Prospettive assistenziali, n. 103, luglio-settembre
1993
LE
COMUNITÀ ALLOGGIO: UN SERVIZIO INDISPENSABILE
Il 23 giugno
1993 ha avuto luogo a Torino un convegno sul tema "Le comunità alloggio e
le case famiglia: un servizio indispensabile per bambini, adolescenti,
gestanti e madri, handicappati fisici e intellettivi" organizzato da
"Prospettive assistenziali"; promosso da CGIL-Funzione pubblica,
CISL-FlLSEL, UIL-Enti locali, Associazioni: Vivere insieme di Rivoli, GRH
(Genitori Ragazzi Handicappati) dell'USSL 26, Shantala per la promozione dei
diritti degli handicappati di Nichelino e la Scintilla di Collegno, il
Collettivo Genitori Handicappati dell'USSL 28, il Gruppo Abele, il CNCA
(Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) del Piemonte, il CSA
(Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base), con l'adesione
dell'Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, il Coordinamento Nazionale
delle Comunità per minori di tipo familiare di Firenze e la Lega delle
Cooperative.
Del convegno
pubblichiamo integralmente la mozione conclusiva, la relazione introduttiva sul
tema "Ruolo sociale delle comunità alloggio e delle case famiglia" e
quelle tenute dal Gruppo Educatori su "Ruolo e limiti delle comunità alloggio
di pronto intervento per minori" e da Alberto Traffano su "Appalti e
convenzioni: aspetti giuridici e amministrativi".
MOZIONE CONCLUSIVA
I partecipanti al Convegno "Le Comunità alloggio
e le case famiglia: un servizio indispensabile per bambini, adolescenti,
gestanti e madri, handicappati fisici e intellettivi" svoltosi a Torino il
23.6.1993 ritengono che le comunità alloggio e le case famiglia siano un
servizio di estrema importanza, che deve essere collocato all'interno della
rete dei servizi esistenti.
Purtroppo, in questi anni il disinteresse delle
amministrazioni e degli enti ha colpito queste realtà producendo la chiusura di
diverse comunità pubbliche e convenzionate.
I partecipanti ritengono che le comunità alloggio e
le case famiglia, nella diversità dei modelli operativi, debbano continuare a
esistere e a svilupparsi non snaturando le loro caratteristiche essenziali:
strutture collocate in una normale casa di abitazione, un piccolo numero di
ospiti, un numero significativo di figure adulte di riferimento.
In questo contesto è indispensabile che la Regione
Piemonte, nella sua attività legislativa, definisca le comunità alloggio e le
case famiglia secondo le caratteristiche sopra elencate, evitando soluzioni
che sotto le suddette definizioni nascondano istituti che si riciclano o realtà
simili.
Si chiede agli Enti locali che avviino una riflessione
su questi servizi che, nel rispetto dei diversi modelli e esperienze, li
rivitalizzino, nella convinzione che la relativa spesa sociale non è un onere,
ma un investimento per il futuro.
Pertanto si richiede che la legge regionale, in corso
di stesura in applicazione della legge 381/1980, definisca uno schema di
convenzione tipo e modalità di convenzionamento con gli enti privati che
consideri quali elementi essenziali soprattutto nel caso di comunità alloggio:
la pluriennalità della convenzione, la valutazione del progetto educativo, i
contenuti degli standard concernenti il rapporto fra utenti e operatori, la
preparazione professionale del personale educativo e i contratti di lavoro,
evitando che l'appalto sia utilizzato come mezzo per attuare risparmi che
ricadono drammaticamente sulla pelle dei cittadini deboli non in grado di protestare,
e dequalifichi inesorabilmente i servizi attualmente esistenti.
Si chiede alla Regione, alle UU.SS.LL. e ai Comuni,
per le parti che loro competono, di potenziare tutte le attività di formazione
e riqualificazione delle figure professionali operanti nelle comunità alloggio
e nelle case famiglia della Pubblica Amministrazione e del privato sociale.
RUOLO SOCIALE DELLE COMUNITÀ ALLOGGIO E DELLE CASE
FAMIGLIA
Da oltre trent'anni sono noti i deleteri effetti del
ricovero assistenziale sulla personalità dei minori e degli handicappati
adulti. Al riguardo, com'è noto, vi sono numerosissime ricerche svolte in
Italia e in altri paesi, ricerche i cui risultati non sono mai stati messi in
discussione.
Com'è noto, gli effetti deleteri dell'istituzionalizzazione
si manifestano anche in strutture aventi personale adeguato sotto il profilo
quantitativo e qualitativo.
La lotta contro il ricovero in istituto e la relativa
messa in atto di interventi alternativi (aiuti economici e sociali, adozione,
affidamenti familiari a scopo educativo, comunità alloggio, case famiglia,
ecc.) ha determinato una riduzione molto significativa dei minori istituzionalizzati.
Come
risulta dai dati ISTAT, nel periodo 1960-1988:
-
i ricoverati nei brefotrofi scendono del 94% (da 8699 a 545);
- nelle strutture (istituti e comunità alloggio) per
minori normali la diminuzione è dell'86% (da 200.550 a 27.124);
-
nelle strutture per handicappati sensoriali la riduzione è del 64% (da 10.558 a
3.863);
- nelle strutture per handicappati fisici la diminuzione
è del 19% (da 5.302 a 4.301). Considerevole anche la riduzione dei ricoverati
nelle colonie permanenti e cioè negli istituti che, secondo l'ISTAT
accoglievano «per periodi piuttosto lunghi bambini linfatici, anemici, predisposti
alla tubercolosi» mentre, in realtà, si trattava di strutture di ricovero di
bambini di famiglie povere. Infatti, le giornate di presenza sono passate da
8.173.608 del 1960 alle 403.790 del 1988 con un decremento del 95%.
Per dovere d'informazione segnaliamo, inoltre, che il
numero degli handicappati intellettivi ricoverati in strutture residenziali è
rimasto costante. Nel 1960 raggiungevano le 16.983 unità; nel 1988 erano
16.787.
La fortissima riduzione del numero complessivo dei
minori e degli handicappati ricoverati è la conferma della validità delle
alternative perseguite negli ultimi trent'anni.
L'aiuto economico e sociale alle famiglie d'origine
dei minori e ai soggetti handicappati, l'adozione, l'affido, le comunità
alloggio, le case-famiglia, sono ormai iniziative collaudate che devono
essere rilanciate.
In questi ultimi sette anni molte istituzioni hanno
perseguito una linea di chiusura: vi è stato un arretramento che occorre
colmare al più presto.
