Prospettive assistenziali, n. 102, aprile-giugno
1993
Libri
NUNZIA
COPPEDÈ, Al di là dei girasoli,
Edizioni "Sensibili alle foglie", Roma, 1992, pp. 157, L. 20.000.
Con un linguaggio semplice e molto efficace, Nunzia
Coppedè descrive le vicende di cui è stata protagonista dalla nascita alle
sofferenze sofferte a causa dell'internamento in vari istituti (fra cui il
Cottolengo di Roma) e il suo cammino di liberazione fino al suo attuale impegno
con la rivista Alogon e con
organizzazioni composte da handicappati, da comunità autogestite, da gruppi di
volontariato e da associazioni,di genitori di handicappati.
L'Autrice nasce il 23 ottobre 1948: «Pesavo un chilo e ottocento grammi, il mio
corpícino era deformato, le gambe incrociate, le braccia sghembe, le mani
avevano i pollici piegati e aderenti al palmo, le altre dita stavano storte e
rigide».
Ha la prima carrozzina per spostarsi e va a scuola
con gli altri bambini «poiché le mie
difficoltà erano solo fisiche».
Successivamente, nell'ottobre 1959, Nunzia Coppedè
viene ricoverata al Cottolengo di Roma insieme ad altre trenta ragazze di cui «alcune non avevano solo difficoltà fisiche
ma anche psichiche».
Aggiunge l'Autrice: «Seppi che non era l'unico reparto delle bambine. Ce n'era un altro più
grande, ma con bimbe molto più gravi che passavano la giornata in una stanza
sedute su un seggiolino con il vasino sotto. Quando venivano i familiari a
trovarle le aggiustavano e le portavano in parlatorio».
Le condizioni di vita nell'istituto, che ricoverava
circa 600 persone, sono così descritte da Nunzia: «La sera ho visto anche la zona notte che era al piano di sopra: due
cameroni enormi. Avevamo la luce notturna e non restavamo mai al buio completo.
A1 centro della stanza c'era un grande vaso da notte. Se avevamo urgenza di fare
i nostri bisogni fisiologici usavamo tutte questo vaso. La mattina ci alzavamo
presto perché alle sette dovevamo essere già in chiesa per la messa. Prima però
dovevamo alzarci, lavarci, vestirci e dire tutte insieme le preghiere del
mattino. Tornate dalla messa facevamo colazione. Dalla cucina arrivava latte e
caffè d'orzo; poi suor Francesca apriva un armadio dove erano depositati i
dolci che ciascuna bambina aveva suoi personali perché portati dai familiari.
Alcune bambine non avevano famiglia; erano state mandate là dall'orfanotrofio
di Narci, e per loro c'era soltanto il pane. Poi si andava a scuola: era una
stanzetta con tavolini. Le piccole facevano nelle prime due ore una specie di
preparazione alla prima elementare. Le più grandi facevano terza, quarta o
quinta elementare, tutte nella stessa classe, nelle stesse ore e con la stessa
maestra che era suor Francesca. Ogni classe veniva ripetuta due anni perché
erano scuole differenziali. Delle "medie" nemmeno a parlarne. lo
avevo già fatto le scuole e così mi hanno messa a seguire le piccoline. Le
uniche lezioni a cui partecipavo erano quelle di storia sacra, il pomeriggio,
due volte alla settimana».
Ad aiutare suor Francesca presso il Cottolengo di
Roma «c'era una signorina che aveva superato
i cinquant'anni e si chiama "il Boione". Tutti i giorni, mentre ci
insegnava a cucire, ci diceva che noi eravamo invalide e che quelle come noi
che restavano in famiglia prima o poi finivano sul marciapiede a chiedere
l'elemosina. Ci invitava poi a pregare il santo fondatore dell'istituto per
ringraziarlo di aver fatto nascere questa opera garantendoci così di essere
assistite e di non essere un peso e una sofferenza per la famiglia ( ..). A
prendere le botte erano solo le bambine che non avevano famiglia. Talvolta non
venivano usate solo le mani ma anche le sedie».
