dunque concludersi per la sussistenza, nei fatti provati, dell'elemento oggettivo del delit­to contestato, potendosi certamente qualificare l'impiego abituale di figli minori nell'accattonag­gio come ipotesi di maltrattamenti intesa come aggressione al bene della dignità delle persone.

Per quanto riguarda l'elemento soggettivo del reato, va ricordato che esso consiste nel sem­plice dolo generico, inteso come consapevolez­za e volontà di sottoporre il soggetto passivo al regime di vita in cui si identificano i maltratta­menti. Non hanno rilievo i motivi del comporta­mento del soggetto attivo del reato, mentre è sufficiente il dolo eventuale, inteso come accet­tazione del rischio che si verifichi l'evento dei maltrattamenti.

Nel caso concreto il motivo ha natura econo­mica ed è certamente accompagnato dal dolo nella sua forma di dolo eventuale, non potendo ignorare i due imputati che, per raggiungere le loro finalità economiche, avevano strumentaliz­zato i figli minori, creando per essi un vero e proprio regime di vita consistente nell'abituale accattonaggio. Si pone a questo punto un deli­cato problema sollevato dalla difesa nelle sue conclusioni finali, che così si può sintetizzare: se possa dirsi che gli imputati hanno agito con la consapevolezza del disvalore sociale della lo­ro condotta dal momento che essi appartengo­no ad una minoranza etnica, nella cui cultura l'impiego dei minori all'accattonaggio non è contrario ai valori del gruppo, ma appartiene al novero delle tradizioni più risalenti. Sostituire il giudizio di valore maggioritario a quello della mi­noranza a cui appartengono gli imputati non è per caso una manifestazione di intolleranza o peggio di monolitismo culturale, se non di raz­zismo?

Ai fini del decidere non sarebbe necessario affrontare tale problema per la fondamentale ra­gione che entrambi gli imputati si sono dimo­strati consapevoli del disvalore sociale della condotta loro attribuita, dichiarando essi, duran­te l'interrogatorio per la convalida dell'arresto in flagranza, che si sarebbero vergognati di man­dare i propri figli a mendicare.

Poiché ci si vergogna solo di ciò che si ritiene eticamente e socialmente disdicevole, va ritenu­ta sussistente in entrambi gli imputati la neces­saria consapevolezza che integra il concetto di dolo.

Tuttavia ritiene questo giudice che il problema sollevato dalla difesa meriti qualche sia pur sin­tetica considerazione. È ben vero che, nella so­cietà multietnica nella quale ci stiamo inoltran­do, vi potrebbe essere il pericolo di una sopraf­fazione culturale del gruppo maggioritario ri­spetto ai gruppi minori, ma a ciò può fornire ri­medio, per quanto in questa sede interessa, la verifica costante che il gruppo maggioritario de­ve fare dei propri criteri culturali alla luce della comune ed unica Costituzione.

Affinché non vi sia intolleranza e sopraffazio­ne il criterio di valore della maggioranza deve ri­sultare "positivizzato" nella Costituzione, sicché ciò che va assolutamente impedito è soltanto l'applicazione "immediata" del valore culturale di maggioranza al gruppo di minoranza, senza una previa verifica costituzionale. D'altra parte però il gruppo minoritario non può pretendere che la sua cultura sia globalmente accolta nella società "di arrivo" o comunque dalla maggioran­za, senza le dovute distinzioni effettuate alla stregua, ancora una volta, della Costituzione. Il problema allora si sposta e diventa quello del fondamento costituzionale delle norme penali in gioco.

Da questo punto di vista l'interesse della di­gnità della persona del minore trova un saldo ancoraggio nella Costituzione attualmente in vi­gore, sia nell'art. 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»), sia nell'art. 3 («Tutti i cittadi­ni hanno pari dignità sociale» e «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli... che impedi­scono il pieno sviluppo della persona umana»), sia nell'art. 30 («È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli»), sia infine nell'art. 31 («La Repubblica protegge la materni­tà, l'infanzia e la gioventù»). Dal complesso di tali norme si deduce la piena conformità alla Costi­tuzione delle incriminazioni dell'impiego dei mi­nori nell'accattonaggio e dei maltrattamenti in famiglia, sicché ogni diversa tradizione culturale deve ritenersi non solo inaccettabile sul piano delle valutazioni di principio per chi voglia vivere nell'area di vigenza della Costituzione italiana, ma legittimamente reprimibile qualora si concre­ti in comportamenti costituenti reato alla stregua degli articoli 572 e 671 c.p.

Appurato dunque che nel comportamento te­nuto da entrambi gli imputati sussistono tutti gli estremi oggettivi e soggettivi richiesti dalla legge in relazione al delitto contestato, non rimane che dichiararli colpevoli del reato loro ascritto. I buo­ni precedenti penali di entrambi gli imputati per­mettono la concessione delle attenuanti generi­che, da ritenersi prevalenti per il solo H.B. sulla contestata recidiva. Pena equa sembra essere quella di anni uno di reclusione per entrambi, di­minuita per la concessione delle attenuanti ge­neriche a mesi otto di reclusione per entrambi.

Ricorrendone i presupposti si concede il be­neficio della sospensione condizionale della pe­na alla sola H.H., la quale va immediatamente li­berata se non detenuta per altra causa. Va poi respinta l'istanza di revoca della custodia in car­cere presentata dalla difesa per H.B. continuan­do a sussistere nei suoi confronti le esigenze cautelari già valutate in sede di applicazione della misura cautelare. A norma dell'art. 34 C.P. va disposta la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori per entrambi gli imputati per un periodo di anni uno e mesi quattro. Gli impu­tati vanno poi condannati al pagamento delle spese processuali in solido. A norma dell'art. 544 C.P., data la gravità dell'imputazione, si ritie­ne di dover indicare per il deposito della senten­za il termine di mesi uno.

P.Q.M

Visti gli artt. 533 e segg. C.P.P.,

dichiara entrambi gli imputati colpevoli del reato loro ascritto e, concesse ad entrambi le attenuanti generiche, ritenute prevalenti per H.B. sulla contestata recidiva, condanna entrambi al­la pena di mesi 8 di reclusione;

visti gli artt. 163 e segg. C.P.,

ordina la sospensione condizionale della pe­na per H.H. e ne dispone l'immediata liberazione se non detenuta per altra causa; respinge l'istanza di revoca della custodia in carcere per H.B.;

visto l'art. 34 C.P.,

dispone la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori per entrambi gli imputati per un periodo di anni 1 e mesi 4;

condanna entrambi gli imputati al pagamento delle spese processuali in solido;

visto l'art. 544 C.P.P.,

indica il termine di mesi 1 per il deposito della motivazione.

 

Torino, 4.11.1991 - Depositato in Cancelleria il 26.11.1991.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it