Prospettive assistenziali, n. 103, luglio-settembre
1993
IL
DESIDERIO DI CONOSCERE LE PROPRIE ORIGINI: UN NUOVO DIRITTO?
ALFREDO CARLO MORO
1.
Il nostro secolo è stato definito il secolo
dei diritti: si cercano di individuare sempre nuove situazioni soggettive
meritevoli di particolare difesa giuridica e si va così sempre più dilatando
la sfera dei diritti individuali.
È certamente questa una tendenza
assai positiva, dopo un troppo lungo periodo storico in cui venivano sempre
più caricati i cittadini di doveri ma in cui raramente si riconoscevano accanto
ad essi significativi diritti, che non fossero limitati a quelli patrimoniali
di cui in realtà potevano godere solo i "possidenti". Gli aspetti
relativi allo sviluppo di personalità e di umanità erano invece del tutto
trascurati e negletti.
Ma in questa spasmodica ricerca di
sempre nuovi diritti si annida il pericolo - tutt'altro che teorico - che tutto
sia considerato diritto, anche le attese, i desideri, i bisogni particolari che
non hanno reale esigenza, né possibilità di essere legittimati e di avere
copertura pubblica. Vi è il forte pericolo che, nello sviluppo alluvionale dei
"diritti", tutto divenga generico e sfumato con la formazione di
"galassie" di attese che sono soggettivamente 'avvertite dal singolo
come diritti ma che spesso confliggono con i diritti degli altri e talvolta
anche con i propri reali interessi.
Ciò vale in modo del tutto
particolare per il soggetto in età evolutiva: un soggetto che ha visto del
tutto trascurati nel passato i suoi diritti, trasformati in mere aspettative, e
che rischia oggi - se non si procederà con molta prudenza e intelligenza - di
vedersi sovraccaricato di teorici diritti non solo non concretamente fruibili
ma anche sostanzialmente contrari ai suoi reali interessi, perché innescano
reazioni non sufficientemente previste che possono ritorcersi contro di lui e,
nel concreto, danneggiarlo.
È oggi particolarmente di moda
proclamare che uno dei diritti fondamentali del minore - che l'ordinamento deve
assolutamente riconoscere - è il diritto a poter conoscere le proprie origini
familiari e quindi le proprie radici.
Lo proclama perentoriamente - come
una grande conquista di civiltà - il documento preparato dall'ISLE sullo
"Statuto dei minori"; lo sancisce, per i figli adottivi, il progetto
della commissione ministeriale per le modifiche e integrazioni della legge
sull'adozione; vengono da più parti espressi voti in questo senso e va diffondendosi
l'idea che sia giusto, opportuno ed anzi ineludibile riconoscere d'urgenza
questo nuovo fondamentale diritto di personalità.
Si cercano anche agganci nella
recente Convenzione dell'ONU sui diritti del fanciullo, richiamando sia il
principio relativo al diritto del bambino alla propria identità (art. 8) sia
il principio relativo al diritto del bambino a mantenere relazioni personali
con i propri genitori se ciò non sia contrario al suo interesse.
Non riteniamo affatto che i principi
della Convenzione dell'ONU richiamati impongano il riconoscimento del diritto
del bambino a conoscere le proprie radici, avendo le norme in questione portata
e significanza del tutto diversa. Ma, a prescindere da ciò, riteniamo che
l'opportunità di riconoscere o non un simile diritto esiga una riflessione più
approfondita e meno emozionale che non ci sembra sia stata effettuata. Cercheremo
di indicare alcuni spunti di riflessione per un migliore approfondimento del
tema.
2.
Può veramente esistere un diritto assoluto
dell'essere umano a conoscere le proprie origini?
È veramente singolare che si
proponga il riconoscimento di questo diritto - perché ognuno deve poter saper
chi è stato il suo genitore biologico e quindi quali siano cromosomi e
caratteristiche di personalità dì cui è dotato - mentre contemporaneamente si
ritiene del tutto lecita l'inseminazione artificiale eterologa che di necessità
non può non prevedere anche l'anonimato del donatore dì seme. E sembra
fortemente contraddittorio che il già citato statuto dei minori predisposto
dall'ISLE affermi nel primo periodo del 1 ° comma dell'art. 4 che deve essere
«riconosciuto e disciplinato il diritto di ogni persona a conoscere le proprie
origini familiari» anche imponendo la registrazione delle generalità della
madre e, ove note, del padre, ma aggiunga alla lettera d) dello stesso comma
che «ove la procreazione sia avvenuta attraverso tecniche di inseminazione
artificiale la maternità e la paternità saranno attribuite ai soggetti che
hanno richiesto di procedere all'atto di fecondazione artificiale».
