Prospettive assistenziali, n. 103, luglio-settembre
1993
LA MIA
VITA AL COTTOLENGO DI ROMA
NUNZIA COPPEDÈ (*)
Sono passati
ormai diciannove anni dal giorno in cui ho detto addio all'istituto. Ho scritto
un libro autobiografico dove ho raccontato le parti più salienti degli anni
trascorsi al Cottolengo di Roma con l'obiettivo di render pubbliche le violenze
subite tra quelle mura e per metterle a confronto con la mia vita di oggi.
Ecco alcuni brani.
Sono nata il 23 ottobre 1948 in una frazione di
Tivoli, Villa Adriana. La mia casa era vicina alla famosa e storica Villa, in
un agglomerato affollato da bambini e famiglie. Si conoscevano tutti e c'era
un clima di amicizia e di solidarietà. Noi abitavamo in una casa piccola
(almeno così me la ricordo) ma fuori c'era tanto spazio per giocare. La
mattina del 23 ottobre 1948 ho dato il mio saluto alla vita. Non credo che la mia
nascita abbia illuminato di gioia chi mi stava aspettando.
Pesavo un chilo e ottocento grammi, il mio corpicino
era deformato, le gambe incrociate, le braccia sghembe, le mani avevano i pollici
piegati e aderenti al palmo, le altre dita stavano messe storte e rigide. Nel
complesso non sembravo piacevole: non ero attesa così.
Le mani della levatrice e di alcune donne del
vicinato mi portarono alla luce con facilità, e mi diedero a mia madre, mio
padre e a mia sorella Natalina. Superato il primo momento di rifiuto e di
panico i miei genitori cominciarono ad affrontare le difficoltà che questa
nuova vita provocava, ed incominciarono le lunghe corse per gli ospedali
romani. Nomi famosi della medicina del momento sperimentarono sul mio corpo.
Con diciannove gessi cercarono di costruirmi un
aspetto fisico decente, ma con grande delusione di tutti ogni volta succedeva
quasi niente di nuovo. Quando toglievano l'ingessatura le gambe e le braccia riassumevano
la solita posizione. Provarono anche con due interventi chirurgici, ma
risultarono inutili. Tutto questo si svolse nei primi cinque anni della mia
vita. Talvolta ho provato a chiedere alla mia mamma notizie riguardanti quel
periodo ma dentro i suoi occhi leggevo disperazione e il rifiuto di parlarne.
Il ritorno a casa fu il mio primo incontro reale con
la famiglia tutta intera. Ebbi la mia prima carrozzina per spostarmi, il mio
corpo non attirava sorrisi né carezze, ma avevo lo stesso molte persone
attorno. Mi dicono che avevo tanta chiacchiera e due occhi furbastri che si
notavano subito dentro il carrozzone che mi ospitava. Passavo molto tempo a
giocare con mia sorella e con altri bambini, stavo all'aria aperta, avevo l'amichetta
del cuore; tutto ciò mi appariva normalissimo. Ad ottobre iniziò la scuola.
Non trovai ostacoli per essere accettata poiché le mie difficoltà erano solo
fisiche. Avevo il grembiule nero, il colletto bianco e il fiocco blu. La
cartella era grande e marrone; dentro avevo: libri, quaderni, penne e matite.
Quando passavo, prima si vedeva la carrozzina, poi la cartella, infine si
notava anche me, esile e mingherlina che tentavo di mostrarmi: «Hei, ci sono
anch'io!»! In classe mi toglievano dalla carrozzina e mi sedevano sul banco
come tutti gli altri bambini.
La scuola era vicino casa. All'inizio mi accompagnarono
per un poco mia mamma o mia sorella, ma poi non ce ne fu più bisogno. Le amiche
di scuola passavano a prendermi e al ritorno mi riaccompagnavano. La mia prima
maestra la ricordo bene, non era molto giovane, rammento che ci vedeva molto
confusamente. A scuola non accettavo facilmente che ci fossero bambini più
bravi di me. Il mio più grande desiderio era quello di diventare la prima
della classe, ma non ci sono mai riuscita.
Avevo due amiche particolari: una era la mia vicina
di banco, molto timida, con tante lentiggini sul viso. Abitava lontano e ci
vedevamo solo nelle ore di lezione; quando mi capitava di dover andare in
bagno mi accompagnava quasi sempre lei. L'altra amica abitava vicino casa mia:
aveva capelli neri e ricci che gli pendevano giù per le spalle. Passavamo la
maggior parte della giornata insieme a giocare, a fare i compiti, a
passeggiare. nei giochi "di famiglia" continuavo a fare la figlia. Al
gioco del nascondino ero sempre la prima ad essere trovata. Al gioco delle
corse la mia sorte era quella di lasciarmi spingere con la carrozzina
inseguita dagli indiani. Altre volte facevo l'arbitro e calcolavo il tempo per
stabilire chi vinceva le gare.
Frequentai anche il catechismo dalle suore, e là
incontrai altri bambini che giungevano da contrade più lontane. C'era un
cortile grandissimo con tanti giochi che io non potevo fare. Con gli amici
passavamo la domenica mattina: loro a giocare e io a guardare. Nel periodo di
Natale le suore preparavano pacchi-dono per le famiglie povere; a me in queste
occasioni arrivavano sempre moltissimi giocattoli. Con il magone
"dentro" percepivo che me li davano perché non camminavo, e intuivo
che mi facevano tutti quei regali per aiutarmi a capire che ero più sfortunata
degli altri bambini.
Un giorno vennero a cercarmi due signorine, una di
loro era cieca. Appartenevano ad un istituto di Roma, "II Piccolo
Rifugio". Avevano ricevuto una domanda di ricovero per me presso il loro
centro. Mi proposero di andare con loro al mare a Torvaianica per le vacanze
estive, così - dicevano - ci conosciamo in un clima di vacanza e ti sarà più
facile inserirti in un istituto. Accettai con entusiasmo e partii.