Una società civile, a nostro avviso, si riconosce
anche se non soprattutto dalle azioni concrete che mette in atto per favorire
la crescita umana e sociale dei più deboli e per consentire la massima
autonomia possibile.
Non è accettabile che si proclami la piena dignità
dei più deboli, ma poi non si operi in concreto per il loro inserimento
scolastico, lavorativo e sociale e vi siano amministratori che giungono -
addirittura - a disporre il ricovero di minori in strutture situate lontano
dalla residenza delle loro famiglie.
Occorre, in particolare, rilanciare la prevenzione
dell'emarginazione, che ha lo scopo di affrontare i problemi alla radice,
riducendo non solo la sofferenza dei soggetti coinvolti e dei loro congiunti,
ma anche i costi dell'esclusione sociale (ricoveri in istituto, carcerazioni,
cure psichiatriche, ecc.).
AI
riguardo, è necessario evitare l'equivoco che risparmiare oggi sia un buon
investimento.
È, altresì, necessario che i diritti di cittadinanza
ed i relativi servizi (sanità, casa, scuola, trasporti, lavoro, ecc.) siano
assicurati a tutte le persone, comprese quelle più deboli. A questo proposito
deve cessare al più presto la pratica, messa purtroppo in atto da
amministratori e operatori, secondo cui i casi più difficili vengono
ghettizzati o scaricati al settore assistenziale.
L'inserimento degli handicappati nella scuola di
tutti, dove è stato attuato in modo corretto, ha dimostrato la validità del
principio sopra enunciato. Analoghe positive esperienze sono state perseguite
negli altri settori sociali.
Per quanto riguarda le prestazioni di assistenza
sociale, come abbiamo già detto, occorre rilanciare le alternative al
ricovero: aiuti economici e sociali, adozione, affidamenti familiari a scopo
educativo, comunità alloggio, case famiglia, ecc.
In questi anni in molte realtà, in particolare a
Torino, con gradualità e perseveranza è stata operata una strisciante
svalorizzazione della professionalità dell'operatore sociale a qualsiasi
livello esso operasse: dai servizi di base ai vari servizi territoriali, dal
settore pubblico al settore privato sociale.
La modalità subdola e indiretta con cui ciò è
avvenuto ha frammentato e impedito ogni forma di difesa e di tutela della
progettualità e della qualità del lavoro, provocando uno svuotamento di
motivazioni e di idealità indispensabili al processo di sviluppo e di
miglioramento della politica dei servizi.
La ricaduta si è sentita particolarmente a livello di
progettualità, non tanto sui singoli interventi, in quanto ogni operatore si è
industriato con il proprio servizio di riferimento per cercare soluzioni e
risposte alle esigenze dell'utenza.
Ciò che realmente è mancata è una sistematica
verifica delle risorse e una progettualità rispetto al loro utilizzo
razionale.
I
servizi convenzionati si sono trovati tra due fuochi:
- da un lato il costante ricatto dei costi;
- dall'altro la gestione di risorse sempre più
svalorizzate, usate male per tamponare situazioni estreme già scoppiate nella
direzione del controllo sociale o di allontanare provvisoriamente il problema
quasi nella fideistica speranza di una soluzione occasionale.
Le proposte, i progetti diversificati, le richieste
di riflessioni e verifiche su metodologie di lavoro, su obiettivi, venivano
recepite idealmente, ma inevitabilmente bloccate con motivazioni di volta in
volta riconducibili ora alle procedure, ora ai costi, ora alle condizioni
contingenti.
L'effetto
voluto ed ottenuto è stato il logoramento di energie, l'immobilizzo e la
regressione di tutte le iniziative.
Ben si sapeva che in questi settori il non sostenere,
il non stimolare, il lasciar cadere, il non dar risposta equivaleva come
effetto nefasto al negare, al vietare in altri settori.
In virtù di tutto ciò, molti servizi sono falliti, alcuni
hanno chiuso per evitare di fallire o di morire a fuoco lento e così si sono
perse risorse umane ed esperienze ricche e vantaggiose per la comunità umana.
Nonostante tutto energie ce ne sono ancora, e volontà
per ricominciare quanto interrotto anni or sono, anche.
Si richiede ai nuovi amministratori un impegno serio
nella conoscenza approfondita dei servizi, nella ricerca e analisi dei bisogni,
nella riprogettazione dei servizi, nello studio per un ottimale utilizzo delle
risorse.
Condizioni per la prevenzione e per adeguati servizi
Condizioni assolutamente indispensabili per servizi
di prevenzione e per prestazioni adeguate sono:
- l'attribuzione delle funzioni ai Comuni singoli e
associati e cioè a organismi sui quali i cittadini e le loro organizzazioni
possono esercitare una azione di partecipazione critica e propositiva e di
controllo. A questo riguardo è preoccupante quanto stabilisce il decreto
legislativo n. 502/1992 sulle aziende sanitarie di territorio e ospedaliere in
quanto separa gli interventi territoriali dà quelli ospedalieri e sopprime
ogni potere dei Comuni singoli o associati in materia di programmazione,
gestione e controllo;
- la predisposizione di adeguate linee di intervento
da parte dei suddetti organismi, linee che devono essere incentrate sulle
esigenze e sui diritti dei cittadini, in primo luogo di quelli più deboli;
- una organizzazione fondata sulle esigenze ed i
diritti delle persone, e sull'efficacia e sull'efficienza delle relative
prestazioni;
- la messa a disposizione di sufficienti risorse
economiche. A questo proposito segnaliamo che:
a) la Regione Piemonte non ha richiesto una lira dei
42 miliardi messi a disposizione dallo Stato (art. 20 legge 67/1988) nonostante
la necessità di strutture residenziali per handicappati e altri soggetti non
autosufficienti, strutture che dovrebbero essere intese come comunità alloggio
di 8-10 posti e come case-famiglia;
b) i Comuni e le USSL della Provincia di Torino,
finora non hanno mosso un dito per chiedere all'Amministrazione Provinciale di
Torino l'assegnazione di tutti i finanziamenti concernenti le funzioni
assistenziali trasferite. Si tratta di 16 miliardi per tutti i Comuni della
Provincia di Torino, somma che riguarda gli anni 1993 e seguenti;
c) tutti i beni e redditi delle IPAB e degli altri
enti assistenziali trasferiti ai Comuni sono vincolati al settore
assistenziale. I beni possono e devono essere convertiti in modo da poter
essere utilizzati per la creazione delle strutture occorrenti. È altresì
necessario verificare che i redditi siano effettivamente destinati ai bilanci
comunali relativi all'assistenza. La riconversione patrimoniale deve
riguardare in primo luogo le strutture ormai superate, ad esempio í superati
istituti per anziani autosufficienti. Occorre, inoltre, che i Comuni provvedano
alla istituzione di una anagrafe dei suddetti patrimoni e dei relativi
redditi;
- la presenza di personale adeguatamente preparato e
continuamente aggiornato. Per i servizi che intervengono direttamente sulle persone
(servizi di aiuto domestico, comunità alloggio, case-famiglia) è
indispensabile creare le condizioni affinché gli operatori possano garantire
un servizio qualificato ed una presenza con carattere continuativo.