Non si comprende quale sia il motivo
di principio che debba inibire, nel caso di fecondazione artificiale, una
contrazione del diritto assoluto alla conoscenza delle proprie origini.
Ma più in generale deve rilevarsi
che un diritto - che può confliggere con diritti di altri soggetti - può
essere riconosciuto solo in quanto appaghi un bisogno fondamentale che deve
sempre trovare il modo di attuarsi. Dobbiamo invece riconoscere che nella
realtà della vita la sicura conoscenza delle proprie vere origini è sempre un
dato incerto. Può essere altamente probabile, può essere presuntivamente
sicuro, ma mai inequivocabilmente indiscutibile. Nel passato non è stato mai
possibile avere certezza della propria paternità e i latini avevano coniato il
brocardo "pater incertus est". Oggi - attraverso l'ingegneria
genetica - anche la madre che ha partorito potrebbe non essere la madre
biologica ma solo colei che per un certo tempo ha portato nel suo grembo il
prodotto dell'incontro di ovuli che sono stati forniti da terzi.
Ma allora il diritto alla conoscenza
delle proprie radici in realtà si risolve solo in un diritto ad una mera
presunzione di generazione da quelle persone che appaiono come il proprio padre
e la propria madre. II bisogno della conoscenza della verità in realtà si
stempera in un bisogno di conoscenza di una verità formale, spesso solo
giuridica. E si riduce ad una curiosità ambigua perché limitata a dati formali
e non sostanziali, a presunzioni che non possono mai avere il crisma della
autenticità.
È poi da sottolineare come questo
assoluto, anche se nella realtà solo approssimativo ed incerto, bisogno di
conoscere le proprie radici ritorna ad enfatizzare quel diritto del sangue che
nella cultura degli anni settanta sembrava essere stato fortemente
ridimensionato. Si ha l'impressione che non essendo più praticabile una difesa
del diritto del sangue dei genitori che abbandonano il figlio si cerchi oggi
di aggirare l'ostacolo risuscitando un diritto del sangue del figlio nei
confronti dei genitori: ma se un diritto del sangue ha da essere riconosciuto
esso non può non valere in entrambe le direzioni e dovrebbe perciò consentire
sia la ricerca da parte del figlio dei propri genitori sia la ricerca da parte
di questi del proprio figlio. Con le evidenti conseguenze che ciò può
comportare in danno di chi ha riconosciuto come propri genitori solo coloro che
gli hanno dato la vita non solo biologica ma nella pienezza di umanità.
Non può certo negarsi che la
generazione biologica ha una sua non indifferente rilevanza nella vita di ogni
essere umano specie sul piano fisico e del patrimonio genetico. Ma è anche vero
che la identità di una persona si specifica e si costruisce nella storia e
nelle molteplici esperienze e relazioni umane che ogni soggetto, specie nei
primi anni di vita, realizza.
I materiali per la costruzione di identità
ognuno li ricava lungo la sua storia evolutiva dai molteplici processi di
identificazione e deidentificazione in virtù dei quali si è di volta in volta
"altro" per poter essere sempre più se stesso. Non si è genitori
solo se si è fisicamente generato un figlio; si è genitori nella misura in cui
si è contribuito allo sviluppo fisico e psichico del soggetto accompagnandolo
amorosamente nel suo difficile apprendistato di vita. Rapporti significativi
nascono solo da questa relazione non dal dato biologico della donazione del
gene. E non è questa una aberrante idea nata in quest'ultimo ventennio se è
vero - come è vero - che già San Giovanni Crisostomo affermava che la virtù non
la natura ci onora del titolo di padre e madre e se una antica liturgia greca
dell'adozione usava la formula «da oggi tu sei mio figlio e oggi ti ho generato
nell'amore».