Al Piccolo Rifugio non trovai solo bambine, ma anche
signorinelle e forse qualcuna aveva anche qualche anno in più. lo presi subito
in simpatia Nicoletta, una ragazza di diciassette anni che non camminava, ma
con la carrozzina faceva acrobazie; suonava la pianola molto bene e
frequentava la scuola superiore. Mi ritrovai per la seconda volta assieme ad
altri handicappati. Fu per me una nuova conferma di non essere la sola e fece
capolino in me l'idea che avrei potuto fare tante cose belle e interessanti. A
Torvaianica tra noi e le assistenti - che si facevano chiamare zie - eravamo
circa una trentina. La direttrice si faceva chiamare mamma. Il bagno al mare
non lo facevamo perché la stagione calda era ormai alla fine, però ci facevano
giocare molto con la sabbia. C'era un'aria vacanziera e di quei giorni mi
rimane un buon ricordo. Le zie mi portavano sempre fuori con la macchina e mi
compravano i dolci.
In questo istituto non c'erano le scuole medie e le
zie si resero conto ben presto che questo era il mio grande desiderio. Allora
mi proposero di spostarmi in una loro succursale del nord, dove c'era la
possibilità di frequenza scolastica, e nelle vacanze sarei tornata a Roma. Ero
entusiasta di questa proposta.
La domenica del 15 ottobre 1959 aspettai con ansia l'arrivo
dei miei genitori per festeggiare il mio compleanno scoccato due giorni avanti.
Giunsero con un regalo inaspettato: la decisione di portarmi via. Non era loro
piaciuta la proposta delle zie. Avevano trovato un "posto bellissimo"
per me. Mamma mi disse: «Sono andata con la signorina Liliana a vedere un istituto
a Roma, ma è vecchio, piccolo e con una puzza di broccoli. L'impressione è
stata proprio brutta. Siamo poi andate a vederne un altro, sempre a Roma, e
questo era bello, grande e pulito».
Non sono stati molto convincenti. Ho pianto molto nel
lasciare la piccola struttura dove trascorsi la mia prima vacanza lontano
dalla famiglia. Volevo molto bene sia alle zie che alle compagne e non
m'importava molto se la casa dove stavo andando era più bella. Sul pullman che
mi riportava a Roma piansi ininterrottamente; i miei genitori per un po'
vacillarono nella loro decisione, ma poi si tirò dritto verso il nuovo
istituto.
Erano circa le tre e mezzo del pomeriggio quando
varcammo il cancello dell'entrata al Cottolengo. La prima cosa che vidi furono
le sbarre di ferro del cancello che si rinchiudevano come a seppellirmi. Di
fronte si ergeva il grande portale della chiesa, mentre a fianco c'era la
portineria monumentale con scritto in alto: "Casa Della Divina
Provvidenza".
Era un bel pomeriggio di una delle ultime giornate
autunnali calde. Ci siamo diretti nella discesa che conduce al cortile interno
dell'istituto. Vidi enormi palazzoni, che mi diedero la sensazione di trovarmi
in un grosso ospedale. Il cortile era deserto, entrammo nell'atrio grandissimo
con tante finestre, li venne a conoscermi suor Francesca. Mi accompagnò nel
reparto dove ero stata destinata. Il "reparto delle bambine" era
completamente vuoto perché le bambine erano nel salone del cinema dove stavano
proiettando un film. Era tutto molto grande, mi sentivo perdere in tanto
spazio. Finito il giro mi accompagnarono nel salone del cinema. I miei genitori
mi salutarono e andarono via. lo rimasi a vedere il film. Era un documentario
con tanti animali; non mi interessava ma non avevo altra scelta. Mi veniva
difficile capire perché i miei genitori mi avessero portato in questo posto
nonostante i pianti, ma "collegavo" nella mia testa che l'avevano
fatto per il mio bene.
Uscita dal cinema mi sono incontrata con le future
amiche. Eravamo circa una trentina; età dai tre ai diciotto anni. Alcune non
avevano solo difficoltà fisiche ma anche psichiche. Seppi che non era l'unico
reparto delle bambine. Ce n'era un altro più grande, ma con bimbe molto più
gravi che passavano la giornata in una stanza sedute su un seggiolino con il
vasino sotto. Quando venivano i familiari a trovarle le aggiustavano e le
portavano in parlatorio.
Nell'istituto c'erano bambine, giovani, adulte e
anziane, circa seicento persone. Gli uomini erano circa una decina, anche loro
erano handicappati, facevano i factotum. La prima sera mi sentii perduta.
Nel reparto si erano formate aggregazioni spontanee.
II gruppo delle più grandi era un vero e proprio clan; l'altro era formato
dalle più piccole, di cui molte con handicap psichico. Non era facile entrare
nel clan delle grandi, bisognava conquistarsi la loro fiducia. La prima sera
ho intravisto occhiatacce e ho avvertito fortemente la sensazione di essere
un'intrusa. Le altre erano molto più piccole di me e più che bambine "da
giocarci insieme" mi sembravano mocciose da aiutare. La suora cercava di
rimediare standomi vicino, parlandomi, rassicurandomi che in pochi giorni
sarei diventata amica con le grandi e tutto sarebbe stato risolto.
La sera ho visto anche la zona notte che era al piano
di sopra: due cameroni enormi. Avevano la luce notturna e non restavano mai al
buio completo. Al centro della stanza c'era un grande vaso da notte. Se avevamo
urgenza di fare i nostri bisogni fisiologici usavamo per tutte questo vaso che
veniva svuotato la mattina. La suora aveva la sua stanza vicino ai cameroni. La
sera quando spegneva la luce ci faceva dire le preghiere, dopo di che guai a
chi parlava altrimenti il giorno dopo erano castighi. Le luci si spegnevano
intorno alle nove. La mattina ci alzavamo presto perché alle sette dovevamo
essere già in chiesa per la messa. Però prima dovevamo alzarci, lavarci,
vestirci e dire tutte insieme le preghiere del mattino. Tornate dalla messa
facevamo colazione. Dalla cucina arrivava latte e caffè d'orzo, poi suor
Francesca apriva un armadio dove erano depositati i dolci che ciascuna bambina
aveva suoi personali perché portati dai familiari. Alcune bambine non avevano
famiglia, erano state mandate lì dall'orfanotrofio di Narni, e per loro c'era
soltanto il pane.
Poi si andava a scuola: era una stanzetta con dei
tavoloni. Le piccole facevano nelle prime due ore una specie di preparazione
alla prima elementare. Le più grandi facevano terza, quarta o quinta
elementare, tutte nella stessa classe, nelle stesse ore e con la stessa maestra
che era suor Francesca. Ogni classe veniva ripetuta due anni perché erano
scuole differenziali. Delle "medie" neanche a parlarne. lo avevo già
fatto le scuole e così mi sono messa a seguire le piccoline. Le uniche lezioni
a cui partecipavo erano quelle di storia sacra, il pomeriggio, due volte alla
settimana.