A questo proposito si respinge decisamente la
proposta avanzata dalla precedente Giunta comunale di Torino, diretta a indire
appalti per il rinnovo delle condizioni riguardanti le comunità alloggio per
minori e per handicappati e servizi di aiuto domestico e di assistenza
educativa territoriale, appalti finalizzati al massimo ribasso possibile.
A questo riguardo riportiamo quanto era scritto
nell'invito/programma del dibattito del 27 gennaio scorso sul tema
"Bambini e handicappati: appalti o continuità educativa?" e cioè che
«nelle comunità-alloggio sono ricoverati, a volte da anni, minori aventi
famiglie con gravi problemi educativi. Si tratta di minori che hanno subìto
numerose separazioni dai loro genitori e dal loro ambiente, separazioni che
hanno causato, quasi sempre, gravissimi danni alla loro personalità. Nelle
comunità alloggio i minori hanno l'esigenza, di fondamentale importanza per il
loro presente e il loro futuro, di stabilire validi e duraturi rapporti con
gli educatori e gli altri addetti.
«Mentre è già problematica la presenza di 6-10
operatori nella stessa comunità alloggio (situazione non modificabile date le
caratteristiche della struttura), sarebbe fonte di deleterie conseguenze la
sostituzione di tutto il personale, sostituzione che si verificherebbe nel
caso in cui la gestione delle comunità alloggio venisse appaltata da una
organizzazione diversa da quella da cui dipendono gli operatori conosciuti dai
minori. Ciò sarebbe tanto più grave se le motivazioni fossero di puro
vantaggio economico e gli appalti rientrassero nella logica della concorrenza
e, quindi, del concorso al ribasso»: Inoltre, continuiamo a non comprendere per
quale motivo il Segretario generale del Comune di Torino sostenga l'obbligo
della indizione degli appalti per le comunità alloggio e nulla preveda per
regolare i rapporti fra l'Amministrazione comunale e gli istituti dì ricovero
assistenziale e per minori, per handicappati e per anziani (qualifica e numero
del personale addetto, caratteristiche dell'utenza, capienza massima delle camere,
servizi minimi, ecc.).
Aggiungiamo che le comunità alloggio e le case
famiglia sono strutture di ridotte dimensioni, studiate e sperimentate non solo
per fornire accoglienza la più personalizzata possibile ai minori, ma,
conservando una caratterizzazione di tipo familiare per il limitato numero di
utenti e di operatori, sono anche una risorsa, la più idonea possibile, per
favorire, a seconda delle situazioni, il ritorno del minore dai suoi genitori
o l'inserimento presso una famiglia affidataria o adottiva.
Anche per esercitare correttamente la funzione
suddetta è assolutamente indispensabile garantire in tutta la misura del
possibile la continuità della presenza degli stessi operatori.
Requisiti fondamentali
Circa le comunità alloggio per minori e per
handicappati e per gestanti e madri, riteniamo che i requisiti fondamentali
siano i seguenti:
- come prevede il documento della Regione Piemonte
"Linee programmatiche del Consiglio regionale sui problemi dei
minori" (novembre 1991, pag. 35), «Le comunità alloggio e le case famiglia
(...) vanno intese come strutture in cui vive, in una normale casa di
abitazione, un piccolo numero di minori con significative figure adulte di
riferimento";
- un numero limitato di ospiti (in ogni caso non più
di 10) e di operatori in modo da rendere possibili rapporti personalizzati
fondati su progetti educativi;
- la presenza di personale qualificato, con orari
regolari e con adeguata possibilità di formazione e di aggiornamento;
- essere l'ultima risorsa, quando non è possibile
supportare la persona in modo che resti nel proprio ambiente di appartenenza o
per un tempo limitato in attesa del ritorno in famiglia, adozione, affido
educativo o autonomo inserimento;
- essere parte integrante dei servizi di rete e non
un luogo in cui si scaricano le responsabilità ed i bisogni;
- usufruire dell'apporto del volontariato e
dell'associazionismo, il cui ruolo non deve in nessun caso essere sostitutivo
dei compiti degli operatori.
Una volta definiti con chiarezza i requisiti essenziali,
è necessario analizzare i problemi che ci sono ed avere il coraggio di
affrontarli, sapendo che solo una discussione chiara anche sulle difficoltà ci
permetterà di migliorare i servizi.
In questa relazione ci limitiamo ad elencare le
questioni che a nostro avviso sono di particolare rilevanza, senza voler essere
esaustivi in tutti i problemi che ci sono, ma invitando tutti a farne oggetto
di discussione anche in questa sede:
1) dobbiamo aver tutti chiaro che per le comunità
alloggio e le case famiglia non esiste il modello da individuare e attuare, ma
i modelli possibili sono diversi; è importante che ognuno di essi venga attuato
con coerenza evitando di utilizzare la comunità alloggio e la casa famiglia
come il luogo ove si scontrano modi e idee diverse;
2) in questi servizi c'è un problema irrisolto: come
si sceglie l'équipe che ci lavora e con quali modalità si amalgama un gruppo
sovente messo assieme in maniera casuale (tale questione è presente
soprattutto nei servizi pubblici);
3) il burn out degli
operatori è una realtà con cui imparare a convivere; sovente però si nega che
il problema esista e non si adotta nessuna iniziativa che possa ridurlo o
limitarlo;
4) le comunità alloggio e le case famiglia non vanno
bene per tutti i potenziali utenti: bisogna avere il coraggio di dirlo evitando
che tale servizio rispetto alle sue potenzialità venga "mitizzato"
(troppo spesso la comunità alloggio viene citata come panacea di tutti i mali);
5) talvolta nelle comunità alloggio ci si sclerotizza
facendole diventare di fatto delle strutture chiuse di piccole dimensioni.
Questo avviene soprattutto quando non si è più capaci di adeguare la struttura
ai diversi ospiti che di volta in volta sono presenti, mentre, al contrario, si
pretende che il minore si adegui alla struttura. Ciò avviene perché non ci si
rende conto che in questi anni non solo è cambiata la società attorno a noi,
ma sono cambiate anche le caratteristiche dei minori che sono ospiti delle
diverse comunità.
