Prospettive assistenziali, n. 102, aprile-giugno
1993
GLI UTENTI
DEI SERVIZI ASSISTENZIALI: PERSONE O MERCE?
Il 27 gennaio 1993 ha avuto luogo a Torino, presso il
Centro Incontri della Cassa di Risparmio (g.c.), il dibattito sul tema: "Bambini e handicappati: appalti o
continuità educativa?". L'incontro è stato organizzato a seguito dei
gravi fatti che hanno messo in pericolo esigenze fondamentali di vita degli
utenti dei servizi assistenziali gestiti da Cooperative convenzionate con il
Comune di Torino.
Appalti al ribasso: davvero la scelta più economica?
Contravvenendo ad una pratica in atto da quando è
stato istituito e impostato il servizio di comunità alloggio per minori (1976),
la Giunta comunale di Torino ha deciso di non utilizzare più la trattativa
privata e di indire gare di appalto per l'affidamento della gestione dei
servizi socio-assistenziali (diurni e residenziali) a terzi.
Lo scopo - si legge sul capitolato - era quello di
conseguire il minor prezzo per l'Ente appaltante, il Comune di Torino.
Le cooperative dovevano precisare nell'offerta il
ribasso in percentuale sul prezzo base dei singoli lotti.
L'appalto riguardava 17 comunità per minori e 5 per
handicappati, 14 servizi di appoggio a minori e 11 di assistenza educativa ad
handicappati e cioè, secondo le stime della Lega delle cooperative e della
Federsolidarietà, circa 1.300 utenti. In realtà, come è dimostrato dalla convenzione
recentemente stipulata dall'USSL 17 di Mirano (Venezia) con l'associazione
LILA, l'ente locale può assegnare tali incarichi anche con trattativa privata.
Appena avuta notizia dell'iniziativa del Comune di
Torino si sono mobilitati i sindacati Cgil Funzione pubblica e Uil Enti locali
(assente è stata la Cisl) e varie organizzazioni: Gruppo Abele, GRH (Genitori
Ragazzi Handicappati), ASVAD (Associazione solidarietà e volontariato a
domicilio), Associazione La Scintilla, CSA (Coordinamento sanità e assistenza
fra i movimenti di base), che hanno organizzato il sopracitato dibattito (1).
Nonostante lo scarso tempo a disposizione e
l'interruzione dovuta alle festività natalizie, la partecipazione all'incontro
del 27.1.1993 è stata molto ampia: oltre 350 persone tra operatori, fa miliari
e volontari, mentre più di 100 sono stati coloro ai quali l'accesso alla sala è
stato impedito per motivi di sicurezza in base alle norme dei vigili del
fuoco.
Scopi del dibattito del 27.1.1993 (2)
Nell'invito/programma,
gli scopi sono stati precisati come segue:
«Comunità alloggio per minori
«Nelle comunità alloggio sono ricoverati, a volte da
anni, minori aventi famiglie con gravi problemi educativi.
«Si tratta di minori che hanno subito numerose
separazioni dai loro genitori e dal loro ambiente, separazioni che hanno
causato, quasi sempre, gravissimi danni alla loro personalità.
«Nelle comunità alloggio i minori hanno l'esigenza,
di fondamentale importanza per il loro presente e il loro futuro, di stabilire
validi e duraturi rapporti con gli educatori e gli altri addetti.
«Mentre è già problematica la presenza di 6-10
operatori nella stessa comunità alloggio (situazione non modificabile date le
caratteristiche della struttura), sarebbe fonte di deleterie conseguenze la
sostituzione di tutto il personale, sostituzione che si verificherebbe nel
caso in cui la gestione delle comunità alloggio venisse appaltata da una organizzazione
diversa da quella da cui dipendono gli operatori conosciuti dai minori. Ciò
sarebbe tanto più grave se le motivazioni fossero di puro vantaggio economico
e gli appalti rientrassero nella logica della concorrenza e, quindi, del
concorso al ribasso.