Ed è significativo che dalle
testimonianze dei figli adottivi divenuti adulti non emerge affatto questo
spasmodico bisogno che appare perciò più creato dagli adulti che effettivamente
esistente nel profondo dei giovani. In quella raccolta di testimonianze fatta
alcuni anni fa da Neera Fallaci (Di mamma non
ce n'è una sola) una bambina diceva: «Mia madre non è colei che mi ha
partorito contro il suo desiderio e la sua volontà ma quella che mi ha
costruito giorno per giorno, anno dopo anno, facendomi come sono». Un bambino
diceva: «Non li definirei genitori perché non lo sono: genitori sono quelli che
ti crescono, ti danno una istruzione, ti formano un carattere, non sono quelli
che ti generano per scomparire dalla tua vita».
3.
Se si riconosce sul piano giuridico l'esistenza di un bisogno-diritto a
conoscere chi ha biologicamente generato, diviene indispensabile prevedere un
obbligo di riconoscimento da parte anche del genitore naturale o, quanto meno,
che siano acquisiti elementi documentali atti a consentire il rintraccio del
proprio genitore naturale. È indicativa di questa tendenza una proposta
legislativa per rendere obbligatorio il riconoscimento del proprio figlio da
parte della madre nonché la proposta del sopracitato progetto ISLE secondo cui
«le generalità della madre e, ove note, quelle del padre devono essere
acquisite e conservate presso gli uffici dello stato civile indipendentemente
dal riconoscimento volontario o giudiziale».
Ma non ci si può non domandare se
tutto questo sia veramente nell'interesse del minore o se, per assicurargli la
possibilità eventuale di soddisfare la sua curiosità di sapere da chi è stato
generato, non si inneschi un meccanismo che può ritorcersi a suo grave danno.
È innanzi tutto da rilevare come è
del tutto teorica la possibilità di assumere notizie su chi sia il padre del
nato. Non può infatti, in questo campo, valere la dichiarazione della donna né
valere la voce pubblica: è giuridicamente assurdo il prevedere - come fa la
proposta dell'ISLE -che siano acquisite e conservate presso gli uffici dello
stato civile le generalità del padre «ove noto indipendentemente dal
riconoscimento».
Ove manchi, infatti, una esplicita
assunzione di paternità attraverso il riconoscimento, nessun valore possono
assumere dichiarazioni, non si sa quanto interessate, di terzi. Dovrebbe quanto
meno esigersi un procedimento contenzioso in cui deve essere data al soggetto
che si afferma essere il padre la possibilità di negare una responsabilità
nella generazione che potrebbe essere del tutto infondata e radicata su non
sempre commendevoli motivazioni. In realtà bisognerebbe prevedere, in tutti i
casi, un obbligatorio procedimento per una dichiarazione di paternità
naturale con le stesse garanzie di cui agli art. 269 e seguenti del Codice
civile. Ma non è seriamente pensabile che si aprano d'ufficio procedimenti di
questo genere per tutti i nati da persone sconosciute o per tutti i bambini
riconosciuti dalla sola madre. Né sembra auspicabile una simile dilatazione
delle dichiarazioni giudiziarie di paternità anche quando nessun soggetto lo
richieda perché non appare opportuno, nell'interesse del bambino, far
effettuare giudizialmente la ricerca della paternità.
Comunque, ove un simile accertamento
venisse effettuato si dovrebbe dar valore giuridico al riconoscimento
giudiziario che il soggetto è il padre del bambino e non potrebbe esso aver invece
solo un effetto, privo di giuridiche conseguenze, di registrazione di
generalità a futura ed eventuale memoria.
Ma è proprio interesse del ragazzo
avere un padre portato a non volere assumere le sue funzioni, portato a
vendicarsi sul bambino per il segreto coattivamente svelato, spinto quanto
meno ad essere disturbante il rapporto con la madre che da sola ha riconosciuto
il figlio e che non desiderava che il padre fosse coinvolto nella funzione
educativa?
E se il bambino non è stato
riconosciuto da alcuno è proprio opportuno, e nel suo interesse, che il facile
ed immediato inserimento in una famiglia adottiva sia ritardato e disturbato
da una azione giudiziaria tendente a far emergere dall'ombra i suoi genitori
biologici?
Più praticabile è invece la
possibilità di obbligare al riconoscimento del proprio figlio la madre che lo
ha partorito o quanto meno di registrarne le generalità: ma se ciò è possibile
possiamo seriamente dire che sia anche giusto e utile per il minore?