Comunità alloggio per gestanti
Circa le comunità alloggio per gestanti, occorre
tener presente che le leggi vigenti consentono alle donne non coniugate
(secondo alcuni anche a quelle sposate) di partorire in segreto e dì non
riconoscere i propri nati. Anche se può sembrare preferibile, che ogni bambino
sia riconosciuto dalla donna e dall'uomo che l'hanno procreato, tuttavia,
bisogna considerare che il riconoscimento reale presuppone una piena accettazione
del bambino e richiede un impegno serio e costante per il suo allevamento,
educazione e istruzione.
A livello di comunità alloggio è possibile aiutare
le gestanti (spesso ragazze di 13-15 anni) a decidere responsabilmente se
riconoscere o meno il proprio nato e in ogni caso rappresentare un valido
appoggio per i figli ed i loro genitori. Inoltre gli interventi personalizzati,
praticabili in piccole strutture, consentono di provvedere alle esigenze delle
gestanti e madri senza traumatiche rotture con il contesto sociale di appartenenza,
ad esempio consentendo la prosecuzione degli studi.
Infine queste strutture di tipo parafamiliare sono
più idonee al reinserimento sociale delle donne in difficoltà.
Conclusioni
Il Gruppo promotore ha indetto questo convegno allo
scopo di chiarire i molteplici aspetti delle comunità alloggio e delle case
famiglia e cioè il loro ruolo sociale, l'analisi delle ricerche svolte in
materia, le condizioni per una corretta gestione sia essa pubblica o privata,
i compiti dell'associazionismo e del volontariato, gli aspetti giuridici e
amministrativi, la collocazione delle comunità alloggio nell'ambito degli
altri servizi rivolti alle persone in difficoltà, la formazione e
l'aggiornamento del personale e delle altre figure professionali.
Ribadiamo, infine, alla nuova Amministrazione
comunale di Torino e agli altri enti locali che il gruppo promotore è
pienamente disponibile a collaborare per la ricerca di soluzioni in materia di
convenzioni, che siano conformi alle leggi vigenti, che rispettino le esigenze
ed i diritti degli utenti e del personale e consone alle esigenze di efficacia,
efficienza ed economicità nell'ambito di un effettivo riconoscimento del ruolo
umano e sociale di questi servizi.
RUOLO E LIMITI DELLE COMUNITÀ ALLOGGIO DI PRONTO
INTERVENTO PER I MINORI
GRUPPO EDUCATORI (*)
Il presente intervento non vuole essere una
descrizione riguardante il funzionamento e l'organizzazione della comunità
alloggio per minori di pronto intervento di Torino, Corso Casale ..., non perché
non sia importante soffermarci ad analizzare la comunità, ma perché è nostra intenzione
far emergere e proporre una riflessione volta a tutti quei servizi e quegli
operatori che come noi si occupano di minori in stato di abbandono e di
difficoltà sociale e personali. Per noi è molto difficile riassumere in poche
pagine un percorso "professionale" che ci ha visto impegnati in sei
anni di lavoro. È, infatti, dal 1987 che, come gruppo di educatori, lavoriamo
nella suddetta comunità. Come gruppo siamo giunti in tale struttura in un
momento in cui vi è stato un cambio di personale e ci è stata richiesta una
riorganizzazione del servizio in quanto tale.
Il nostro percorso inizia proprio sulla base del
voler rendere la comunità alloggio un servizio capace di "accogliere"
il minore e offrirgli un ambiente in cui poter vivere per un certo periodo
protetto e tutelato sia dal punto di vista fisico che psicologico e sociale.
Tale affermazione è stata il punto di partenza su cui
abbiamo costruito giorno dopo giorno il nostro ruolo professionale, tentando di
adattarlo sempre più all'esigenza sia dell'utenza che del contesto sociale.
Nell'arco di sei anni di lavoro in comunità, i primi
sono trascorsi lavorando nel senso di rendere efficiente ed efficace il
servizio sia in termini di funzionalità a livello organizzativo, sia in termini
di contenuto, ovvero di qualità dei rapporti interni e con i servizi esterni
(servizi sociali, neuropsichiatria infantile, tribunale per i minorenni).
La figura dell'educatore è stata, quindi, da noi
concepita e vissuta come unica e sola risorsa in grado di rispondere a tutti i
bisogni del minore sia materiali che affettivi-relazionali, coscienti,
comunque, in quanto educatori nel sapere di non poter essere per i nostri
piccoli ospiti dei genitori e quindi "tante mamme e tanti papà".
Abbiamo investito forze ed energie nel fare in modo
che il bambino nel più breve tempo possibile venisse collocato in una
situazione familiare a lui consona (rientro in famiglia, affidamento
familiare, adozione).
Dopo anni di lavoro indirizzato a quanto sopra detto,
ci siamo resi conto che i nostri tentativi e sforzi professionali si
scontravano con alcuni elementi insiti nella struttura stessa della comunità
alloggio e con il dato della lunga permanenza dei minori in comunità.
Proviamo, infatti, a pensare all'età dei nostri
piccoli ospiti, ovvero quella che va dagli zero ai tre anni, periodo di vita
decisivo per tutta la successiva evoluzione psicologica, fase in cui il
bambino attraverso il rapporto con l'adulto crea le basi per lo strutturarsi
della sua personalità, e proviamo a pensare quanto sia difficile e arduo per
questo piccolo essere poter costruire delle relazioni privilegiate con l'adulto
in un contesto in cui vive quotidianamente eventi quali: la condivisione
dell'adulto (operatore) con gli altri ospiti della comunità, il continuo
distacco e abbandono che si verifica al termine di ogni turno, il doversi
rapportare con molteplici persone che si occupano di lui con modalità e tempi
influenzati dall'organizzazione del lavoro (nell'arco delle 24 ore nella
comunità alloggio turnano dai sette ai nove operatori).
Solo osservando i nostri piccoli ospiti, quotidianamente,
negli anni, come gruppo di operatori ci siamo resi conto di quale entità possa
essere la sofferenza che vivono quotidianamente, il disagio che provano per
non poter vivere e crescere in un ambiente adeguato alla loro "piccola
età" e alle loro esigenze psico-fisiche, e lo sforzo che questi bambini
fanno giorno dopo giorno per costruire e creare dei comportamenti che gli
permettono di adattarsi alla situazione.