«Istituti
«Per garantire la continuità dei rapporti formativi
fra i minori e gli educatori, in nessuna parte del nostro Paese sono state
indette gare d'appalto per l'accoglimento di minori in istituti di assistenza.
«Non si comprende pertanto per quale motivo
burocratico gli appalti debbano essere fatti per le comunità alloggio che sono
strutture di accoglienza come gli istituti, ma con dimensioni a misura di
famiglia e quindi più idonee per le esigenze effettive, educative e formative
dei minori.
«Ritorno in famiglia
«La comunità alloggio è una struttura di ridotte
dimensioni, studiata e sperimentata non solo per fornire accoglienza la più
personalizzata possibile ai minori, ma, conservando una caratterizzazione di
tipo familiare per il limitato numero di utenti e di operatori, è anche una
risorsa, la più idonea possibile, per favorire, a seconda delle situazioni, il
ritorno del minore dai suoi genitori o l'inserimento presso una famiglia
affidataria o adottiva.
«Anche per esercitare correttamente la funzione
suddetta è assolutamente indispensabile garantire in tutta la misura del
possibile la continuità della presenza degli stessi operatori.
«Appalti
«Mentre si è decisamente contrari agli appalti di
comunità alloggio (e di altri servizi alla persona) già in funzione, siamo
favorevoli all'appalto per l'apertura di nuove strutture e centri diurni,
purché si realizzi sulla base di dettagliati progetti educativi e di precise
condizioni e standard che diano garanzie in termini di quantità/qualità del
servizio.
«Comunità alloggio e centri per handicappati e servizi di assistenza
territoriali
«Nei confronti delle comunità alloggio, dei centri
diurni e per le persone handicappate intellettive e per l'assistenza
territoriale, valgono le osservazioni fatte in precedenza.
«La continuità dei legami fra gli utenti e gli
operatori, che da anni operano nei suddetti servizi, è il fondamento di una
corretta gestione».
LA COMUNtTA ALLOGGIO: UNA STRUTTURA A SERVIZIO DEI
MINORI
RODOLFO VENDITTI (3)
Il problema di cui si discute stasera è un problema
che a me pare di grande evidenza. Le comunità-alloggio sono strumenti di
intervento destinati ad offrire ai minori che hanno famiglie in difficoltà
l'inserimento temporaneo in un ambiente che consenta loro di superare
l'emergenza. Costituiscono, dunque, un surrogato della famiglia. Dico
"surrogato" perché si tratta pur sempre di una realtà diversa dalla
famiglia (nella quale la funzione della coppia genitoriale è, a mio avviso,
insostituibile): ma per bambini e ragazzi che non abbiano validi punti di
riferimento in famiglia, la comunità-alloggio offre dei punti di riferimento di
essenziale importanza, sia pur coi limiti derivanti dalla turnazione degli
educatori. lo sono convinto che per minori che hanno alle spalle una famiglia
disastrata, la comunità-alloggio (quando sia veramente efficiente) offre l'occasione
di fare un'esperienza costruttiva, che può essere davvero decisiva nella vita.
Ora, l'introdurre indiscriminatamente il sistema
degli appalti a licitazione privata per le comunità-alloggio già operanti
significa esporre quelle comunità (e quindi i loro ospiti) alla prospettiva di
un totale cambio di educatori, cioè alla perdita dei loro punti di riferimento
e quindi ad una conseguente destabilizzazione psico-affettiva dei minori; per
di più, siccome la licitazione privata pone in primo piano il fattore economico
ed innesca una corsa al ribasso, ciò significa, in definitiva, cambiare tutto
perché costa meno, e mettere in secondo piano le preoccupazioni educative.
A me pare che, così operando, si trascuri che in
questi tipi di servizio il perno dell'azione amministrativa deve essere la
persona, cioè il cittadino utente. Viene spontaneo ricordare (e non si tratta
di retorica né di astrazione) che la Costituzione della Repubblica è
imperniata sulla centralità della persona e dei valori di cui essa è
portatrice.