Numerosi sono i ricordi dell'Autrice circa le
violenze subite a partire dall'obbligo di assumere prima di dormire il
bromuro. A tredici anni «mi vidi arrivare
una cascata di schiaffoni e dopo pochi minuti sul mio fianco destro c'era un
grosso livido. Rimasi indolenzita per giorni interi»; «per me la merenda non
c'era mai»; «la posta mi giungeva aperta: prima di me la leggeva la superiora
e secondo quello che c'era scritto decideva se farmela pervenire o stracciarla.
Quando reincontravo i miei amici scoprivo che molte lettere che mi avevano
spedito non erano mai arrivate a destinazione e neppure ritornate al
mittente».
La vita presso il Cottolengo era talmente brutta che
nell'ospedale in cui è ricoverata, Nunzia trova «disponibilità e affetto e anche un senso di libertà che non
conosceva».
Il racconto prosegue descrivendo i motivi per cui
lasciò l'istituto, aiutata in ciò da Don Franco Monterubbianesi (con la
superiora che urla «da quella porta chi
esce non rientra»), l'inserimento nella Comunità di Capodarco e l'attuale
suo impegno sociale.
Una vicenda che descrive una realtà vista dalla
protagonista-vittima, che fornisce una informazione ben diversa da quella che
ci viene trasmessa dai dirigenti dell'istituzione e che si collega con la
storia di Piero e Roberto, vissuti presso il Cottolengo di Torino
rispettivamente 24 e 35 anni (cfr. Prospettive
assistenziali, n. 78, aprile-giugno 1987).
Confidiamo che il libro di Nunzia Coppedè venga letto
da tutti coloro che operano per la difesa delle esigenze e dei diritti delle
persone colpite da handicap e che lottano per la istituzione di servizi
alternativi al ricovero in istituto.
Il libro può essere richiesto alle Edizioni "Sensibili
alle foglie", Piazza Santa Maria Liberatrice 34, 00153 Roma, tel.
06-574.50.00.
ENRICO
PASCAL, Follia e ricerca - Una esperienza
collettiva di sofferenza e liberazione, Rosenberg & Sellier, Torino,
1991, pp. 287, L. 28.000.
Nel libro "Follia
e ricerca" si analizza una esperienza insolita. Si tratta di un lavoro
compiuto insieme da un gruppo di una decina di operatori del servizio di
salute mentale dell'USSL 28 di Settimo Torinese e di altrettante persone
sofferenti a causa di varie forme di disagio psichico.
La ricerca, durata cinque anni, è consistita in una
riflessione collettiva sulle esperienze vissute dai partecipanti e in una
verifica degli interventi effettuati durante le crisi, partendo dal principio
- di fondamentale importanza - che il fondamento di ogni atto terapeutico è la
fiducia che gli utenti hanno nei riguardi degli operatori.
Dalla ricerca emerge in modo incontrovertibile che la
sofferenza psichica, più di ogni altra, esige una comprensione profonda,
comprensione che non può ridursi allo sforzo intellettuale dell'analisi e dell'individuazione
del percorso terapeutico, ma che comporta anche un reale coinvolgimento
emotivo.
Occorre, cioè, un'assunzione "patica" dei problemi del paziente,
per cui l'operatore sperimenta su di sé una parte del malessere altrui. Come
leggiamo a pag. 22 «nella misura in cui
l'operatore accetta il coinvolgimento, riconosce la sofferenza che la
sofferenza manifestata dall'altro (l'utente) gli procura. Sceglie appunto di
operare nella dimensione del patico. Lo fa consapevolmente, usando se stesso
come strumento, come cassa di risonanza patica dell'altro, come misura
sensibile dell'intensità del rapporto. Lo fa senza difendere il ruolo o la
competenza professionale, che potrebbero tenerlo al riparo dal coinvolgimento».
Ne consegue, in primo luogo, che «la cura delle persone colpite da disturbi psichici non può e non deve
aver luogo nei manicomi o in strutture similari, ma nel contesto di
appartenenza».
Vi è dunque l'esigenza di coinvolgere i familiari, i
compagni di lavoro, l'ambiente sociale senza scaricare ad altri compiti di
competenza dell'équipe psichiatrica.