Ad aiutare suor Francesca c'era una signorina che
aveva superato i cinquant'anni e si chiamava Teresina, noi la chiamavamo
"il Boione". Tutti i giorni, mentre ci insegnava a cucire, ci diceva
che noi eravamo invalide e che quelle come noi che restavano in famiglia prima
o poi finivano sul marciapiede a chiedere l'elemosina. Ci invitava poi a
pregare per il santo fondatore dell'istituto per ringraziarlo di aver fatto
nascere questa opera garantendoci così di essere assistite e di non essere un
peso e una sofferenza per la famiglia.
Queste cose piano piano sono penetrate dentro di me.
Riuscivo persino a ringraziare Dio per avermi salvata dai mali del mondo. Non
ero sola, eravamo in tanti, bastava rassegnarsi. Mi sentivo brutta, avevo
vergogna a mostrarmi agli altri e rimanere lì mi faceva sentire protetta.
La vita nel reparto era piuttosto monotona: al mattino
messa, colazione, scuola, poi c'era il pranzo che diventava sempre una
complicazione per me che non avevo appetito e non mi piacevano parecchie
cose, ed era un problema far sparire quelle che non volevo mangiare, senza che
la suora o il Boione si accorgessero del fatto. Quando scoprivano le nostre
marachelle ci rimproveravano di brutto, ma non ci picchiavano. A prendere le
botte erano solo le bambine che non avevano famiglia. Talvolta non venivano
usate solo le mani ma anche le sedie.
La sera, prima di dormire, passavano le gocce di
bromuro per le bambine più nervose. A me non le davano, ma poi una sera che mi
sentivo terribilmente nervosa diedi un morso ad una ragazza handicappata
psichica che mi stava aiutando a coricarmi. Da quella sera per tutto il tempo
che sono stata in quel reparto mi hanno somministrato le gocce di bromuro.
Sento ancora quel sapore salatissimo amaro che poi mi rimaneva per tutta la
notte. Una mattina alla sveglia notammo che c'era qualcosa d'insolito. Suor
Francesca e il Boione passavano di corsa, da una parte all'altra, e non avevano
occhi per noi. Lina, la più grande del reparto bambine (diciotto anni) stava
male, aveva la febbre altissima; venne subito trasferita al reparto dell'infermeria
dove c'erano adulti gravi non autosufficienti. Poco dopo venne da me suor
Francesca e mi disse: «Sai Annunziata, tu come età sei molto più piccola di
altre bambine di questo reparto, però sei già andata a scuola e qui non puoi
fare più niente, così abbiamo pensato di trasferirti all'infermeria di Santa
Bernadetta, perché tu hai bisogno di assistenza e non puoi andare al reparto
delle invalide. Vedrai che ti troverai bene, poi là c'è già Lina, sai, ci
rimarrà pure lei, insieme vi farete compagnia». Il giorno dopo venni trasferita
con i miei fagottelli. Avevo dodici anni e tre mesi.
Entrai nell'ascensore situato nel padiglione vecchio
dell'istituto al secondo piano; mi trovai in un lungo corridoio; giunsi davanti
ad una porta di vetro che faceva trasparire solo le ombre. A ricevermi c'era
suor Agnese. Il reparto era formato da una camera di otto letti, una di sedici
e una di quattro chiamata l'isolamento. C'era inoltre la stanzetta delle suore
e un lungo corridoio che fungeva praticamente da zona giorno e nello stesso
tempo collegava le camere e i bagni. Ad un certo punto il corridoio faceva
angolo e li c'erano i lavandini per lavare i piatti. Si mangiava lungo il
corridoio.
In questo reparto, oltre Lina che aveva diciotto
anni, le altre erano tutte dai vent'anni in su. lo e Lina dormivamo nel
camerone di sedici letti. Con noi dormiva Marisa, che aveva il letto con le
sbarre; non so bene cosa avesse, capiva abbastanza però urlava e sbatteva
sempre le braccia nelle sbarre, come se fosse stata arrabbiata con il mondo
intero. Giovanna, sua amica inseparabile, inchiodata nel letto, riusciva a
muovere solo gli occhi che sembravano sempre urtati e scontenti. Marisa sarà
stata in tutto alta mezzo metro, aveva gambe incrociate sul petto e la testa inchinata
da una parte, era sempre a letto e piangeva in continuazione perché aveva
dolori forti; morì poco dopo il mio arrivo. Laura invece era una specie di
monumento perché era stata la prima ricoverata di questo istituto; camminava,
aveva problemi psichici e il mal di cuore, aveva sempre le labbra e le unghie
viola, ma la cosa che più mi colpiva era la sua gamba dal ginocchio in giù:
era blu e le dava prurito, lei si grattava a più non posso e perdeva sangue e
nella gamba aveva sempre tante ferite. Mi faceva paura e ribrezzo contemporaneamente.
Laura però mi faceva assistenza. Le altre che dormivano in questa stanza erano
handicappate psichiche gravi e molte di loro erano epilettiche.
Nella camera di otto letti dormivano persone
considerate più serie, e rispettabili. Ci dormiva Bernardina, una donna che
aveva superato i cinquant'anni e stava in carrozzina. Credo avesse avuto la
poliomielite, aveva la mania di comandare, si sentiva superiore anche alle
suore e non ho mai capito perché la lasciassero fare. lo e Lina diventammo amiche
inseparabili e Bernardina non ci sopportava, diceva che eravamo delle
mocciose. Lavorava a maglia, faceva dei lavori molto raffinati e la chiamavano
"mani di fata". Da lei abbiamo imparato a lavorare pure noi. Le
altre della camera di otto letti erano pressappoco inesistenti, "mani di
fata" compariva per tutte. Nell'isolamento c'erano sempre tre letti disponibili
per persone di altri reparti, qualora prendessero una malattia infettiva. II
quarto letto era occupato da Domenica, che urlava giorno e notte.
Suor Agnese era giovane ma faceva pensare che avesse
vissuto molto male la sua gioventù. La scontentezza le trapelava da tutte le
parti e la rendeva agli occhi di chi le stava accanto una creatura perfida,
pronta a dimostrare a tutti quelli che le stavano intorno che erano un fastidio
per lei. Cercava di mascherarsi con un sorriso che non sapeva fare.
