Prospettive assistenziali, n. 103, luglio-settembre
1993
ESSERE
GENITORI ADOTTIVI OGGI
DONATELLA GUIDI - SILVANA BOSI (*)
Chi è il genitore
"vero"?
Spesso i bambini chiedono al
compagno adottivo "Chi è la tua mamma vera?". E non sono soltanto i
più piccoli ad esprimere una simile incertezza: anche gli adulti mostrano
qualche dubbio sulla autenticità della genitorialità adottiva quando chiedono
al padre o alla madre se al figlio adottato vogliono bene "come se fosse
figlio loro" o "figlio vero".
È in questo senso che useremo qui
l'aggettivò .vero".
Genitore "vero" non è
automaticamente chi mette al mondo un bambino, ma chi lo alleva ed è
legittimato, dalla società e da se stesso, ad interpretare questo ruolo: chi
cioè assume dentro di sé e verso la società il compito di crescere un bambino,
accudirlo e tutelarlo e sa trovare, dentro di sé e nelle opportunità che la
vita gli offre, strumenti e risorse per farlo. La nascita del bambino può
cambiare: sarà biologica o adottiva, ma non cambia la realtà dell'essere un
"genitore vero", legittimato dalla società e da se stesso.
La legittimazione
sociale o esterna
Perché si possa parlare di
legittimazione esterna, è indispensabile che la società riconosca e
ufficializzi il legame fra i genitori e il figlio. Nel caso della nascita
biologica ciò avviene nel momento in cui il padre o la madre dichiara
all'ufficio anagrafe del proprio Comune che quel bambino è suo figlio. Nel caso
della nascita adottiva è necessario che la paternità-maternità sia dichiarata
da un Tribunale: tale legittimazione richiede necessariamente un percorso burocratico,
non solo a tutela del bambino, ma anche dei suoi genitori adottivi, perché li
rende "veri". E offre loro uno "strumento di verità" -
documenti ufficiali relativi alla adozione - indispensabile a rassicurare il
figlio raccontandogli la sua nascita adottiva.
Premesso ciò, è intuitivo che il
bambino rubato o comperato (dunque privo di documenti che parlino del suo
abbandono e dell'ingresso in famiglia tutelato dalla legge) non può diventare
un figlio: non gli è stato riconosciuto il diritto di persona, è stato ridotto
a oggetto di baratto e gli adulti ne hanno approfittato. La "nascita per
furto" non potrà essere raccontata al figlio e, nella sua vita, rimarrà
una zona buia, che impedirà il costruirsi di una identità positiva: potrà
essere fonte di ansia e portarlo al desiderio di ritornare dai "genitori
derubati" che per lui restano quelli veri, da risarcire.
La legittimazione
interna
È un vissuto, un modo di sentire che
nasce nei genitori adottivi quando hanno superato la constatazione che quel
figlio non è stato fatto dai loro corpi ed hanno positivamente accettato che è
nato da altri. Questo passaggio va compiuto sia dalle coppie sterili, sia da
quelle che, pur avendo figli biologici, scelgono un'adozione.
Solo questo vissuto - che va oltre
l'evidenza dei fatti e le dichiarazioni a parole - è la premessa perché i
genitori adottivi non si sentano né ladri, né benefattori, né genitori
sostitutivi.
Il genitore adottivo che vive se
stesso come ladro del proprio figlio, come suo benefattore o come genitore
sostitutivo non riuscirà mai a diventare "genitore vero" perché
"vero" resta l'altro, il genitore biologico al quale è stato rubato
il figlio, al quale è stato fatto il favore di allevarlo, o al quale è stato
necessario sostituirsi, poniamo in caso di morte.
Il figlio percepirà questa
incertezza del genitore e la potrà strumentalizzare in vario modo, negli
inevitabili momenti di conflitto con la famiglia.
Da queste premesse deriva che il
genitore adottivo è un "genitore senza aggettivi", non un genitore
perfetto. o un super-genitore.
L'aggettivo "adottivo" non
va applicato né al genitore, né al figlio, ma esclusivamente alla nascita,
cioè al modo di incontrarsi. Non è una sottigliezza linguistica, questa: è la
condizione necessaria a far sì che il genitore si assuma fino in fondo la
propria responsabilità - nel bene e nel male - senza far risalire e delegare
all'aggettivo "adottivo" la responsabilità di tutto quello che può
succedere, sempre nel bene e nel male.