L'attività svolta dall'équipe di igiene mentale
dell'USSL 28, purtroppo non descritta nel volume in oggetto, non solo dimostra
che la legge 180/1978 può essere pienamente applicata, ma che si può giungere
all'azzeramento dei ricoveri coatti e volontari nei servizi psichiatrici
pubblici e privati, come era emerso nel convegno di Settimo Torinese tenutosi
il 12 giugno 1982 (cfr. Prospettive
assistenziali n. 59, luglio-settembre 1982) e come è stato convalidato da
verificate esperienze (cfr. E. Pasca), Comunità alloggio per ex ricoverate in
manicomio - Dal progetto alla realizzazione nel Comune di Settimo Torinese, Ibidem, n. 41, gennaio-marzo 1978;
Équipe psichiatrica di Settimo torinese, Ricerca sull'emarginazione coatta in
manicomio nella Provincia di Torino, Ibidem,
n. 42, aprile-giugno 1978; E. Pascal, Dal manicomio al servizio di salute
mentale territoriale, Ibidem, n. 58,
aprile-giugno 1982).
SILVANA
BOSI - DONATELLA GUIDI, Guida
all'adozione, Mondadori, Milano 1992, pp. 195, L. 12.000
Il volume, agile e di gradevole lettura, è "guida"
all'adozione perché presenta questa tematica sottolineandone la specificità
contro le semplificazioni e i fraintendimenti ancora molto diffusi. Dicono
nell'introduzione le Autrici, commentando la definizione che del termine
adozione danno i vocabolari della lingua italiana: «Chi adotta un bambino non lo prende - per proprio figlio - facendo
finta di averlo generato, perché l'adozione non è il surrogato di una nascita
biologica mancata, ma una realtà a sé, con caratteristiche diverse e dignità
propria (...). I genitori adottivi inoltre non - prendono - il bambino, non lo
scelgono, ma aspettano di incontrarne uno, perché l'adozione è possibile solo
quando c'è un bambino che ha bisogno di trovare dei genitori, non quando una
coppia ha bisogno di un figlio».
È inoltre "guida" perché presenta la legge
in modo semplice e chiaro, trattando anche i passi concreti che la coppia che
intende adottare deve fare.
I primi due capitoli del libro sono dedicati ai
protagonisti dell'adozione, i genitori adottivi e i bambini adottabili: per i
genitori si sottolinea qual è il percorso che occorre fare per diventare «padre e madre di un figlio che altri hanno
generato», per i bambini che hanno subito l'abbandono si sottolinea il
diritto di trovare una nuova famiglia.
Si passa poi all'itinerario che iniziano a percorrere
insieme il bambino e i genitori, per diventare una famiglia adottiva.
La trattazione teorica di questi temi è seguita, nei
primi tre capitoli, da un gruppo di "storie": sono brevi narrazioni
di fatti accaduti a protagonisti reali ed hanno lo scopo di illustrare gli argomenti
descritti.
Viene poi dato ampio spazio all'analisi del problema
dell'informazione al bambino: il «dirsi la verità» è presentato come condizione
per la costruzione dell'identità del figlio adottivo.
Il capitolo finale, riguardante la legge e le istituzioni,
presenta brevemente storia e finalità della legge italiana sull'adozione, le
modalità di presentazione della domanda e di incontro con il bambino, con le
necessarie specificazioni riguardanti l'adozione internazionale.
Il volume comprende ancora 4 appendici:
- la discussione di vari luoghi comuni riguardanti
l'adozione che spesso si sentono ripetere;
- stralci della legge 184 del 4 maggio 1983;
- i dati del Ministero di grazia e giustizia per gli
anni 1984-89;
- indirizzi dei Tribunali per i minorenni e di
Associazioni.
CRISTINA BORDELLO
JOAN
K. GLICKSTEIN, Interventi terapeutici
nella malattia di Alzheimer - Un programma per la gestione delle attività di
vita quotidiana, Aldo Primerano, Editrice Tipografica, Roma, 1991, pp. 230
+ XIII, L. 35.000
Secondo il Prof. Luigi Amaducci: «Attualmente in
Italia sono più di mezzo milione i pazienti colpiti dalla malattia di
Altheimer». La maggior parte di essi è seguita a casa dai propri congiunti.