In questo reparto non esisteva scuola né lavoro. La
giornata si svolgeva così: al mattino ci svegliavamo alle sei e mezza, dovevamo
lavarci e metterci la camicia da notte pulita o il golfino apposito per il
letto, poi restavamo sedute ad attendere che iniziasse la messa che
ascoltavamo attraverso gli altoparlanti. Nell'attesa suor Agnese ci faceva
dire le preghiere del mattino. A metà messa ci veniva portata la comunione.
Noi eravamo tutte col velo in testa. Poi arrivava la colazione, servita nel
letto. Anche subito prima e dopo la colazione pregavamo per ringraziare il
Signore di averci dato il cibo. Dopo la colazione ci alzavamo se ne avevamo voglia,
altrimenti restavamo a poltrire.
Per aiutarci nell'assistenza c'era suor Agnese e
Teresa. Questa era una donna di circa cinquant'anni, handicappata psichica.
Veniva inviata apposta dal suo reparto per fare assistenza e le pulizie da
noi. Era molto forzuta, e l'assistenza che ci faceva era strettamente legata al
suo umore giornaliero. Questo era motivo di urli, e spesso botte che Teresa
menava, ma la suora non vedeva e non sentiva nulla.
La mattina la trascorrevamo tra una finestra e
l'altra del corridoio, in attesa del pranzo che veniva servito alle undici e
mezza. Si poteva ammazzare il tempo facendo qualche lavoretto a maglia, oppure
preparare qualcosa per la mostra di beneficienza che si allestiva annualmente
il trenta aprile dentro l'istituto. II pomeriggio trascorreva nello stesso
modo, ad eccezione della stagione estiva, durante la quale potevamo scendere in
giardino. Alle cinque e mezza pomeridiane ci servivano la cena. Alle sette
dovevamo essere tutte a letto. Alle nove, dopo aver detto le preghiere della
sera, la suora spegneva la luce e si dormiva.
Dopo pochi giorni che ero lì è arrivata Maria Giulia,
anche lei in carrozzina. Non so bene che malattia avesse, dicevano che era
rachitica, era molto magra e sempre pallida. Aveva due anni più di me e veniva
da un altro istituto che si trovava a Santa Marinella, dove ci era entrata a
soli due anni. Da allora non era più ritornata a casa sua, non aveva idea di
cosa fosse una abitazione familiare. Con Maria Giulia diventai molto amica,
eravamo vicine di letto, passavamo ore e ore a bisbigliare mentre le altre
dormivano, avevamo sempre tante cose da dirci. Naturalmente appena sentivamo
arrivare la suora della notte facevamo finta di dormire.
Io, Lina e Maria Giulia formavano un trio fisso. A
suor Agnese la cosa non piaceva: diceva che non era bene stare tutto il giorno
insieme, poi si parlava... chissà cosa si diceva... E così durante il giorno ci
collocava una per angolo, e guai se si accorgeva che anche da lontano tentavamo
di dirci qualcosa tramite un cenno o un'occhiata.
Spesso mi portava nella stanzetta dove lei cuciva e
mi costringeva a recitare insieme cinquanta Pater Ave e Gloria, che lei suora
aveva la regola di dire, e in più ogni quarto d'ora mi faceva ripetere le giaculatorie.
Restavano poi le preghiere che obbligatoriamente dovevamo dire tutte insieme
prima e dopo i pasti, prima di dormire la sera, la mattina appena sveglie, il
rosario intero, con misteri gloriosi, gaudiosi e dolorosi, durante la giornata.
Suor Agnese aveva anche una mania particolare. La
mattina ci metteva in fila nel corridoio, lei passava e ci buttava in testa
tanto alcool da inzupparci i capelli, poi ci pettinava. Ci voleva tutte con i
capelli cortissimi, ce li tagliava lei, e dietro la nuca ci passava il rasoio.
Non sembravamo affatto donne.
La suora manifestava una evidente antipatia per Maria
Giulia. Proprio non la poteva vedere, la picchiava sempre e le lasciava lividi
per tutto il corpo. lo soffrivo molto per questa situazione perché volevo molto
bene a Maria Giulia.
Un giorno Maria Giulia mi disse che la mamma le aveva
promesso di portarla a casa per quindici giorni. Provava ad immaginare la sua
casa (per la verità la immaginavamo insieme, ne parlavamo con tanto
entusiasmo). Arrivò il giorno della sua partenza per Camerata, un paesino in
provincia di Roma. Era super emozionata ed io pensavo già a quando sarebbe
ritornata e alla soddisfazione che avrebbe avuto nel raccontarmi le cose
sconosciute ma desiderate che avrebbe vissuto. Dopo due giorni arrivò la notizia
della sua morte. Nessuno è riuscito a spiegarsi cosa le sia accaduto. La
notizia mi sconvolse. La sua scomparsa lasciò intorno a me un forte senso di
vuoto. Mi domandavo se la suora avesse sentito rimorso per quanto l'aveva fatta
soffrire. Dopo poco venne trasferita. Ringraziai in cuor mio i superiori che
avevano preso questa decisione. Più tardi scoprimmo che era andata a farsi
suora di clausura. AI suo posto venne suor Maria.
Suor Maria era una tipica donna campagnola di mezza
età, aveva l'aria bonaria, mi pareva più umana. Con tutto il cuore sperai che
le condizioni di vita in quel reparto cambiassero in meglio. Mi accorsi ben
presto di non esserle simpatica, aveva sempre qualcosa da ridire sul mio comportamento.
In quel periodo avevo circa tredici anni, perciò avevo interessi diversi dalle
altre compagne del reparto, sia per la differenza di età, sia per l'handicap
psichico di molte di loro. Trascorrevo ore e ore con la radiolina attaccata
all'orecchio, la musica mi faceva sognare e io mi lasciavo andare. Suor Maria
non sopportava di vedermi così, diceva che dovevo comportarmi da adulta. Spesso
quando mi prendeva in flagranza mi sequestrava la radiolina per alcuni giorni;
la domenica però me la ridava sempre perché venivano i miei familiari. Un
giorno non si accontentò di togliermi la radiolina; mi vidi arrivare una
cascata di schiaffoni e dopo pochi minuti sul mio fianco destro c'era un
grosso livido. Rimasi indolenzita per giorni interi. Vennero i miei a trovarmi
la domenica ma non dissi niente. Continuai comunque ad ascoltare la radiolina.