Nel momento in cui al nostro interno siamo riusciti
ad abbandonare il nostro sentirci "onnipotenti" e abbiamo valutato
la reale "impotenza" abbiamo potuto guardare i nostri piccoli ospiti
con la capacità di accogliere il loro malessere e di volerne capire le cause
senza il timore di entrare in prima persona dentro ad un processo di analisi
che pone in discussione ruoli, strutture e funzioni. Per anni ci siamo sentiti,
in quanto operatori, totalmente responsabili della vita e del benessere
psico-fisico dei bambini ospiti della comunità attribuendo alla nostra capacità
o incapacità professionale fallimenti, riuscite, disagi...
É questo percorso professionale che ci ha permesso di
fermarci a riflettere, a discutere e a scrivere raccogliendo concretamente la
nostra esperienza in un lavoro che con una certa presunzione definiamo di
"ricerca".
Come abbiamo già detto precedentemente, è difficile
illustrare in poche pagine un lavoro durato anni, ma vogliamo comunque
sottolineare che al centro del nostro interesse vi è la sofferenza del
bambino, non affrontata dal punto di vista teorico (a questo proposito vi è una
vasta letteratura di "psicologia infantile"), ma abbiamo cercato di
dare voce ad una quotidianità che giorno dopo giorno diventa la storia di un
servizio e la vita di chi vi è ospite.
Vogliamo oggi porre all'attenzione di questa platea
una sintesi di una parte del nostro lavoro riguardante la raccolta di dati
effettuata rispetto ai minori ospiti della comunità alloggio dal 1988 ad oggi;
poiché in essa è racchiusa la storia dell'utenza in rapporto al servizio.
Dal
1988 sono stati ospiti della comunità alloggio di Corso Casale ... sessanta
minori.
Dalla lettura dei dati possiamo affermare che: dal
1988 ad oggi i bambini che giungono nella comunità alloggio provengono in
numero sempre più considerevole dall'ospedale (più del 50%), che è divenuto un
luogo di vita per i primi sessanta giorni di vita del "piccolo"; l'87%
dei bambini al momento dell'ammissione ha un'età inferiore all'anno, anzi
possiamo dire che non hanno più di tre o quattro mesi; dal 1992, i bambini
provengono da famiglie aventi problematiche classificabili nella sfera della
tossicodipendenza, del disagio sociale ed extracomunitari; la permanenza dei
minori nella comunità alloggio in media va dagli otto ai dodici mesi. AI
termine di questo percorso assistenziale-giuridico, l'81% dei bambini viene
allontanato dalla famiglia d'origine con provvedimenti quali l'affidamento a
rischio giuridico che divengono in seguito definitivi.
L'analisi dei dati in questa sede ci serve per poter
dire che il bambino trascorre il suo primo anno di vita istituzionalizzato
ovvero in situazioni quali l'ospedale e la comunità alloggio. Associando tale
dato alle riflessioni precedenti e alle esigenze di crescita psicofisica del
minore, non possiamo ignorare che, se da un lato la comunità alloggio è
indubbiamente un servizio indispensabile per la tutela dei minori, dall'altro
potrebbe forse esistere qualcosa di più idoneo ovvero di più simile ad una
famiglia intesa come garanzia di un contesto relazionale in cui crescere
"bene".
La nostra riflessione giunge a questo punto ad una
proposta che - ci rendiamo conto - può suscitare polemiche, critiche ma - lo
sottolineamo - vuole essere un tentativo dì aprire un dibattito, una
discussione riguardante i minori o meglio i bambini, poiché noi consideriamo
l'età 0-3 anni, in stato di abbandono o difficoltà sociale.
Abbiamo detto che in media il bambino permane presso
la nostra comunità alloggio circa un anno. Questo tempo di
"permanenza" viene utilizzato dal tribunale per i minorenni e dai servizi
sociali per verificare, per accertare, per analizzare le possibilità o meno
che può avere il minore di essere inserito o reinserito nella propria famiglia
d'origine.
Il percorso giuridico deve rispettare dei tempi tali
(convocazione, udienze, ricorsi) che, se da un lato tutelano "il diritto
delle famiglie d'origine", dall'altro risultano essere per il bambino in
un'età così delicata (0-1 anno) troppo lunghi. In un anno di vita il bambino
impara a comunicare, a muoversi e acquisisce un linguaggio.
Proviamo a pensare ad una situazione idonea ed
adeguata alle esigenze non solo fisiche ma anche psicologiche, relazionali,
affettive del "piccolo°, in cui possa vivere per questo "tempo-periodo".
La nostra proposta che chiamiamo "affidamento
mirato" vuole essere un ricercare e definire delle nuove risorse che si
possono concretizzare nella singola persona o in un nucleo familiare,
accuratamente selezionato, seguito, in grado di accogliere il bambino per il
periodo di tempo necessario "alla definizione del percorso
giuridico". Mirato poiché la risorsa deve essere adeguatamente
"formata e preparata" e adeguatamente rimborsata a livello
economico. Tutto questo può spaventare, ma se non vogliamo trascurare il dato
della "sofferenza" che è evidente in minori che trascorrono un lungo
periodo in comunità alloggio, non possiamo che iniziare a riflettere su una
ipotesi tesa al superamento della comunità divenuta, negli anni, luogo di vita
per il bambino.
APPALTI E CONVENZIONI: ASPETTI GIURIDICI E
AMMINISTRATIVI
ALBERTO TRAFFANO (**)
1. Come è noto, la Pubblica amministrazione (P.A.) può
raggiungere le proprie finalità non solo attraverso gli strumenti più propriamente
pubblicistici (concessioni, autorizzazioni, ordinanze, ecc.), ma anche
attraverso atti usati anche da privati.
In particolare la P.A. può stipulare dei contratti
con terzi, in ciò ponendosi sullo stesso piano dei soggetti privati. A
differenza di questi, però, la P.A. deve stipulare dei contratti che sono disciplinati
da due categorie di norme giuridiche: quelle di diritto civile (che
stabiliscono, per lo più, i requisiti, le forme, gli obblighi in capo alle
parti) e quelle di diritto amministrativo che fissano varie attività
procedurali che l'ente deve rispettare. Si parla perciò di contratti ad
evidenza pubblica.
Resta comunque fermo che l'attività contrattuale
della P.A. deve essere sempre conforme agli scopi che la medesima deve
raggiungere, sicché non possono stipularsi contratti che contrastano con i
fini istituzionali dell'ente.
Va poi segnalato che la P.A. deve comunque
ottemperare a dei precetti in parte divergenti da quelli dettati dal codice
civile.
Le
principali deroghe sono le seguenti: - obbligatorietà della forma scritta;
-
inapplicabilità della norma sulle clausole onerose;
-
divieto di compensazione;
-
divieto di cessione del contratto;
- decorrenza degli interessi (nel senso che i debiti
pecuniari dello Stato diventano liquidi ed esigibili solo a seguito
dell'ordinativo di spesa).