La struttura è a servizio dell'uomo e non viceversa.
La persona è il punto di riferimento essenziale. E il minore è persona.
Smettiamo di guardare al minore come a una persona futura, come ad una "spes hominis",
che persona ancora non è. II minore è già egli stesso persona; è in fase
evolutiva, certo; ma è persona con la sua unicità, la sua originalità, la sua
irripetibilità, i suoi diritti fondamentali. È un cittadino pleno jure. E il cittadino, chiunque
egli sia, non è e non deve essere considerato come un mero accidente
dell'azione amministrativa.
La legge 184/83 (che sta per compiere dieci anni) si
fa carico di ciò e lo traduce in connotazioni specifiche che riguardano
proprio le comunità-alloggio. Non è senza significato che l'art. 2 di tale
legge menzioni esplicitamente la comunità-alloggio tra le soluzioni alternative
alla carenza della famiglia biologica e la ponga al terzo posto, accanto
all'affidamento etero-familiare e all'affidamento ad una persona singola. Non
è senza significato che l'art. 5 attribuisca alla comunità-alloggio i poteri e
i doveri dell'affidatario, che sono poteri e doveri vicari di quelli
genitoriali. Ciò sottolinea l'esigenza della continuità educativa ed è in
contrasto con prassi amministrative che quella continuità trascurino 0 non
tengano in sufficiente considerazione. Dire questo non significa ignorare che
la realtà delle comunità-alloggio costituisce un panorama estremamente
differenziato. E non solo perché le comunità-alloggio hanno origini diverse,
ma soprattutto perché all'interno di una singola area esistono livelli diversi
di qualità di impegno. Sarebbe ingenuo non accorgersene; sarebbe disonesto
far finta di niente. Gli operatori sociali sanno bene, alla luce della loro
esperienza quotidiana, che esistono comunità su cui possono fare pieno
affidamento e comunità su cui possono farne un po' meno. Sanno dove si accoglie
con piena disponibilità il minore intensamente problematico, e dove invece si
tergiversa e si seleziona; dove si fanno turnare gli educatori in modo
irrazionale, privilegiando criteri di comodità, e dove invece si è più attenti
alle esigenze educative.
Dire che il sistema degli appalti a licitazione
privata è da evitarsi, almeno per le comunità-alloggio già in funzione, non
significa affatto sostenere che non siano necessarie ed opportune verifiche
obiettive sul modo di gestire i minori e sul rapporto costi-benefici.
Ma questi aspetti e queste esigenze di verifica non
devono far velo alla questione di fondo che questa sera ci occupa: le gravi
conseguenze che una applicazione degli appalti a licitazione privata, così come
progettato, recherebbe sul piano della continuità educativa.
Su questo problema io ebbi a scrivere, all'inizio di
dicembre 1992, una lettera all'Assessore all'assistenza del Comune di Torino,
lettera che inviai per conoscenza ad altri amministratori (il Sindaco di
Torino, l'Assessore agli affari legali, il Segretario generale, e, per la
Regione, i Presidenti del Consiglio e della Giunta regionali).
A tutt'oggi (son passati circa due mesi) ho ricevuto
una sola risposta: quella del Presidente del Consiglio regionale. Ed allora ho
deciso di rendere pubblica, a mo' di lettera aperta, quella lettera che avevo
scritto come "chiusa". Non la resi pubblica prima (e dissi di no a
chi me ne chiedeva copia) perché mi pareva non corretto verso i destinatari
pubblicizzare prima di aver loro consentito di rispondere. Ma oggi quelle ragioni
di correttezza sono venute meno, perché in due mesi chi intendesse rispondermi
ha avuto ampiamente il tempo per farlo.
Testo della lettera del 5.12.1990
Ho appreso in questi giorni che il Comune di Torino
ha deciso di indire gare mediante licitazione privata per la gestione di
comunità-alloggio per minori, di centri diurni e di servizi di assistenza
domiciliare per i minori.
Mi permetto di manifestare alle SS.LL. la mia
opinione circa la dannosità di un simile indirizzo di politica assistenziale.