Per posta ricevevo il giornalino l’“Ancora”. Qualcuno
mi ci aveva abbonato, ma non so chi. Questo giornalino era divulgato da un
gruppo di volontari e invalidi che amavano definirsi: "Volontari della
sofferenza". Alcune donne che appartenevano a questo gruppo venivano a
trovarci. Erano tra le pochissime privilegiate che potevano accedere alle
camerate anche fuori dall'orario di visita. Parlavano anche con me; mi
dicevano: «Devi essere contenta perché Gesù ti ha scelta e attraverso la tua
sofferenza ti dimostra il suo amore, devi accettare la tua croce e lasciare
che la sua volontà si compia su di te! Non subire inutilmente la sofferenza ma
fatti volontaria della sofferenza». Alla fine svuotavano la loro borsa ricolma
di dolci e se ne andavano lasciandomi nella "mia sofferenza".
Una fredda e piovosa giornata d'inverno (avevo da
poco compiuto i quattordici anni) decisi di rimanere a letto. Lo facevo
frequentemente nelle giornate uggiose; quella mattina però non mi sentivo bene,
avevo uno strano mal di pancia. Ad un certo punto voltandomi nel letto scoprii
che il lenzuolo era tutto imbrattato di sangue, cominciai a tremare dalla paura
e scoppiai in un fragoroso pianto. Erano arrivate le mestruazioni. Ne avevo
sentito parlare sui banchi di scuola, ma quando a casa chiesi spiegazioni a mia
madre mi rispose di non dare retta a quelle cose, che non erano vere. Dopo di
che non mi spiegò niente nessuno, ed ora vedere tutto quel sangue mi spaventava
tanto.
Venne suor Maria a vedere cosa mi era successo, si
mise a ridere e mi disse che ero caduta dal letto, mi disse pure che da allora
sarei caduta dal letto tutti i mesi, e che era una cosa che capitava a tutte
le donne. lo non ci capivo niente, ero sicura di non essere caduta, ma si
intuiva che non era opportuno chiedere oltre, poiché sembrava trattarsi di una
cosa brutta di cui bisognava vergognarsi.
Man mano che il tempo passava si spegneva sempre più
in me l'interesse per qualsiasi cosa; mi interrogavo sul senso che la mia vita
potesse avere, ero senza volontà, mi indolenzivano gli urli di Baraccona, le
grattate di Laura, le romanzine del Boione che si lamentava perché non mi
comportavo da signorina seria, l'obbligo della preghiera tutti i giorni con orari
da suora, le dame di carità che venivano a chiedermi di pregare anche per
loro.
Tutto ciò provocava in me una forte ribellione.
Cominciai a reagire contro la religione. Quel Cristo che tutti proclamavano mi
appariva troppo disumano con me. Troppo difficile. Non potevo sentirmi amata da
chi mi propinava solo sofferenze e pretendeva che sopportassi passivamente
per espiare i peccati del mondo. Sia il parroco dell'istituto, sia le suore,
sia le brave signore sempre tanto eleganti che venivano a trovarci, mi
inculcavano la sofferenza come sintesi della religione cattolica.
Per reagire a una sofferenza vuota, insieme a Lina
decidemmo di non fare più la comunione tutte le mattine, ma solo il sabato e la
domenica. Questa novità allarmò le suore; ci fecero una valanga di prediche
finalizzate a "convertirci". ma noi continuammo imperterrite. Ogni
fine settimana seguitammo a confessarci, il venerdì del primo pomeriggio. Ci
facevano mettere in fila lungo il corridoio a circa un metro e mezzo l'una
dall'altra, tutte con un velo in testa e una sedia al fianco destro. Quando il
prete si accostava a me non sapevo cosa dirgli; l'unico peccato che ero
convinta di aver commesso e che ripetevo costantemente era quello di
desiderare di essere normale, e così ogni volta gli dicevo: «Ho fatto pensieri
brutti». Un giorno mi chiese quali erano i pensieri brutti che facevo in
continuazione, ed allora gli dissi il mio grande desiderio di camminare e di
provare le stesse cose che vivevano le ragazze della mia età. Egli mi disse:
«Questo è un peccato grave, chiedi perdono a Dio e non farlo più». Si rafforzò
in me il senso di colpa per i miei sogni ad occhi aperti, ma non si bloccò la
mia fantasia.
In istituto più il tempo trascorreva e più mi diventava
pesante rimanerci. Le uniche possibilità per uscire consistevano nell'andare
agli incontri del Centro Volontari della Sofferenza, a Lourdes con la UNITALSI,
dal Papa con le Dame di San Vincenzo. Tutte benemerite associazioni ma con poca
fantasia perché perseguivano il medesimo obiettivo: far pregare gli
handicappati.
Pur di uscire di là si andava anche a pregare. Nel
Centro Volontari della Sofferenza avevo incontrato Cecilia, la capo gruppo dei
giovani, con lei feci amicizia. Veniva a trovarmi spesso e sono stata anche a
casa sua. Come ultimo atto della nostra amicizia mi invitò ad andare a Re di
Novara. Accettai volentieri sperando di passare una settimana diversa, più
libera e con gente nuova. Ma anche lì si pregava sempre, perché si facevano gli
esercizi spirituali.
Morì la superiora. Era molto anziana, si fecero i
funerali in grande stile con fiori e canti. Il suo posto lo prese l'ex economa
e arrivò una nuova economa. La nuova superiora sembrava un calcolatore
elettronico. Aveva l'abitudine di passare davanti alle persone e di fermarsi a
squadrarle. Mentre ti fissava pareva che si facesse il conto di quanto gli
costavi al giorno. Insisteva a scrutarti. Sembrava che ti leggesse nell'intimo,
che ognuna di noi davanti a lei venisse acciuffata nei suoi segreti, o che
comunque a lei toccasse il supremo giudizio su tutte. Quella donna mi metteva
una soggezione incredibile. Da una parte avrei voluto conquistare le sue
grazie, dall'altra avrei voluto che scomparisse dalla mia vita.
Era una delle prime mattine fredde di un inverno che
stava alle porte. Scoprimmo come una notizia di sotterfugio che una nonna si
era buttata da una finestra del corridoio del terzo piano. L'avevo notata molte
volte che guardava attraverso i vetri di quella finestra, ma non immaginavo
che ci si volesse gettare. La invidiai perché lei, stando in piedi, era
riuscita nel suo intento lasciando tutti allibiti. La notizia del suicidio
della nonnina fu tenuta nascosta il più possibile. Venimmo a saperlo solo noi
perché il nostro reparto era situato nell'ala dove era avvenuto il fatto. Un
quotidiano del giorno dopo pubblicava un piccolo trafiletto dove veniva
riportato il caso e addossava la colpa dell'accaduto ai familiari che
l'avevano abbandonata.