Quanto alla interpretazione dei contratti con la P.A.
valgono le regole dettate dal codice civile per la interpretazione dei contratti
fra privati, fermo restando che deve prevalere l'interpretazione testuale e
che è inammissibile la regola per cui la clausola predisposta da una delle
parti deve essere interpretata contro lo stessa parte.
2. I controlli della P.A. debbono seguire - prima di
giungere al perfezionamento - un iter procedimentale costituito dal susseguirsi
di varie operazioni che si concludono con la stipulazione del contratto
medesimo.
La
dottrina ha avuto modo di individuare cinque distinte fasi dell'iter contrattuale,
e cioè:
-
una fase preparatoria, consistente nella preparazione del contratto e nella
predisposizione di un progetto o schema di contratto, in cui sono fissate le
condizioni per la pattuizione;
-
una fase relativa alla scelta del privato contraente, in cui si manifesta la
volontà di questi ed avviene quindi
- sulla base della proposta
formulata dalla P.A. - l'incontro delle volontà;
- una fase di stipulazione del contratto con cui si
concretizza la decisione della P.A. di rendere definitivo l'incontro di
volontà già avvenuto;
-
una fase di approvazione del contratto che vincola la P.A.;
- infine, una fase di esecuzione del contratto con le
conseguenti responsabilità dell'Amministrazione e dei privati contraenti.
Nella presente relazione si seguiranno i vari momenti
suddetti, con particolare riferimento al momento in cui si sceglie il terzo
contraente ed ai meccanismi imposti per tale scelta.
Va comunque e fin da ora sottolineato che, nei
contratti con la P.A., assume particolare rilevanza il momento in cui il
contratto viene approvato, in quanto solo da quel momento il contratto
medesimo acquista piena efficacia nei confronti dell'ente pubblico e produce
tutti gli effetti giuridici.
3. Come si diceva, il primo passo per la P.A. è quello
di delineare il tipo di contratto che intende stipulare, nell'ambito del fine
che l'ente vuole realizzare.
Il procedimento amministrativo per giungere alla
stipulazione del contratto nasce (generalmente) con le proposte formulate
dagli uffici interessati.
Spesso poi la legge richiede che sul progetto vengano
acquisiti dei pareri preventivi di organi di controllo.
La
manifestazione della volontà sorge, però, solo quando l'organo dell'ente adotta
le necessarie deliberazioni.
In tale sede l'Amministrazione fissa già una serie di
condizioni e di presupposti del successivo contratto.
La deliberazione a contrarre ha natura di atto
amministrativo, come tale suscettibile di impugnazione su vizi suoi propri
(Consiglio di Stato, sez. VI, n. 95 del 7.2.1967).
La deliberazione a contrarre, di contro, non ha
natura di proposta contrattuale e non vincola quindi la P.A.
Trattasi di semplice invito ad offrire che, se
accettato, qualifica l'altro negoziante quale proponente, con la presentazione
di un atto che vincolerà l'Amministrazione solo a seguito della stipulazione o
la concessione del visto di esecutorietà (Cassazione 23.1.1967 n. 200 e
23.10.1971 n. 2992).
Ciò comporta che la delibera a contrarre costituisce
mero atto interno (e preparatorio), che non spiega efficacia verso i terzi e
che può essere revocato ad nutum.
La deliberazione deve essere naturalmente adottata
prima di procedere alla stipula del contratto e deve stabilire le modalità di
aggiudicazione e l'ammontare preventivo delle spese e dei mezzi per farvi fronte.
4. Alla suddetta fase preparatoria segue quella di scelta del terzo
contraente.
Il nostro ordinamento prevede che la P.A. non possa
scegliere liberamente la persona con cui contrarre, ma debba esperire delle
vere e proprie gare al fine di individuare il terzo contraente.
La gara pubblica risponde ad una duplice esigenza:
quella di garantire la imparzialità della P.A. nella scelta e quella di
garantire l'accettazione quanto più conveniente possibile per la P.A.
Le disposizioni che regolamentano le gare sono
inderogabili, siano esse discendenti dalla legge, dal regolamento, dal
capitolato e dall'avviso di gara: tale principio costituisce una ulteriore
garanzia della serietà e della correttezza della gara e del rispetto della par condicio
fra i contraenti.
È comunque principio pacifico in dottrina ed in
giurisprudenza che le norme (dubbie) che regolano la gara debbano essere
interpretate nel senso più favorevole al concorrente, in modo da assicurare la par condicio
fra i medesimi e la partecipazione più vasta possibile alla gara.
Recentemente sono state dettate delle norme
specifiche sugli appalti di opere pubbliche e per le forniture di servizi
(vedansi i decreti n. 406/91 e 48/92).
Ciò che ci interessa qui sottolineare è, però, la normativa
generale conosciuta nel nostro ordinamento per la scelta del terzo contraente.
Il nostro ordinamento, in effetti, conosce varie forme di gara pubblica che
possiamo qui di seguito ricordare e sintetizzare.
4.1. Asta pubblica
Sistema in cui possono partecipare tutti coloro che
comprovino la loro idoneità a parteciparvi, possedendo i requisiti indicati
nel bando.
Aggiudicatario
sarà colui che ha offerto le condizioni più vantaggiose per l'ente.
L'Amministrazione ha la discrezionalità di escludere qualsiasi concorrente,
senza che questi possa opporre indennità di sorta.
In
sintesi l'asta pubblica si svolge attraverso le seguenti fasi:
-
redazione avviso d'aste e sua pubblicazione;
- espletamento della gara attraverso la previa
ammissione dei concorrenti attraverso l'accertamento della loro idoneità;
-
compilazione del verbale di aggiudicazione provvisoria o definitiva.
A
sua volta l'asta pubblica prevede quattro tipi di gara che possiamo così
sintetizzare.
4.1.1. Candela vergine
Aperta l'asta si accendono una dopo l'altra tre
candele e qualora la terza si spenga senza la presentazione di un'ulteriore
offerta, la parte che ha presentato l'ultima offerta risulterà aggiudicatario.
È un metodo ormai obsoleto.
4.1.2. Offerta segreta
In tale sistema l'Amministrazione stabilisce
previamente quale è il limite minimo o massimo che i concorrenti debbono
raggiungere, ovvero il limite di aumento o di ribasso non superabile.
L'offerta segreta deve essere, quindi, aperta
all'atto della gara e ad essa debbono essere comparate le offerte dei
concorrenti.