II Servizio sanitario nazionale fa ben poco; anzi,
in moltissimi casi non riconosce - fatto incivile e disumano - che il malato di
Alzheimer è un soggetto da curare. Ne deriva che le famiglie sono spesso
abbandonate a loro stesse sia nei casi in cui il paziente resti a casa loro,
sia quando deve essere ricoverato ed i congiunti sborsano anche 5-6 milioni
al mese per prestazioni che le leggi vigenti pongono a carico totale del
Servizio sanitario nazionale.
Il volume, la cui edizione italiana è curata da
Salvatore Bonaiuti e da Francesco Florenzano, propone una tecnica consolidata
di intervento nei confronti dei malati di Alzheimer, la Reality Orientation.
Premesso ché la malattia di Alzheimer non è
guaribile, l'Autore afferma che «il non
poter intervenire sulla malattia in sé, non implica (come alcuni deducono)
che il paziente alzheimeriano sia incapace di apprendere qualsiasi nuovo comportamento
in grado di migliorare la sua capacità di gestire le attività di vita
quotidiana (...) ed, in definitiva, anche la qualità della vita».
Sulla base delle esperienze con le famiglie e con i
malati, J.K. Glickstein ha scritto questo libro soprattutto al fine di «insegnare agli operatori professionali di
questo campo ad aiutare la gente ad aiutare se stessa».
ELISABETH
AUERBACHER, Babette handicappata
cattiva, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1991, pp. 110, L. 13.000
La "cattiveria" di Elisabeth Auerbacher è
una provocazione positiva. Lo è soprattutto perché non nasce da una messa in
scena strumentale, ma da convinzioni profonde e da un modo di essere che
inevitabilmente si scontra con abitudini e credenze. I malati cronici, i
ciechi, i cerebrolesi non devono più essere confinati nei lazzaretti come nel
Medioevo.
Babette Auerbacher, oggi avvocato, nel 1973 partecipa
alla fondazione del club "Handicappati cattivi". In queste pagine
racconta la sua esperienza di handicappata nei confronti dei ghetti e
dell'esclusione sociale. Con la sua collera e la sua voglia di vivere si batte
senza sosta per cambiamenti immediati.
Nel solco del movimento "Maggio 68",
piccoli gruppi di studenti e di lavoratori handicappati incominciano a
rivendicare non solo il diritto alla differenza, ma anche il lavoro senza
discriminazioni, l'adattamento delle abitazioni e dei trasporti, il diritto a
una vita sessuale normale.
Babette ci mostra come i meccanismi dell’esclusione e
della differenza, e la paura di tutto ciò che è fuori della norma, siano
difficili da sradicare. E così l'isolamento, l'abbandono, la miseria, la
sofferenza, il deserto affettivo sono riservati agli handicappati. E questo pur
sapendo che gli incidenti (sul lavoro o d'auto o per catastrofi naturali),
così frequenti nel mondo moderno, rendono tutti noi degli handicappati in
potenza.
Nello stesso anno (1982) in cui, in Francia, esce il
libro di Babette, apre i battenti a Bologna un Centro di documentazione che si
occupa delle tematiche connesse all'handicap. In questo Centro lavorano
persone con deficit, a tutti gli effetti non come utenti di un servizio o come
spettatori di un progetto pensato "per", ma non agito
"con".
Le attività del Centro spaziano un po' in molti
settori: si raccoglie e cataloga il materiale (libri, riviste, quotidiani...);
si pubblicano due riviste; ci sono gruppi di lavoro e di studio su sessualità,
chiesa, informazione...; c'è chi si occupa di sensibilizzare la scuola e in
particolar modo i compagni di classe dei bambini e dei ragazzi con deficit;
c'è una società sportiva...
Adesso il Centro è stato chiamato a guidare, insieme
ad Andrea Canevaro, la collana "Gli esclusi". Babette è il primo
libro di questo nuovo corso.
www.fondazionepromozionesociale.it