Ancora una volta si viene a creare
una sostanziale diversità di trattamento tra la donna, che viene obbligata a
riconoscere il proprio figlio, o a lasciare significative tracce della sua
maternità, e l'uomo che può impunemente nascondersi nell'anonimato: il che non
mi sembra una grande conquista di civiltà anche se contrabbandata come
attuazione di un diritto del minore. Inoltre può risolversi in un drammatico boomerang per il bambino l'imporre alla
donna di uscire dal suo desiderio di nascondere la sua maternità.
L'ordinamento giuridico, infatti,
consente liberamente alla donna l'interruzione volontaria della gravidanza
nei primi mesi di vita del concepito e sanziona in modo sostanzialmente
simbolico (reclusione da 15 giorni a sei mesi con la possibilità di
applicazione delle sanzioni sostitutive) l'aborto prima dell'inizio del parto.
Una disposizione di questo genere incentiverà inevitabilmente - per la donna
che non intende assumersi la responsabilità della generazione - il ricorso a
una drastica eliminazione del proprio figlio con il che, per assicurare al
bambino nato la possibilità di eventualmente soddisfare la sua esigenza di
conoscere chi è sua madre, si facilita e incentivizza la negazione del suo
diritto a venire ad esistenza.
Si stimola comunque - sancendo la
necessità di mantenere traccia di chi ha dato al bambino la vita - il ricorso
al parto clandestino per assicurare riservatezza alla nascita: con l'ovvia conseguenza
di mettere in pericolo grave la vita della madre e dello stesso bambino.
Sembra veramente questo un obiettivo da perseguire con tanta
ferma determinazione?
E non sarà necessario riaprire
"le ruote" per assicurare un minimo di possibilità di sopravvivenza
al bambino che nasce da madre che voglia nascondere la propria maternità onde
evitare che il bambino sia abbandonato sulla pubblica strada o gettato nei
cassonetti della spazzatura?
Questa incapacità di valutare le
reali conseguenze di norme che si intendono predisporre a tutela di un
soggetto è una drammatica costante che, in questo caso, assurge a vette
difficilmente raggiungibili e comprensibili.
4.
Non essendo - per quanto sopra detto - seriamente praticabile una
generalizzata attuazione del diritto del ragazzo a conoscere le proprie radici,
quando un genitore o entrambi i genitori non lo abbiano riconosciuto come
figlio, l'unica concreta possibilità di attuare un simile diritto resta
ancorata al caso di adozione quando il genitore che ha riconosciuto il minore
ha consentito all'adozione o quando un provvedimento del giudice abbia
riconosciuto la sussistenza di una situazione di abbandono.
Ma già questa constatazione
ridimensiona notevolmente un diritto che si assume assoluto, perché connesso
con il fondamentale diritto di personalità alla identità, e lo trasforma, al di
là delle solenni affermazioni di principio, nell'assai più limitato diritto del
bambino adottato di poter conoscere chi sono i genitori che lo hanno abbandonato.
Non appare allora fuori luogo porsi
la domanda se ancora una volta il reale obiettivo non sia quello di fortemente
ridimensionare la legge sull'adozione, mai veramente accettata da una certa
cultura.
Comunque, appare necessario
interrogarsi se anche in questo caso, per ampliare la tutela dei diritti del
minore, non si rischi di contrarli e, talvolta, di annientarli.
È innanzitutto da osservare che se,
con il riconoscimento di questo diritto, si vuole appagare un bisogno
fondamentale del ragazzo, non può ammettersi che il diritto venga confiscato
nel momento in cui più impellente è il bisogno e in cui l'appagamento di esso è
veramente essenziale alla costruzione dell'identità.
È notorio che il problema delle
proprie origini è particolarmente stressante nel momento preadolescenziale e
adolescenziale in cui principalmente si costruisce la propria identità.
Rispondere al ragazzo - che chiede
in modo angoscioso di conoscere i suoi genitori biologici (che nell'ottica
della proposta restano i suoi "veri genitori") - che potrà esaudire
il suo desiderio solo quando diverrà maggiorenne, significa innescare, anziché
stemperare, una situazione di profondo disagio ed incrementare il fisiologico
conflitto con i genitori reali contrapponendo loro una figura mitica ed
idealizzata di genitori "veri", tanto più desiderabili quanto meno
concreti.
Molto meglio, per la serenità del
ragazzo, richiamarlo ai piani di realtà - essenziali per la sanità mentale -
facendo presente una impossibilità che spesso è anche naturale (quando si
tratta di persona non riconosciuta dai suoi genitori) ma che può essere anche
giuridica di appagare il suo desiderio.