Questo fatto fece scaturire in me la consapevolezza
di non essere l'unica a non sopportare questo genere di vita, e che forse non
pretendevo l'assurdo desiderando una vita felice.
Un giorno arrivò una delle solite visite dei benefattori
con le mille lire da metterci in mano. Anche questa volta non sfuggii e venni
messa in fila lungo il corridoio con tutte le altre, rassegnata a subire
quella brava gente. Tra i visitatori c'era una donna incinta che scappò subito
dal reparto piangendo disperatamente. Gli era venuta la paura che le nascesse
un figlio come noi. Mi dissero che si era spaventata delle mie gambe, sbilenche
e deformate. Da quel giorno mi fu messa una coperta sulle gambe, leggera in
estate e pesante in inverno. Mi fu anche comandato di non uscire sull'atrio
durante l'orario di visita, per evitare di incontrare donne incinte.
Questo fatto mi colpì, capii di avere un corpo che
oltre a non essere piacente poteva addirittura impressionare. Pensai più volte
all'ipotesi che mia mamma avesse visto qualche corpo deforme e che io ero la
conseguenza. A lei non l'ho mai chiesto perché la conferma mi faceva paura. Da
quel giorno quando vedevo una donna incinta da lontano mi nascondevo. Ormai la
coperta sulle gambe mi accompagnava dovunque. Anche in vacanza.
I periodi di vacanza mi piacevano sempre molto, ma
non sopportavo e non reggevo ormai più il confronto tra la realtà di casa e
quella d'istituto. Pensavo che avrei sofferto di meno a smettere di andare a
casa.
Al ritorno in istituto decisi di non mangiare più.
Inizialmente fu tutto tranquillo. Io ero considerata una che scoppiava di
salute e quindi almeno a tavola non venivo controllata. Buttavo o davo via
tutto quello che mi veniva messo nel piatto. Soffrivo già di ulcera duodenale e
lo stomaco vuoto mi faceva sentire dei crampi spaventosi. Per calmarli mangiavo
un po' di pane e olio. Inoltre mi permettevo un dolcino la domenica quando
venivano i miei perché non volevo che si accorgessero della cosa.
Man mano che passavano i giorni mi sentivo sempre più
debole, mi girava la testa specialmente quando ero supina. Di notte avevo gli
incubi. Cominciarono a dirmi che parlavo nel sonno, mi agitavo e qualche
volta urlavo. Spesso sentivo che il letto tremava.
Eravamo nel periodo sotto Pasqua e i miei genitori
mi invitarono come al solito a trascorrere la festa a casa. Partii per Tivoli
decisa che in quei giorni avrei mangiato. Invece mi capitò una cosa strana,
avvertii un formicolio in testa e poi per tutto il corpo. Mi sentivo piano
piano perdere coscienza. Ero in bagno. Poi in camera. Cercarono un medico, non
lo trovarono perché era festa. Mi trasportarono d'urgenza al pronto soccorso
dell'ospedale di Tivoli. Non riuscivano a capire cosa avessi. Sospettavano le
convulsioni o qualcosa del genere. La diagnosi fu subito fatta: deperimento
organico con esaurimento nervoso. Mi trovarono la pressione bassissima che mi
causava forti giramenti di testa e avevo anche carenze di vitamine e proteine.
Il mio culetto in breve tempo diventò un colabrodo. I nervi stavano a pezzi e
non avevo nessuna volontà di controllarli. La degenza in ospedale durò sei
mesi. Dopo le prime cure cominciarono ad interrogarmi. Avevano capito che ero
stata io a lasciarmi andare al punto da ridurmi in quello stato. Indagavano
sui miei motivi. Raccontai tutto al dottore. Non so bene cosa sia successo, ma
devono aver mandato una comunicazione all'istituto, e rivelarono tutto ai
miei genitori. Successe il finimondo.
Vennero le suore e fecero una di quelle scenate mai
viste. Urlavano che non mi volevano più. Ebbero l'accortezza di sopraggiungere
in un orario in cui i medici erano assenti. Le infermiere di turno si erano
ritirate nella loro stanza, quando le avvisarono le suore se n'erano già
andate. In ospedale stavo in camera con tutte le ragazze e mi trovavo bene, le
infermiere mi coccolavano e i medici mi davano permessi per farmi uscire dal
reparto perché dicevano che ero già stata troppo chiusa.
La paura di invecchiare e di dovermi lasciare in dote
alle mie sorelle per tutta la vita spinse mio padre a supplicare la superiora
del Cottolengo affinché mi riprendesse. lo cercai tramite l'elenco telefonico
altri istituti. Telefonai per chiedere di ricoverarmi in più posti. Tutti mi risposero
che erano al completo. Non osai contestare la decisione di mio padre. Capii
che per uscire dal Cottolengo non potevo contare sui miei genitori.
Il Cottolengo lo ritrovai come lo avevo lasciato. Non
ero riuscita a morire, non ero riuscita a lasciare l'istituto. Le compagne
pensavano le cose peggiori su di me, e le suore mi controllavano come non mai.
Rientrata nel reparto venne la superiora, grande, alta, grossa. La vedevo gigante,
infinita, e mi perdevo in quella figura che mi sovrastava. Mi disse: «Ti ho
perdonata. Ho lasciato che tornassi, ma ora non voglio più storie. Devi fare
tutto quello che fanno le altre».
Nel reparto avevamo tre pappagallini in gabbia,
belli e coloratissimi. Sbattevano le ali con decisione qua e là quasi volessero
abbattere quelle sbarre di ferro che li imprigionavano. Provai a dipingerli
sulla tela, li pennellai coi colori della libertà che sospiravo tanto.
Seguirono altri quadri. In tutti si leggeva una spasmodica ricerca di libertà.
Occasionalmente avevo iniziato una nuova rivoluzione.
Le suore ostacolavano questa mia attività, mi
toglievano lo spazio per "fare l'artista" e brontolavano ogni volta
che mi vedevano con il pennello incerto tra le dita perché - dicevano - sporcavo
il pavimento. Non mi arresi e continuai a dipingere. I quadri lì regalavo
tutti perché non avevo posti per tenerli.