È noto che i minori hanno estremo, essenziale bisogno
di figure di riferimento che siano, il più possibile, stabili e continuative.
Le comunità-alloggio già presentano, necessariamente, limiti in proposito,
stante l'esigenza di turnazione degli educatori. Ma il sistema verso il quale
si avvia l'Amministrazione comunale è - a mio avviso - destinato ad aggravare
pesantemente l'inconveniente, poiché finirà per sostituire agli attuali
operatori dei servizi residenziali già funzionanti, altri operatori reclutati
attraverso le gare di licitazione privata.
Ciò produrrà un vero e proprio terremoto nelle
comunità, con il disastroso effetto di destabilizzare, sul piano psicologico e
affettivo, i minori destinatari dei servizi; e, per di più, senza alcuna
garanzia di carattere qualitativo, stante il prevalente criterio di
economicità che appare presiedere all'intera operazione.
Mi rendo ben conto del difficile momento economico
che gli enti pubblici (come, d'altronde, l'intero Paese) stanno attraversando,
e non intendo interferire nelle scelte discrezionali della Pubblica
Amministrazione. Ma mi pare giusto e doveroso, quale Presidente della Sezione
Minorenni della Corte di Appello, richiamare l'attenzione dei pubblici
amministratori su esigenze che i giudici minorili sentono profondamente e
verificano quotidianamente attraverso il loro lavoro giudiziario.
Io ritengo che ciò che si spende nella educazione (e
rieducazione) dei minori produca, in prospettiva, enormi risparmi di spesa
pubblica, poiché rimuove cause di devianza e quindi evita future spese per
interventi repressivi, per attività di polizia e giudiziarie, per mantenimento
di detenuti, per strutture carcerarie, per reinserimento sociale.
Giustissimo evitare gli sprechi di pubblico denaro.
Ma se c'è un settore in cui spendere con oculata larghezza non è sprecare, esso
è proprio il settore giovanile, poiché spendere per risolvere in modo
efficace i problemi dei ragazzi e dei giovani significa fare un investimento
altamente redditizio.
Certo, è redditizio in un'ottica di tempi lunghi: ma
un buon amministratore pubblico deve aver occhio proprio ai tempi lunghi ed
operare in quella prospettiva.
Confido che il problema venga riesaminato e
approfondito, anche consultando l'esperienza di associazioni ed enti operanti
nel settore, prima di addivenire a determinazioni di carattere definitivo.
Il Presidente della Sez. Minorenni Dott. Rodolfo Venditti
RISPETTARE LE ESIGENZE FONDAMENTALI DEI MINORI E
DEGLI HANDICAPPATI
MIMMA MASSARI MARZUOLI (4)
Per chi opera a vario titolo nell'area delle difficoltà,
delle disarmonie esistenziali e sociali ogni contributo in incontri come questo
sembra datato e scontato, specie quando prende lo spunto dalla propensione al
ribasso di iniziative degli Enti pubblici rivolte alle fasce più deboli.
Né possiamo sorvolare su altri fatti recenti: come
ammonisce il Ministro della sanità, il privato - specie se appaltato - sarà
sempre più bello, efficace e apolitico quanto più il pubblico andrà in
progressiva dissolvenza. Quanto più, in altri termini, si organizzerà nel
gestire le ultime competenze con quella managerialità qualificata al meglio da
una sana logica di mercato.
Del resto in quella logica abbiamo già visto svanire
i programmi di prevenzione sanitaria e sociale, stiamo assistendo
all'azzeramento dei progetti-obiettivo sulla tutela materno-infantile,
sull'handicap, in parte sugli anziani; e ancora risulta concretamente
minacciata l'integrazione tra interventi sanitari e interventi sociali, uno
strumento fondamentale per non ridurre le persone, minori o adulte, a
diagnosi, a posti-letto, a rarefatte prescrizioni farmaceutiche.