Altrimenti le piccole o grandi
difficoltà di rapporto che tutti i genitori incontrano con tutti i figli
verranno imputate al fatto di non averlo generato, a quell'evento ineludibile
contro cui non c'è nulla da fare. Anziché sforzarsi di risolverle saranno date
per scontate, vissute come una condanna inevitabile e lasciate incancrenire.
Se al genitore adottivo non è richiesto di essere un
supergenitore, potrebbe sembrare logico allentare il rigore della legge
sull'adozione, che impone limiti di età a chi intende adottare e non concede
l'adozione alle persone singole. In questa direzione sembra andare oggi il
costume: cambiamenti sociali e culturali rispetto al concetto di famiglia,
fanno sì che si diventi genitori sempre più anziani (sono numerose le donne
che decidono di avere un bambino a 35-40 anni) e cresce il numero dei genitori
soli (la sola madre e, più raramente, il solo padre) che scelgono o si trovano
nella necessità di allevare figli senza un partner.
Dei mutamenti di costume va preso
atto, ma non è possibile invocarli a sostegno di modifiche della legge 184 che
consentano l'adozione a coppie più anziane o a singoli. Le proposte avanzate in
tal senso vanno nella direzione di privilegiare gli adulti rispetto al bambino:
per quanto sia cambiata la società, i bisogni dei bambini - soprattutto di
quelli che hanno già sofferto il peso dell'abbandono - restano gli stessi.
Serve loro una famiglia con due figure di riferimento e genitori il più
possibile flessibili, con una freschezza emotiva e con energie nuove che
consentano loro di costruire dall'inizio una vicenda familiare libera da
"condizionamenti storici" inevitabilmente accumulati durante una
lunga vita di coppia o di persone.
Tutti abbiamo conosciuto casi
eccezionali di persone sole o avanti negli anni che crescono splendidamente un
figlio: ma si tratta appunto di eccezioni, che non possono essere indicate come
base della regola. Tanto meno oggi, visto che per ogni bambino adottabile sono
disponibili alla adozione circa 24 coppie di genitori.
La famiglia adottiva
oggi
È una famiglia senza aggettivi,
fatta di genitori e figli "veri", non eccezionali. Ed è una famiglia
"chiara" in cui il racconto della nascita adottiva circola
liberamente all'interno e può essere portato all'esterno senza vergogna e senza
ostentazione. Essere in grado di accogliere dentro di sé, trasmettere al
figlio e far circolare all'esterno la storia dell'origine adottiva della
famiglia (che potremmo definire la "verità narrabile") è l'indicatore
più attendibile del fatto che è nata "una famiglia vera, senza
aggettivi".
Che lo voglia o no, questa famiglia
- in cui un figlio è un figlio anche se nato da altri - è protagonista di un
cambiamento di cultura sociale. Assumendo una parte attiva in tale cambiamento,
coglierà un'occasione per essere più viva e consapevole.
Anche chi ha fatto un buon percorso
per capire come si diventa una famiglia vera, ha ancora molta strada da
compiere per far accettare la nascita adottiva come altrettanto degna di quella
biologica, nell'ambiente in cui vive. Fra i tanti esempi di
"discriminazione di fatto", alcuni saltano agli occhi: i bambini
stranieri adottati in Italia non vengono conteggiati dall'ISTAT come incremento
delle nascite; nella scuola c'è ancora paura ad affrontare il tema della nascita
adottiva; la scelta adottiva è tuttora connotata come gesto di
"beneficenza" e la sua buona riuscita desta ancora stupore.
Sta ai genitori adottivi cercare gli
strumenti per far sì che la loro famiglia sia incarnata nella realtà e inserita
nel mondo. Non potranno eludere e dovranno sgomitare per far cultura abbattendo
molti pregiudizi: quello che i figli siano ancora proprietà dei genitori,
quello del sangue e, nel caso di una adozione interetnica, anche quello
razziale.
È per questo che padri e madri
adottivi hanno la sensazione di dover sempre ricominciare da capo, quasi a
giustificare la scelta iniziale: è perché il bambino cresce che bisogna sempre
ricominciare da capo. Gli amici e la gente non smettono mai di fare domande e
il figlio, diventando grande, avrà bisogno di risposte sempre più puntuali e
approfondite: adesso vive sulla propria pelle le situazioni che prima i
genitori affrontavano per lui.
Il lavoro delle
istituzioni
Apparentemente non occorrono qualità
eccezionali per essere genitori e sembra anche che tutti abbiano diritto ad
avere un figlio. In realtà non tutti "devono" essere genitori, tant'è
vero che chi non è in grado di esserlo può rinunciare a tale ruolo abbandonando
il figlio..