Il
concorrente che più si avvicina ai suddetti limiti risulterà aggiudicatario.
4.1.3. Pubblico banditore
Anche questo è un sistema ormai obsoleto e consiste
nella attribuzione delle gare a chi superi maggiormente il prezzo determinato
previamente dal Presidente.
4.1.4. Avviso d'asta (o appalto)
Trattasi
in pratica del rovesciamento del sistema ad "offerta segreta".
Trattasi di questo: la P.A. preventivamente, pubblica
il prezzo cui debbono ragguagliarsi le offerte dei terzi contraenti.
Trattasi del c.d. "appalti" in cui la P.A.
fissa previamente vari criteri (prezzo, tempo di esecuzione, modalità delle
medesime) e procede quindi alla comparazione delle varie offerte.
4.2. Licitazione privata
Nato come sistema eccezionale rispetto al sistema,
quello della licitazione privata è, via via, diventato il sistema più
utilizzato.
La differenziazione rispetto all'asta pubblica
consiste, in primo luogo, nella ammissione dei concorrenti: nella licitazione
privata l'esame della idoneità dei concorrenti è anteriore, mentre nell'asta
pubblica è posteriore. Si intende cioè dire che nella licitazione privata si
opera una gara ristretta cui intervengono solo i concorrenti scelti dalla
amministrazione ed invitati alla gara medesima (la P.A. ha ampia
discrezionalità nella scelta dei concorrenti da invitare).
Conseguenza di tale circostanza è che un concorrente
non possa essere escluso se ritenuto non idoneo o non gradito, posto che i
criteri di ammissione sono predeterminati.
Il
sistema di gara della licitazione privata può essere così riassunto:
4.2.1.
Redazione del bando di gara;
4.2.2. Invio di
avviso ai (potenziali) concorrenti dell'espletamento della gara, con invito a
presentare le loro offerte;
4.2.3.
Espletamento della gara vera e propria
con esame e comparazione delle varie offerte.
Senza entrare nel merito delle varie forme di
licitazione privata (soprattutto nel campo delle opere pubbliche) si possono,
qui, ricordare: quello del prezzo più basso, quello dell'offerta economicamente
più vantaggiosa determinata in base ad una pluralità di elementi variabili e relativi
a prezzo, tempo, costo di utilizzazione ecc.; ancora: stabilendo una media
delle offerte e comparando le singole offerte con tale media.
Per quanto attiene alla posizione dei concorrenti
che hanno chiesto di partecipare alla selezione va sottolineato che essi
godono di interesse legittimo alla regolare esecuzione della gara nel senso
che la P.A. deve congruamente motivare in ordine alle ragioni che hanno portato
all'esclusione.
4.3. Appalto-concorso
È un sistema usato, per lo più, nel caso di
esecuzione di opere e forniture in cui prevalga l'elemento artistico o
industriale.
Si differenzia dall'asta pubblica e dalla licitazione
privata in quanto nell'appalto-concorso si chiede ai concorrenti il compito di
redigere il
progetto
esecutivo e di indicare nel contempo le condizioni alle quali sono disposti ad
eseguire l'appalto. È previsto dalle norme sui contratti contenute nel R.D.
18.11.1923 n. 2440 e nel R.D. 25.5.1924 n. 827.
Nessun compenso spetta ai concorrenti per la
predisposizione dei progetti, ma rientra nelle facoltà dell'Amministrazione di
acquisire, previo compenso, il progetto presentato.
Le offerte presentate vengono rimesse ad apposita
commissione incaricata di esaminare i progetti presentati, valutandoli sia dal
punto di vista tecnico che economico e di predisporre l'aggiudicazione a quello
risultante migliore oppure di non aggiudicare laddove i progetti non vengano
ritenuti idonei e congrui.
Caratteristica della gara è, quindi, quella di
culminare in un giudizio combinato: tecnico ed economico.
È evidente che nel caso di appalto-concorso la
Commissione giudicatrice abbia un potere discrezionale di scelta, del tutto
ignoto in altre procedure di gara: ciò non significa però che la Commissione
possa sconfinare nel mero arbitrio, ma che la stessa, dotatasi preventivamente
di criteri di massima, possa adottare la soluzione che ritiene più congrua.
È evidente quindi che la Commissione possa
privilegiare alcuni elementi (ad esempio quello artistico) rispetto ad altri
(ad esempio il prezzo).
La Commissione giudicatrice provvede quindi ad
esprimere un proprio parere in merito ai progetti; la adozione della
aggiudicazione è quindi demandata alla formale deliberazione dell'organo
deliberante dell'Ente.
4.4. Trattativa privata
È forse la forma più semplice di gara e dovrebbe
essere usata eccezionalmente (vedansi gli artt. 10 della legge di contabilità
generale dello Stato e 41 del regolamento generale dello Stato).
Si differenzia dalle altre procedure in quanto non vi
è un procedimento prestabilito (salvo quanto statuito recentemente dal decreto
n. 406/91 e da quello n. 48/92), ma vi è un'ampia discrezionalità della P.A.
nella scelta del contraente e nella determinazione delle clausole
contrattuali.
Sicuramente è il sistema che più si avvicina alla
pattuizione tra privati, lasciando un maggiore spazio alla libera
contrattazione.
La trattativa privata consente una scelta
discrezionale che sarebbe altrimenti impossibile.
La trattativa privata è un modo veloce di scegliere
il terzo contraente e quindi consente alla P.A. di soddisfare velocemente il
proprio interesse pubblico.
II ricorso alla trattativa deve essere adeguatamente
motivato e suffragato da reali esigenze della P.A.
In particolare la P.A. può ricorrere alla trattativa
quando altri tipi di gara (licitazione od incanti) siano andati deserti; quando
vi siano particolari ragioni di urgenza o quando la prestazione possa essere
fornita solo da un determinato terzo.
Essenzialmente
il procedimento si può svolgere con le seguenti modalità:
4.5.1.
trattativa diretta con un unico concorrente, senza acquisizione e comparazione
con le altre offerte;
4.5.2.
consultazione di più concorrenti al fine di individuare quello, fra di essi,
che può offrire le condizioni più vantaggiose per la P.A.
Pur con tutte le libertà di forma è ovvio che la P.A.
si debba attenere alle regole che essa stessa si è data e che debba pur sempre
rispettare la par condicio tra i
concorrenti.
5. Avvenuta la gara si deve quindi procedere
all'aggiudicazione, cui segue la stipula del contratto vero e proprio.
L'aggiudicazione (che può anche mancare come nel caso
della trattativa privata) è l'atto formale con cui la P.A. rende noto il terzo
prescelto.