Qualcuno può obiettare che anche le gare d'appalto
relative alle comunità alloggio e ad altri servizi residenziali o domiciliari
costituiscono la risposta più coerente al bisogno di trasparenza che sale dal
paese, nell'urgenza di una sorta di catarsi amministrativa che fa seguito alla
lunga fase di lutti politici, di interventi dimezzati, di impegni da tempo
elusi o differiti sine die.
Ma siamo qui per chiederci se è giusto appaltare la
sofferenza, se è accettabile aderire a questo nuovo corso mirato, ci sembra, a
contrarre bisogni antichi e nuovi pianificandoli nell'illusione di renderli
tanto meno distruttivi e patogeni sui bambini, gli adolescenti, gli handicappati,
gli anziani, quanto più la loro gestione sia spersonalizzabile nel drastico turn-over di una disinvolta mutazione
comunitaria e domiciliare.
Siamo qui per ricordare che le comunità alloggio, i
centri diurni, i servizi domiciliari sono nati e cresciuti via via negli ultimi
25/30 anni come una tra le risorse concrete alternative ai ricoveri in istituto,
un contenitore antico e immutabile nelle sue logiche di protezione segregante.
Istituti che pur numericamente ridotti, restaurati
spesso al meglio negli spazi esterni e di facciata, non possono rinunciare ai
parametri gestionali, a quelle regole che da decenni li avevano qualificati
come isolante ideale delle diversità dal mondo dei normali. Le gare d'appalto
non li toccano, basta la velina dell'impegno di spesa da parte dell'ente -
annualmente rinnovabile - e «ogni problema è risolto».
Forse
anche per questo in Piemonte mille minori sono ancora in istituto.
Tra le risorse alternative note a tutti, l'adozione
e l'affidamento per le fasce di età minorile sono tra le più significative: le
sostengono leggi coraggiose, certo imperfette, ma ancora "forti" e
attuali nelle linee di indirizzo, le stesse che hanno risottolineato il
diritto del bambino a vivere nella sua famiglia e il dovere di tutti di operare
al meglio per rispettarlo. Ma le stesse leggi consentono ai minori in stato di
abbandono materiale e morale di essere accolti e stabilmente seguiti in una
famiglia adottiva o in una famiglia affidataria se le deprivazioni connesse ad
una fase critica del proprio ambiente d'origine sono temporanee e superabili.
Da tutte queste alternative faticosamente ridefinite
e riqualificate negli ultimi decenni sono nate via via numerose esperienze
che, tra l'altro, hanno alimentato un corposo materiale teorico di osservazione
e ricerca in campo sociologico e psicologico, di analisi puntuali, di
approfondimenti mirati sulla portata dei bisogni affettivo-relazionali,
educativi, sociali di tutte le fasi dell'età evolutiva nei diversi contesti di
vita.
Da questi bisogni oggi ri-svelati anche nelle
sfaccettature meno ovvie dobbiamo partire per non banalizzare le risposte, per
non dimenticare quel passato di rimedi assistenzialistici, per contrastare una
tendenza non certo latente a riproporlo nei suoi interventi riduttivi e
livellanti.
Tra quei bisogni ne ricordiamo solo alcuni tra i più
importanti: la qualità emozionalmente armonica e la continuità dei legami e
dei rapporti con la madre e con il padre, la stabilità dell'ambiente e dei
ritmi di vita, la prevedibilità di risposte comprensibili e rassicuranti al
bisogno di "appartenere" empaticamente ai genitori, di poter contare
su di loro anche nei momenti più difficili.
Costituiscono rischi psicopatogeni e danni reali per
la crescita normale di un bambino non solo le malattie comuni o insolite, ma
soprattutto le separazioni precoci e prolungate fino all'esclusione familiare,
i cambiamenti impropri, impreparati e frequenti, le pendolarità extrafamiliari
improvvisate. Sono rischi e drammi già visti, già sentiti da molti di noi, ma
per ogni bambino che li vive in prima persona costituiscono spesso la rottura
traumatica di un equilibrio, magari appena raggiunto, la caduta
"libera" in un vuoto ansiogeno senza alcuna rete protettiva in una
confusa percezione di minaccia concreta alla sopravvivenza.