Avere un figlio - in altre parole -
non è un diritto degli adulti, mentre è un diritto del bambino avere dei
genitori.
L'abbandono, che è la condizione per
l'adozione, è un atto sociale, che mette il bambino in relazione con le
istituzioni.
Anche l'adozione è un atto sociale e
sta alle istituzioni, a cui il bambino è stato affidato, preoccuparsi di dargli
genitori adeguati. Perciò sono legittime e necessarie procedure diverse da
quelle previste per la nascita biologica: leggi, intervento di operatori e
giudici. E non si tratta di un iter puramente burocratico.
Se, come abbiamo visto sopra, la
famiglia adottiva deve essere una famiglia senza aggettivi, qualcuno deve
favorire il nascere della legittimazione interna ad essere veri genitori di un
figlio fatto da altri. .
Quindi, durante l'istruttoria per la
scelta delle coppie, la cosa più importante è lavorare perché le persone
capiscano se stesse, si rendano conto delle proprie risorse e dei propri
limiti, usando informazioni corrette per arrivare ad affrontare la realtà. Una
realtà che oggi possiamo riassumere così: pochi neonati, bambini grandicelli,
spesso con problemi sanitari e psicologici.
Dalla parte delle coppie questo è
sentito come un elemento a sfavore, ma è bene chiarire che è invece il
risultato di un buon lavoro di tutela della madre e del bambino compiuto a
monte. Anche nei Paesi del Terzo Mondo i corretti interventi di tutela sociale
sono indirizzati alla prevenzione dell'abbandono e a favorire semmai
l'adozione in patria.
Le nuove linee di formazione tecnica
degli operatori del territorio tendono a mettere a punto un percorso che porti
le coppie ad autolegittimarsi o ad autoescludersi dal diventare genitori di un
figlio adottivo, cioè a costruire la propria genitorialità o a rendersi conto
che non sono adatte a quel ruolo.
Questo è anche il modo perché le
coppie che non coronano il loro progetto di adozione facciano di questo
fallimento un'occasione di cambiamento, orientandosi verso altre scelte positive,
anziché cadere in depressione o rivolgere la propria aggressività verso le
istituzioni. Alcuni operatori trovano utile leggere alle coppie le relazioni
per metterle in grado di capire e di porsi in un eventuale cammino di
cambiamento.
Per quanto riguarda il bambino
grande, compito degli operatori è prepararlo aiutandolo a superare il lutto
per l'attaccamento precedente che viene tagliato: risulterà così sgomberato il
terreno perché una nuova relazione possa costruirsi, una relazione genitoriale
solida e vera, nella quale trova un posto dignitoso anche il ricordo della
famiglia biologica che il bambino ha lasciato. La "parte attiva" nel
costruire la nuova relazione resta comunque compito dei genitori, che nel caso
di un bambino grande dovranno sicuramente essere più aiutati.
Conclusioni
Non c'è niente di scontato nella
genitorialità: la si conquista giorno per giorno, sia essa biologica o
adottiva, perché tutti i figli vanno "riadottati" ogni mattina.
La genitorialità, adottiva o
biologica che sia, fallisce non quando il figlio non è "perfetto", ma
quando i genitori lo abbandonano, cioè quando il rapporto viene tagliato dalla
parte del genitore. Non si può dunque rinunciare al figlio adottivo, ma solo
abbandonarlo di nuovo. Abdicare al figlio è l'unico modo per fallire la
propria genitorialità, comunque abbia avuto origine.
Il genitore adottivo è il vero genitore di suo figlio
perché, superata la propria sterilità e il fatto che quel bambino è nato da
altri, è in grado di proporsi come unico padre e madre e di trovare le parole
per raccontare, prima al bambino e poi al ragazzo, questa vicenda che è l'unica
"verità narrabile" delle origini adottive. Una verità che non ha
bisogno di particolari o dettagli e che è necessaria e sufficiente al bambino,
per costruire una buona identità personale, purché sia comunicata senza inquinamenti
e proiezioni che rispecchino paure di inadeguatezza, ferite narcisistiche,
aspettative salvifiche o esigenze riparatorie degli adulti. (Cfr. "Guida
all'adozione" di Donatella Guidi e Silvana Bosi, Mondadori Editore,
1992).
La sfida: un cambiamento
culturale
Il delicato lavoro degli operatori,
impegnati a seguire le coppie nel percorso che le rende "genitori senza
aggettivi", oggi prevede anche una sfida, in vista di nuove frontiere che
l'adozione pone.