L'aggiudicazione rappresenta il momento conclusivo
del procedimento ed ha natura di atto amministrativo.
La
stipulazione può avvenire in varie forme (atto pubblico o scrittura privata).
Nel caso di appalto attraverso pubblica gara, il
verbale di aggiudicazione può tenere conto del contratto, senza necessità di
ulteriori formalità.
Con la stipulazione (o con l'aggiudicazione) il
contratto è perfetto ed efficace fra le parti, con la conseguente assunzione
delle reciproche obbligazioni.
Solo
con la stipulazione si stabiliscono gli obblighi a carico della P.A.
Norme pubblicistiche regolamentano, poi, tali
rispettive obbligazioni e la regolare esecuzione del contratto.
6. Va poi ricordato che varie norme tendono ad impedire
che lo Stato stipuli contratti con soggetti di condotta riprovevole: ci si
riferisce alle cc.dd. "norme antimafia" stabilite da varie leggi
(per tutte la legge 66/90).
In buona sostanza trattasi di questo: chi intende
stipulare un contratto con lo Stato ha il preciso obbligo di produrre una
idonea certificazione antimafia, che dimostri la sua estraneità a determinati
tipi di reato.
7. Va inoltre ricordato che la normativa impone al
contraente privato di ottemperare a tutti gli obblighi di legge relativi alla
protezione e tutela dei lavoratori, con particolare riferimento agli obblighi
scaturenti dalla previdenza sociale e dai contratti collettivi.
8. Si deve poi rilevare che la normativa pone un accento particolare sulla
durata dei contratti ad evidenza pubblica.
Tali contratti debbono avere termini e durata certi e
non possono essere stipulati con onere continuativo per la P.A., se non per
motivi di assoluta convenienza o necessità da indicarsi nel provvedimento di
approvazione.
Va poi ricordato il divieto, ex art. 12R.D. 18.11.1923 n. 2440, di stipulare contratti di durata
ultra novennale.
Di contro è possibile per la P.A. stipulare dei
contratti (di durata inferiore ai nove anni) contenenti una clausola di tacita
rinnovabilità.
Infatti, ancorché tutti i contratti della P.A. debbano
essere stipulati per iscritto, la giurisprudenza ritiene che la P.A. possa
inserire, nei propri contratti, la clausola di tacito rinnovo (vedasi Corte
dei Conti Servizio Contratti Stato, 24.1.1991
n. 7).
9. Vale la pena di ricordare che spesso, per normativa
o per pattuizione, la eventuale controversia fra l'Amministrazione ed il terzo
contraente è devoluta ad altri, con esclusione della giurisdizione
dell'Autorità giudiziaria ordinaria.
Con la procedura arbitrale, in buona sostanza, le
parti devolvono ad un numero dispari di arbitri la decisione sulle controversie
insorte in sede di esecuzione del contratto ovvero al termine del medesimo.
Gli arbitri, al pari dei giudici, possono assumere
prove, esperire consulenze al fine di emettere le loro decisioni.
Va segnalato, infine, che il ricorso alla procedura
arbitrale, ancorché più onerosa, è sicuramente più rapido rispetto ai tempi di
una controversia giudiziale.
10. Fatte queste brevi premesse sui contratti ad
evidenza pubblica nelle loro varie fasi occorre svolgere alcune considerazioni
in ordine al particolare campo dei servizi (in particolare all'assistenza).
È chiaro che, nell'ipotesi in cui la P.A. ricorra
all'opera dei terzi per l'espletamento dei suddetti servizi, vi siano delle
esigenze particolari che, a mio giudizio, incidono in particolare sulla scelta
del terzo contraente.
In
particolare mi pare che si possono mettere in luce i seguenti aspetti:
10.1. Viste tali peculiarità mi pare che i due tipi
di gara maggiormente utilizzabili siano quelli della trattativa privata o
dell'appalto-concorso.
Tali tipi di gara consentono infatti alla P.A. di
poter scegliere il contraente che garantisca determinate qualità (serietà,
esperienza, preparazione professionale, organici, ecc.).
Con la trattativa privata, infatti, la P.A. può trattare
con un soggetto determinato o, attraverso la gara ufficiosa, con una serie di
soggetti che garantiscono (o, quantomeno, possano garantire) le predette
determinate qualità.
Si pensi poi al caso in cui la P.A. debba stipulare
un nuovo contratto, a seguito di cessazione, per scadenza del termine, di
precedente contratto. Orbene: logica vuole che in casi come questo la P.A.
possa ricorrere alla trattativa privata onde garantire la continuità nel
servizio (in primo luogo a favore degli assistiti).
In tal caso il ricorso alla trattativa privata, purché
congruamente motivato sotto il suddetto profilo della continuità, sarebbe
perfettamente legittimo.
Ciò non toglie che in casi come questo la P.A. possa
esperire una gara ufficiosa anche con altri soggetti, se non, addirittura, una
licitazione privata.
Tornando, poi, all'appalto-concorso mi pare che esso
ben possa essere utilizzato in tutte le ipotesi in cui la P.A. ha necessità di
ottenere dei progetti complessivi che, oltreché l'aspetto economico,
contemplino tutte le modalità del servizio richiesto (che sono, ovviamente,
varie e che possono essere soddisfatte in modi diversi);
10.2. In secondo luogo mi pare che la P.A. possa
inserire, nei contratti di cui trattasi, delle clausole di rinnovo tacito. Ciò
ancora una volta per garantire, per il maggior tempo possibile, la continuità
dei servizio.
Mi pare doveroso sottolineare, ancora una volta, che
il tipo di servizio richiesto necessita di una certa continuità, onde agevolare
la vita degli assistiti ed onde garantire loro la presenza costante degli
stessi operatori.
Credo
che uno dei maggiori diritti degli assistiti sia quella di poter contare su
tale continuità. Orbene, è chiaro che la possibilità di offrire tale continuità
sia quello di rinnovare (anche tacitamente) i contratti con lo stesso privato.
Come si è visto sopra la giurisprudenza ammette la
possibilità di tacito rinnovo dei contratti ad evidenza pubblica. Tale
principio, a maggior ragione, mi pare applicabile nel caso di specie in cui la
continuità non è solo possibile, ma addirittura consigliabile. Ciò ovviamente
purché la rinnovabilità non instauri situazioni di "monopolio" e
venga infine ad escludere la possibilità per altri soggetti di poter contrarre
con la P.A.
(*) Gruppo operatori della comunità alloggio di Torino,
Corso Casale ...
(**) Procuratore legale.
www.fondazionepromozionesociale.it