Un giorno venne da me la superiora e mi disse:
«Senti Annunziata, ho pensato di farti un regalo. Ho apprezzato i tuoi sforzi
di diventare più buona e voglio mandarti a Lourdes. Andando in quel luogo santo
vedrai, si risveglierà la tua fede». Non osai contraddirla anche se non avevo
proprio voglia di andare.
A partire eravamo in due; l'altra era Bernardina,
una donna con cui non volevo condividere niente. Il giorno della partenza ci
accompagnarono alla stazione ferroviaria dove trovammo altri handicappati. Mi
fecero salire sul treno e mi adagiarono sulla cuccetta al terzo piano. Mi ritolsero
per lasciare posto ad un'altra e mi portarono in uno scompartimento vuoto,
mentre il treno partiva accompagnato dalle note dell'Ave Maria di Lourdes che
veniva trasmessa dai microfoni per tutti i vagoni del treno.
Non riuscii a frenare la grande voglia di piangere,
e piansi tutte le mie lacrime. Ad un certo punto mi accorsi di non essere sola.
C'erano delle ragazze giovanissime vestite di bianco con il velo in testa. La
loro divisa non mi piaceva perché somigliava troppo a quella delle suore, ma
erano giovani e mi sorridevano. Smisi di piangere e cominciai a rispondere
alle domande che mi fecero quelle compagne di viaggio. Ben presto arrivammo a
toni confidenziali. Sotto la divisa c'erano delle ragazze che stavano
affrontando la loro prima esperienza con handicappati, e che volevano sentirsi
utili.
Parlai con loro ma con l'attenzione di non dire cose
che potessero riferire all'istituto e nuocermi. Le dame e i barellieri che ci
accompagnavano a Lourdes non erano tutti giovani come le ragazze che
viaggiavano nel mio scompartimento. Vi erano anziani, persone che stavano molto
bene economicamente e che una volta o due l'anno organizzavano questi viaggi
per "carità cristiana". Dettavano le regole cui noi handicappati
dovevamo sottostare durante l'andata, la permanenza e il ritorno da Lourdes.
Il viaggio mi sembrò lunghissimo. Due compagni di viaggio, Rossana e
Clotilde, fecero di tutto per rendermelo tranquillo e confortevole.
A Lourdes ci sorprese una pioggia torrenziale. Alcuni
francesi ci aiutarono a scendere dal treno. Parevano inquieti e mi
spaventarono un po'. Ci trasportarono con delle carrozzine enormi. lo in quella
carrozzina potevo starci seduta tranquillamente con altre due persone, tanto
era grande. Ci accompagnarono nei locali destinati a noi per il pernottamento.
Ci comunicarono il programma da seguire, le regole da rispettare, gli orari per
pregare, per mangiare, per dormire; stabilirono i luoghi in cui si poteva
andare. Sospettai che fossero telecomandate dall'istituto. Per me, che di
orari e di regole ne avevo fin sopra i capelli, non era facile accettare di
aver percorso tutti quei chilometri per ritrovarmi nella medesima situazione.
Con le più giovani trasgredii un po' di regole: ci scappò la passeggiata al
posto della processione, andammo alla grotta quando non c'era nessuno,
partecipando alla fiaccolata nonostante ci fosse severamente proibita.
Raggiunsi la maggiore età e fui invitata dallo Stato a
votare. La vita di istituto mi aveva tenuta completamente ignorante e non avevo
la minima idea di cosa fosse la politica. Tutte noi ricoverate conoscevamo
però dei personaggi di un grande partito con una croce. Uno di questi con la
moglie ci pagava i viaggi a Lourdes, l'altro tutti gli anni a Pasqua ci faceva
arrivare enormi quantità di colombe. Le suore con i fac-simili ci insegnavano a
votarli. Di un partito ci dicevano di aver paura: era un nemico ed era contro i
cattolici e non voleva gli handicappati. Proibito votarlo. Il giorno delle
mie prime elezioni ero emozionata e mi sentivo adulta. Avevo la convinzione di
fare una cosa importante e non mi sembrò strano trovarmi la suora dentro la
cabina. Quando fecero lo spoglio dei seggi interni i voti risultarono tutti
uguali.
A Lourdes quell'anno rividi Roberta. Stava in barella
perché aveva subito da poco un intervento chirurgico. Viveva in famiglia e
aveva anche ulteriori collegamenti. Fu lei a parlarmi dell'esistenza dì realtà
che non erano istituti, ma "comunità". lo non avevo idea di cosa
fossero le comunità, nemmeno conoscevo il significato di questa parola. Roberta
mi disse che nelle Marche esisteva una comunità dove gli handicappati
lavoravano, la "Comunità di Capodarco", e che un'altra realtà simile
si era aperta a Roma. Mi disse pure che il fondatore si chiamava don Franco
Monterubbianesi. Questa Comunità scriveva il giornalino
"Partecipazione" a cui lei era abbonata e che se volevo me ne faceva
avere una copia. lo ero sbalordita, mi sentivo tanta confusione in testa: forse
una porta mi si apriva? Tornai da Lourdes con la speranza nel cuore.
Mi arrivò "Partecipazione". Lo rivoltai più
volte nelle mani, ero molto emozionata, e mi chiedevo se tra quelle righe ci
fosse stata una soluzione per me. Cominciai a leggerlo ma non ci capii molto.
Lo trovavo complicato, vi erano termini usati che non avevo mai sentito, come:
autogestione, cooperative, protagonismo e così via.
Non riuscivo a collegare, ma di una cosa fui certa:
questa doveva essere una realtà completamente diversa dal Cottolengo perché
parlava di cose che da noi o erano proibite o non esistevano. Decisa come non
mai scrissi a don Franco servendomi dell'indirizzo stampato sul provvidenziale
giornalino. Non ricordo cosa scrissi, credo tutta la disperazione, ma anche la
speranza e la voglia di vivere che mi erano rinate.
Don Franco venne a trovarmi il giorno stesso che
ricevette la lettera, insieme a Marisa e Agostina. Capitò per caso anche mia
sorella Natalina e venne così a conoscenza dei miei nuovi progetti. Don Franco
mi parlava della comunità e io ascoltavo entusiasta. Mi propose una breve
esperienza. Pensammo di sfruttare le vacanze di Pasqua che erano ormai
prossime.