Se si sancisce invece la possibilità
anche per il minorenne di conoscere i propri genitori naturali deve ammettersi
che ineluttabilmente ne deriveranno molteplici danni al ragazzo. La sola possibilità
che un qualche contrasto con il figlio da parte dei genitori adottivi possa
spingerlo a fuggire da essi per ricercare i mitici genitori di sangue
inquinerà inevitabilmente il rapporto educativo che, specie nel momento
pre-adolescenziale e adolescenziale, esige grande comprensione ma anche grande
fermezza per ridurre i deliri di onnipotenza propri di questa fascia di età.
Inoltre il ragazzo - specie quando
abbia alle spalle traumatiche esperienze di abbandono - ha un estremo bisogno,
per ricostruire una personalità profondamente segnata, di un clima familiare di
grande serenità. Ma l'instaurazione di un simile clima è resa oggettivamente
difficile anche dal solo pericolo di un ritorno dei genitori biologici, con le
inevitabili interferenze pesanti sullo svolgimento della funzione genitoriale.
E non è da escludere che il timore
di ciò scoraggi fortemente le adozioni nei confronti dei ragazzi più
grandicelli e con genitori noti con la conseguenza che proprio i ragazzi più
traumatizzati da tragiche esperienze di vita non possano vedere attuato il
loro diritto ad avere finalmente una famiglia stabile e serena.
Ma anche l'effettiva conoscenza da
parte del ragazzo di chi siano i suoi genitori di sangue pub non segnare
positivamente la vita del ragazzo ma piuttosto pesantemente incidere sul suo
processo formativo.
Se il ragazzo avverte il bisogno di
conoscere le sue origini non potrà mai contentarsi di una mera conoscenza dei
dati anagrafici relativi ai suoi genitori ma vorrà ricercarli e conoscerli per
capire meglio la causa del suo abbandono e chi essi siano in realtà.
Il diritto a conoscere, in effetti,
si risolve in un diritto a tornare, anche se non stabilmente, dai propri
genitori e in un diritto ad instaurare rapporti significativi con essi.
Bisogna però riconoscere che il
genitore abbandonante quasi mai è una figura significativa e positiva: la
realtà giudiziaria ci dice che per lo più i genitori che hanno visto reciso
drasticamente il loro rapporto con il figlio sono esseri violenti o
fisicamente o moralmente in situazioni di grave insufficienza, profondamente
segnati dalla vita.
Ritrovare un genitore oligofrenico o
ad uno stadio acuto di tossicodipendenza o assassino o stupratore - e venire a
conoscenza delle miserie morali che assai spesso sono alla base della
dichiarazione di adottabilità - difficilmente procurerà serenità e felicità al
ragazzo ma quasi sempre lo sconvolgerà in un momento particolarmente delicato
del suo processo formativo.
Inoltre il genitore
"stanato" difficilmente rimarrà inattivo, lieto di aver potuto
rivedere una volta il suo antico figliolo: vorrà inevitabilmente sfruttare la
nuova situazione che si è venuta a creare e le nuove possibilità, impensate, di
trarne un utile anche economico.
L'esperienza dell'adozione ordinaria
degli anni cinquanta, con la possibilità di ritorni dei genitori biologici,
ci dice che ricatti economici sulla famiglia adottiva erano frequentissimi e
assai pesanti, che interventi disturbanti sul ragazzo e sulla famiglia erano
all'ordine del giorno, che motti ragazzi uscivano del tutto distrutti da queste
esperienze. Per questo fu pensata la legge sulla "adozione speciale"
ed è francamente incredibile che, senza farsi carico di quei problemi, si
voglia ripercorrere una strada così accidentata. Contrabbandando l'idea che il
divieto di riscoprire i propri genitori biologici sia funzionale solo agli
interessi della coppia adottiva, bollata come coppia appropriatrice, e non -
come invece esclusivamente è- agli interessi di un essere umano che ha già
tanto sofferto dalla vita e che non può vedersi caricato, anche se non lo
prevede, di nuove indicibili sofferenze.
Il che vale non solo per il minorenne ma anche per il maggiorenne: rinviare la possibilità di conoscenza del proprio genitore al compimento dei diciotto anni, oltre ad essere ingiustificato perché l'esigenza è particolarmente avvertita proprio nel corso del processo di sviluppo, non elimina le conseguenze negative sopra indicate.