* La sfida che oggi si gioca in
Italia sembra essere quella di un cambiamento di cultura, che incida sul modo
di intendere la genitorialità e sul modo di assistere i bambini.
Se è vero che circa 50.000 bambini
italiani crescono negli istituti assistenziali, è anche vero che questi bambini
hanno un padre e una madre che si proclamano tali pur senza vivere con i
propri figli e che non rinuncerebbero loro. Questi bambini non sono quindi
adottabili, ma con una cultura e una politica assistenziale diversa potrebbero
o vivere con i genitori di nascita, o aspirare a diventare adottabili e trovare
una famiglia che si occupi di loro.
Spesso gli operatori e i Tribunali
per i minorenni non si danno da fare per provocare nelle famiglie d'origine la
rinuncia a questi bambini - che di fatto vivono in stato di abbandono - e li
lasciano presso gli istituti: questa sistemazione infatti crea meno problemi
che l'inserimento in una nuova famiglia e non espone al rischio di scontrarsi
con l'opinione pubblica.
L'inserimento del bambino grande
nella famiglia adottiva va preparato e seguito. La coppia deve essere aiutata
ad affrontare una situazione poco gratificante, ad aspettare che il ragazzino
che vive in casa loro diventi loro figlio, scegliendoli come padre e come
madre. Tutto ciò ben oltre il tempo dell'affidamento preadottivo.
* Altri 8.000 bambini (tremila dei
quali sotto i 5 anni) sono malati, sieropositivi o portatori di handicap. Sono
adottabili ma restano in istituto perché operatori e Tribunali, spesso convinti
a priori della difficoltà di trovare famiglie disposte ad accoglierli, non si
sforzano di cercarle. A questi bambini vengono offerte risposte di tipo
sanitario, ricoveri ripetuti in corsia per accertamenti diagnostici
traumatici, o addirittura alla ricerca di nuove patologie che giustifichino il
loro permanere nelle strutture sanitarie.
Non è opportuno che gli operatori
forzino le coppie ad accogliere un bambino malato o con handicap, ma è logico e
necessario che si impegnino ad individuare, in chi chiede un'adozione,
l'eventuale disponibilità verso bambini con questi problemi. Una disponibilità
che sicuramente non affiora ad un primo colloquio: va ricercata, ponendo le
coppie di fronte a situazioni concrete, relative ad un determinato bambino. E
garantendo informazioni trasparenti e un solido appoggio per il futuro.
Alle coppie che accolgono un bambino
malato o con handicap va assicurato il necessario supporto sanitario e
riabilitativo, l'appoggio psicologico necessario a garantire il benessere di
tutti i membri della famiglia e, da parte degli Enti locali, il contributo
economico riconosciuto alle famiglie affidatarie.
* Anche nel campo dell'adozione
internazionale si pone la stessa sfida. In generale, c'è molta
deresponsabilizzazione verso i bambini che arrivano da lontano, e tale atteggiamento
può produrre danni seri, vista la fisionomia che l'adozione internazionale
assume oggi, e più assumerà in futuro. Le agenzie autorizzate segnalano un
aumento di richieste di adozione per bambini grandi, per gruppi di fratelli,
per bambini malati o con handicap, ed è difficile trovare famiglie che li
accolgano.
Tre sembrano i punti nodali da
risolvere:
1) le dichiarazioni di idoneità
all'adozione internazionale rilasciate dai Tribunali sono valide per quanto
riguarda i requisiti formali, ma non per quelli sostanziali, che sono
determinanti di fronte a casi come quelli citati;
2) l'abbinamento bambino-famiglia,
più che mai necessario quando il bambino presenta delle difficoltà, non può
essere lasciato al casuale buon senso dei singoli che combinano adozioni
internazionali: dovrebbe essere assegnato agli enti autorizzati il compito di
fare questa ulteriore verifica;
3) è urgente arrivare ad accordi
bilaterali fra i paesi coinvolti nell'adozione internazionale per avere
strumenti che consentano di agire a tutela dei bambini e delle stesse famiglie.
(*) Relazione tenuta
al convegno nazionale "II diritto del bambino alla famiglia - I doveri
delle istituzioni e della società" (Milano, 21-22 maggio 1993)
organizzato dal Coordinamento nazionale per la difesa e la piena attuazione
della legge 184/83 "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei
minori".
www.fondazionepromozionesociale.it