D'accordo con i miei (per l'istituto andavo a casa)
sarei passata a sbirciare la comunità. La Pasqua era alta e i giorni di vacanza
erano di più perché comprendevano anche il 25 aprile e il primo maggio.
Dopo aver trascorso qualche giorno in famiglia don
Franco mi mandò a prendere. I miei genitori dubitavano di questa mia
decisione. Vedevano la comunità come una realtà che offriva poche garanzie e
temevano che lasciando l'istituto mi ritrovassi poi sguarnita di un posto dove
andare. Avevano chiaro però che questa volta non avevano il potere di farmi
tornare indietro dalle decisioni prese, anche se riuscivano molto bene a
trasmettermi la loro ansia.
Iniziai la mia prima esperienza in comunità un giorno
di grande festa, perché si sposavano Giulio e Antonietta. Rimasi stordita,
confusa, non potevo credere ai miei occhi. Chi si sposava erano due
handicappati, e lei, bella, con una lunga cascata di capelli, era in
carrozzina. Ma allora, non era vero che gli handicappati non si potevano
sposare? "Io sposata?". Ma no, figurati, avevo affogato ogni
speranza da anni e chissà in quale angolo sperduto l'avevo lasciata.
Mi fermai un po' di giorni per decidere se rimanerci
o no. Rimasi colpita dal rapporto che esisteva tra le persone che vivevano in
comunità. Ognuno faceva quello che poteva, handicappata o no. Non esistevano
"assistenti" e "assistiti", ma tutti assistenti e
assistiti. C'erano dei grandi laboratori di ceramica e di elettronica in cui si
lavorava. Altre persone avevano compiti specifici all'interno della comunità.
La comunità di Roma in via Lungro era agli inizi. lo
ne ero affascinata ma anche spaventata: mi sembravano cose grandi e
irraggiungibili.
Mi recai al Cottolengo accompagnata dai genitori. Le
mie compagne di reparto erano intimorite. Solo Lina mi disse: «Beata te che
hai coraggio, io ho troppa paura. Mi mancherai tanto». Per la verità Lina è
mancata tanto anche a me. È l'unica persona all'interno di quelle mura a cui ho
voluto veramente bene.
Ricordo il volto di suor Emilia; quella mattina era
del colore del ferro, un'espressione da luna piena: era il concentrato di tutta
la rabbia che si portava dentro. lo ero proprio contenta di sfuggire a quello
sguardo pesante.
Suor Franceschina neppure in questa occasione riuscì
a mettere da parte la sua maschera di donna senza emozioni e con diplomazia mi
salutò cordialmente, come se fossi stata una che passava di lì per caso.
Avevo aspettato tanto questo momento e osservavo
tutto con molta attenzione, perché per me era un avvenimento troppo particolare
e volevo coglierne tutte le sfumature. Sentivo gioia e paura, la sensazione di
aver vinto e il timore di un futuro incontrollabile. Davanti all'ascensore
incontrai la superiora. Questa donna mi metteva sempre tanta soggezione. Stava
lì diritta e maestosa, e mi urlò con vocione autoritario: «Da quella porta chi
esce non rientra». Mi sentii un brivido attraversare tutto il corpo. Pensai:
riuscirò mai a liberarmi totalmente di questa donna? Sperai ardentemente di
non incontrarla più e di riuscire a cancellarla da pensieri e sogni. Voltai le
spalle al Cottolengo rimpiangendo di aver bruciato tra quelle mura quindici
lunghi anni. Era un'alba calda quella del 3 luglio 1974.
Avevo trascorso un'interminabile notte e quella
mattina mi sentivo agitata, tirata, fredda e sudata, il cuore mi batteva
velocemente. Era una giornata importante.
Mi sono fatta mettere in carrozzina, ho bevuto il
solito latte e caffè, poi mi sono fatta spingere fino alla porta-finestra della
cucina che dava sulla strada e mi permetteva di vedere le macchine che
passavano. Arrivò don Vinicio con altre persone. Si fermarono solo il tempo
necessario per farmi salire sul veicolo con quattro bagagli e dire ciao a
tutti.
Il viaggio durò circa cinque ore. Le colline
marchigiane sembravano tutte uguali, man mano che andavamo avanti l'agitazione
interiore mi scompariva, il paesaggio pacato che scorreva dal finestrino del
pulmino infondeva tranquillità.
Lasciata l'autostrada ci inoltrammo in paese. Mille
domande mi assalirono, ormai era questione solo di minuti. Dopo Porto S.
Giorgio iniziò una strada con tante curve, poi svoltammo a sinistra, entrammo
in un viale alberato, in lontananza si poteva già vedere la villa nella quale
ho abitato per due anni. La casa era molto grande, ma diventava piccola se la
paragonavo all'istituto. Mi aspettavo reparti, o comunque divisioni interne
per uomini e donne, ed invece con mia grande sorpresa ci trovai luoghi comuni a
tutti: solo tra camere esisteva la divisione di sesso, escluse naturalmente
quelle occupate da coppie sposate.
Esistevano anche la biblioteca e il centro documentazione.
Altro luogo comune era il refettorio, un salone con tavoli circolari, ove di
volta in volta potevamo scegliere il posto a tavola. Nelle camere c'erano
due-tre letti, erano personalizzate, più o meno belle, tutto dipendeva da chi
ci dormiva dentro.
Era normale trovarci gruppi che discutevano
animatamente o che semplicemente ridevano e scherzavano. Altrettanto normale
era trovarci persone che studiavano.
Incontrai Luisa. Nel reparto delle bambine al
Cottolengo eravamo state insieme. Era uscita dall'istituto qualche anno prima.
Di lei ci avevano detto che si era sposata con un alcoolizzato che la picchiava
e che la costringeva a chiedere l'elemosina. Collegai la storia di Luisa a
quella delle altre donne che se n'erano andate dal Cottolengo: ci avevano
raccontato che tutte avevano fatto una brutta fine. Era un modo come un altro
per aiutarci a rassegnarci.
Con il mio arrivo a Capodarco ho voltato pagina, il
confronto con questa nuova realtà mi ha fatto capire poi, solo dopo diversi
anni, quanto ero stata emarginata.
(*) Nunzia Coppedè, Al di là dei girasoli, Casa Editrice
"Sensibili alle foglie" (Piazza Santa Maria Liberatrice 34, 00153
Roma, Tel. 06-5.74.60.00), 1992, pp. 157, L. 20.000.
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