5.
Il diritto, al contrario della psicologia, non può esimersi dal valutare
tutti gli aspetti di un problema, senza limitarsi ad enfatizzare un bisogno su
altri ma cercando di contemperare le diverse esigenze nei rapporti umani.
Mi sembra che, quando si parla del
diritto del ragazzo a conoscere le proprie origini, si trascuri con troppa
disinvoltura il diritto del genitore biologico che ha visto troncati í suoi
rapporti con il figlio a non vedere riemergere dal passato fantasmi
conturbanti.
Perché la ricomparsa di un figlio, a
molti anni di distanza dalla sua definitiva perdita e senza che questo
attribuisca diritti oltre che doveri, può sconvolgere gravemente anche la vita
del genitore naturale.
La dichiarazione di adottabilità non
sempre, infatti, è assunta nei confronti di un genitore recalcitrante: spesso,
come del resto sarebbe preferibile, vi è un consenso del genitore che si rende
perfettamente conto di non potere accudire al suo bambino e che, come
testimonianza del suo amore per lui, vi rinuncia al fine di assicurargli una
vita più serena e felice.
La definitiva rinuncia al figlio è,
per il genitore, accompagnata dalla sicurezza che lo strappo quanto meno gli
consentirà di rifarsi una vita nuova in cui la presenza del ragazzo non sia di
ostacolo a questa ricostruzione di una esistenza.
Il ritorno del figlio può
sconvolgere l'equilibrio esistenziale raggiunto, rivelare al nuovo partner
esperienze di vita che possono non essere conosciute, inquinare i nuovi
rapporti interpersonali intrecciati, riaprire vecchie ferite, scardinare
equilibri emotivi con molta difficoltà conquistati.
E se il figlio - riemerso dall'ombra
- una volta appagata la propria curiosità scompare un'altra volta nel nulla vi
è il concreto rischio di imporre una nuova inaudita sofferenza e di rinnovare
un "lutto" che, con molta difficoltà, era stato superato: il
genitore, che è un essere umano anch'esso con sentimenti e bisogni da
tutelare, merita una punizione così drammatica perché nessun diritto gli deriva
dalla ricomparsa del figlio?
Sembra quasi che si voglia
restaurare la legge del taglione per cui chi ha abbandonato un tempo debba vedersi
a sua volta abbandonato dopo una fugace comparsa di un fantasma del passato.
Vi è il rischio, oltre tutto, che di
fronte ad una simile prospettiva si accentui la conflittualità in occasione
della dichiarazione di adottabilità mentre sarebbe sempre più auspicabile che
si realizzassero più consensi dei genitori naturali al riconoscimento
dell'abbandono del figlio.
6.
Se si valutano con attenzione i benefici che possono derivare al minore
dalla possibilità di conoscere la vera identità dei suoi genitori naturali e i
danni che possono derivare alla sua vita ed alla vita di altre persone si deve
riconoscere che i secondi superano di gran lunga i primi e che perciò non è
affatto consigliabile riconoscere, solo nel caso di adozione, questo diritto
e predisporre strutture per attuarlo.
Del resto una concreta possibilità
di identificare i propri genitori naturali sarà possibile solo nell'ambito
delle adozioni nazionali ma non in quelle internazionali che oggi costituiscono
il maggior numero di adozioni realizzate.
La precarietà delle situazioni
economiche che hanno portato all'abbandono, le difficoltà nelle registrazioni
anagrafiche nelle popolazioni dei paesi di sottosviluppo, i frequenti
spostamenti nell'ambito del territorio costituiscono infatti ostacoli assai
spesso insormontabili nella identificazione dei genitori. Ma se ciò è vero
appare poco credibile il proclamare un assoluto diritto del ragazzo a conoscere
più che le proprie radici l'identità dei suoi genitori di sangue.
Né - per risolvere i problemi
connessi ai danni della rivelazione dell'identità del genitore e del
conseguente incontro con lui - è possibile subordinare il diritto ad un
accertamento giudiziale che l'indicazione dei dati inseriti nell'atto di
nascita non porterà un pregiudizio al ragazzo.
Se il diritto viene riconosciuto
esso non può subire limiti proprio perché si tratterebbe di un diritto
personalissimo. Né appare. opportuno che sia un giudice a contrarre un simile
diritto sulla base di non bene identificati criteri di pregiudizio e non.
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