I servizi televisivi, le cronache più o meno realistiche
di due anni fa sui bambini rumeni ammucchiati nei brefotrofi, in gravissime
condizioni di denutrizione, alcuni di sieropositività HIV già sintomatica,
ancora le più recenti immagini di bambini e adolescenti somali, jugoslavi, ci
hanno riproposto alcune variabili di quelle angosce di morte o di solitudine
incolmabile che pure ogni giorno ognuno di noi rimuove nel "sano" bisogno
di rivitalizzare la quotidianità.
Quante volte ci siamo detti per rassicurarci che da
noi "quei" bambini non ci sono, o se ci sono, pochi, rari, l'ospedale
li accoglie e li cura al meglio, l'assistenza fa il resto, un posto in istituto
si trova sempre.
Ma chiediamoci ancora chi sono e come stanno tutti
gli altri; ospiti da mesi o da anni nelle numerose comunità alloggio del
Piemonte: un arcipelago di strutture, variamente distribuite sul territorio
regionale, molte collaudate da professionalità in continuo aggiornamento,
altre più giovani, improvvisate cercano di qualificarsi con fatica, spesso in
carenza di supporti e di interlocutori "giusti".
Chiediamoci perché sono in comunità e come ci vivono:
da tempo sappiamo che la famiglia - anche quella post-moderna da manuale - si è
indebolita nella capacità di contenere, di tenere insieme persone e sofferenze
diverse. Anche quando si difende dai problemi esterni, magari richiudendosi a
riccio, spesso non è in grado di affrontare e risolvere problemi e
contraddizioni interne: così, è ancora alta la richiesta di allontanare i
componenti più deboli, bambini, handicappati, i più disturbanti perché più
disturbati dal sovrapporsi di bisogni e richieste contrapposte, da minorazioni
invalidanti, da disarmonie e ritardi psichici.
Il bambino, l'adolescente, prima che come capro
espiatorio si configura, allora, come corpo estraneo nella costellazione
familiare, in un clima appunto di crescente estraneità ad effetto più o meno
espulsivo se non abbandonico.
Qui tutti gli operatori del settore hanno verificato
quanto difficile, intrigante e protratto nel tempo sia nell'ambito giuridico il
percorso per la definizione inequivocabile dello stato di abbandono materiale
e morale di un minore, e quindi il suo diritto ad una famiglia adottiva.
Quante volte il sussistere di legami affettivi
profondi, pur in presenza di incapacità educative e relazionali, esorcizza
anche sul piano giuridico il "concetto" di abbandono: ma l'allontanamento
di quel minore da quella famiglia si imporrà, almeno transitoriamente: si
concretizza la speranza, fondata o illusoria, che "una buona
comunità" si costituisca per lui come zona di attesa protetta, di
accoglienza personalizzata, forse di primo tamponamento di ferite più profonde.
Le esperienze recenti hanno dimostrato come questo
"passaggio" in comunità abbia favorito nel tempo la realizzazione di
un affidamento etero-familiare, una fase personalizzata di accoglienza, di
sostegno, forse di riparazione e di rinforzo: peraltro gli affidamenti non si
attuano ancora in numero sufficiente.
Chiediamoci ancora chi e come continuano ad essere i
minori ospiti delle Comunità: dai primi mesi di vita, dalla seconda infanzia
fino alla piena adolescenza, ciascuno porta con sé tutta la gamma delle
variegate condizioni di partenza, le caratteristiche e le esigenze personali
secondo l'età, secondo la ricchezza o l'impoverimento o la fragilità delle
proprie risorse di base.
Per tutti l'interruzione dei legami, la separazione,
l'estraneità del nuovo ambiente di vita comportano segnali e sintomi più o
meno improvvisi, più o meno graduali: la crescita complessiva rallenta, la
facilità alle piccole patologie si fa vulnerabilità permanente a volte
inspiegabile; l'ansia si può esprimere in una irrequietudine incontenibile,
in un bisogno non più di giocare ma di buttare, spaccare, distruggere gli
oggetti; il linguaggio, iniziato o meno, si blocca e il comunicare si
definisce senza parole attraverso tutte le emozioni possibili (dal pianto
facile, alla rabbia gridata) oppure si inibisce in un ripiegamento passivo,
silenzioso, in un guardare senza vedere, come se le nuove persone, le nuove
pareti, fossero trasparenti.
Con il passare del tempo si avvertono i segni di un
ritardo «... come se non capisse...» oppure ancora «... come se non sentisse
alcun richiamo...»: una sorta di ottusità difensiva che più tardi lo definirà
«ritardato, insufficiente mentale» o forse peggio «caratteriale».
I bisogni di contatto sono forti, ma il bambino,
l'adolescente, mal sopporta di doverli dividere con altri, pur pochi, come lui
e allora a suo modo contrattacca: si fa male con estrema facilità, "non
vede" gli ostacoli più banali anche se ne sarebbe in grado, come se
cercasse il pericolo purché qualcuno lo venga a "salvare"; non mangia
o divora tutto, diventa enuretico giorno e notte, il sonno si altera nei ritmi
e nella qualità.
Non si può tracciare lo stereotipo del bambino
deprivato, sradicato dal suo ambiente di vita che, pur difficile e disarmonico,
ha messo in moto con lui il primo attaccamento, i primi legami, i
riconoscimenti fondamentali degli adulti significativi.
È certo che la separazione e l'allontanamento
scatenano in tutti angosce di perdita variamente percepite e modulate, ma
sempre più intense quanto più si prolunga un clima di lutto personale con i
vuoti angosciosi, la tensione, la minaccia che li sottengono insieme al
"non sapere" cosa ancora succederà.
Molte testimonianze di famiglie adottive o affidatarie,
che hanno accolto bambini di pochi anni, ci hanno descritto e confermato quei
segnali e molti altri ancora: ci hanno parlato di bambini
"diagnosticati" come insufficienti mentali, ritardati, esternamente
indifferenti agli stimoli affettivi: «...
c'era come un vetro spesso, infrangibile tra me e lui - diceva una madre
adottiva - ci vedevamo senza sentirci,
ci parlavamo con i gesti... così per parecchi giorni e per parecchie notti. Il
vetro ha cominciato a incrinarsi quando una notte è venuto nel nostro letto, si
è rannicchiato vicino a noi e ha poi dormito per dodici ore filate».
Nei ragazzini più grandi, negli adolescenti i segnali
e i sintomi sono spesso più ambigui, camuffati: il vetro è diventato una
specie di corazza opaca che provvede alle difese fatte di ambivalenza,
diffidenze, altre paure, altre provocazioni trasgressive, una messa alla prova
reciproca a volte intollerabile, a volte imprevedibilmente sfilacciata.
Un ragazzino dodicenne, alla terza fuga dall'istituto
che da quattro anni lo ospita la motivava così: «... a scuola i miei compagni mi prendono in giro perché vado male, non
ho voglia di studiare... e poi mi chiamano sempre "alieno" perché
per loro io sono sempre quello dell'istituto».
Altre vulnerabilità, disagi e malesseri si delineano
con una sorta di fatica di pensare e di riconoscersi in una identità ancora
così incerta che non riesce a trovare, negli anni determinanti per la crescita,
modelli di riferimento certi nei genitori, nella famiglia allargata, nelle
numerose e alterne "presenze" sostitutive. E allora "alieno"
è brutto, umiliante quanto più definisce brutalmente e conferma sentimenti e
vissuti alienanti appunto.
Nessun progetto minimo può prendere corpo e tutti
sappiamo quanto per gli adolescenti "il far progetti" - magari
fantastici o illusori quanto più forti e creativi - risponda anche al bisogno
di sentirsi qualcuno, simile e diverso tra gli altri e con gli altri e non un
extraterrestre in perenne mutazione.
Tutti questi aspetti si accentuano nei bambini, negli
adolescenti, negli adulti il cui handicap (motorio, fisico, psichico) li
accompagna da anni nel susseguirsi di quotidianità schematiche, prefissate,
povere di spazi esterni, scandite da rituali ripetitivi. Qui il bisogno di
stimoli (oltre a quello di tecniche riabilitative) emozionalmente positivi, il
bisogno di continuità di presenze rivitalizzanti, di "uscite
protette" finalizzate a esperienze piacevoli, si fa esigenza
irrinunciabile: purché il riferimento "sano" (l'educatore, l'assistente
domiciliare) garantisca la serenità di relazioni costanti, per quanto è
possibile.
Per tutti questi "ospiti" così particolari
noi come operatori di varia competenza abbiamo chiesto, chiediamo alle
comunità, ai servizi domiciliari sempre dì più: chiediamo il meglio fino ad
attribuire loro, tacitamente o meno, di farsi ambiente terapeutico, veicolo
terapeutico: chiediamo di saper ascoltare, di contenere ansie, di far superare
angosce di abbandono, di colmare vuoti, di dissipare confusioni ed estraneità.
Insomma, chiediamo una sorta di limbo qualificato e
rassicurante nel quale gli educatori sappiano conoscere a fondo le esigenze di
ciascun ospite, personalizzino le risposte, "dosando" i propri
coinvolgimenti emotivi; sappiano elaborare quel famoso progetto di vita
d'attesa come passaggio di riparazione e di rinforzo verso altro: la propria
famiglia, riarmonizzata, guarita, un'altra famiglia adottiva o affidataria.
È evidente che stiamo chiedendo tutto quanto non era
stato possibile fare prima e altrove.
Né siamo in grado di prevedere per quanto tempo, se
anche recentemente qualcuno fa notare amaramente che spesso l'urgenza (del posto
in comunità ad esempio) tende a trasformarsi in "giacenza", con
tutte le conseguenze negative che ogni cronicizzazione comporta nella vita di
ciascuno.
Chiediamo troppo? Certamente molto: è chiaro allora
come non saranno le gare d'appalto, i cambiamenti annuali o semestrali di
persone, di strutture a saper rispondere al minimo.
Ma è evidente anche che tutti dovremo saper rivedere
con il realismo compatibile, con il mutare dei tempi e con il moltiplicarsi dei
bisogni, i contenuti, le forme, le metodologie degli interventi, se crediamo
ancora che il rispetto dei diritti civili non debba rimanere una formula
vuota.
(1) Nel frattempo da consiglieri
comunali di minoranza appartenenti al Pds, Rifondazione comunista e Verdi, è
stato presentato un ricorso al CO.RE.CO su alcuni aspetti formali della
delibera di indizione degli appalti, ricorso che è stato accolto.
(2) Nel corso dell'incontro/dibattito hanno preso la parola:
Balzini Valerio, Vice-Presidente del Coordinamento nazionale delle comunità
per i minori di tipo familiare; Suor Bianca Maria, Pozzo di Sichar; Crema
Pierino, Cgil Funzione pubblica; Consiglio Michele, Presidente ACLI Torino;
Galetti Scassellati Mariena, Coordinatore sociale USSL 43 Torre Pellice (TO);
Garelli Franco, Docente dell'Università di Torino - Dipartimento Sociologia
della conoscenza; Guidetti Serra Bianca, Avvocato; Migliasso Angela, Partito
democratico della sinistra; Rei Dario, Docente dell'Università di Torino,
Dipartimento Scienze politiche; Valori Bruna, Presidente Associazione regionale
cooperative servizi e turismo Piemonte; Zucca Mario, Segreteria della Lega per
le Autonomie locali del Piemonte.
(3) Presidente della
Sezione per i minorenni della Corte di appello di Torino.
(4) Neuropsichiatra
infantile, Psicologa, Componente privato del Tribunale per i minorenni di
Torino.
www.fondazionepromozionesociale.it