Prospettive assistenziali, n. 105, gennaio-marzo 1994
LA
COMUNITA ALLOGGIO: UN SERVIZIO INDISPENSABILE
Nel
n. 103, luglio-settembre 1993, abbiamo pubblicato la mozione conclusiva e tre
relazioni tenute al convegno di Torino del 23 giugno 1993 sul tema "Le
comunità alloggio e le case famiglia: un servizio indispensabile per bambini,
adolescenti, gestanti e madri, handicappati fisici e intellettivi".
Riportiamo, di seguito, altre due
relazioni.
w ANALISI DELLE RICERCHE SULLE
COMUNITÀ ALLOGGIO
DARIO REI (*)
In tema di comunità alloggio e
comunità di tipo familiare, attualmente esistono numerose ricerche. Mi
rifaccio a due soltanto, e anche di queste mi limiterò a fornire alcune
indicazioni generali (1).
Tra le altre ricerche che possono
essere segnalate, vi sono quella promossa nel 1981-82 dal Centro studi del
Gruppo Abele che riguardava le comunità alloggio per minori in Piemonte (Minori, comunità e dintorni, EGA, 1984) e i materiali del convegno "Quattro mura di umanità" (Convegno
nazionale sul ruolo della comunità alloggio, promosso nel 1984 dalla Provincia
di Torino).
Interessante anche un'iniziativa
presa dalla VI Circoscrizione del Comune di Torino e dall'Associazione
nazionale educatori e operatori sociali nel 1991 sul tema delle comunità
alloggio per minori (2); infine la recente ricerca realizzata dal CEMEA
Piemonte sui servizi educativi per i minori a rischio nell'area torinese,
concernente sia i servizi territoriali sia una quarantina di comunità
residenziali. Questo elenco è anche un invito a sistematizzare i materiali di
ricerca, per arrivare ad un quadro complessivamente più ricco, articolato e
esauriente di tutta la fenomenologia.
Ciò premesso, vorrei comparare le
prime due ricerche citate, che hanno un certo carattere esemplare, anche dal
punto di vista metodologico, oltre che di contenuto.
Analisi della prima ricerca
La prima ricerca è stata promossa
dall'Assessorato all'Assistenza del Comune di Torino nel 1986, come indagine
conoscitiva sulle comunità alloggio per adolescenti in Torino: 18 comunità
alloggio, di cui 7 pubbliche, 8 convenzionate e 3 definite a rette individuali.
La seconda fa parte di indagine più ampia promossa dal Coordinamento nazionale
delle comunità di tipo familiare (3) e indaga dieci comunità di questo tipo di
cui sette specificamente destinate a pre-adolescenti e adolescenti a rischio.
In entrambi i casi si tratta di
campioni limitati, ma le osservazioni sui dati raccolti possono avere un valore
di riflessione generale, sia sul modo di condurre queste osservazioni, sia sui
tratti costitutivi delle realtà che le ricerche consentono di rilevare.
Una differenza fondamentale va
sottolineata subito. La ricerca dell'Assessorato del Comune di Torino si pone
in prevalenza sul versante dell'offerta di servizi: vede la comunità alloggio
essenzialmente come risorsa di intervento compresa entro un sistema di
servizi. Le caratteristiche di queste comunità vengono rilevate chiedendo
agli operatori delle comunità stesse come si pongono nei confronti di questa
struttura e come svolgono la loro attività all'interno del servizio (4).
Tra gli elementi di confronto - nel
giudizio degli operatori - sulle comunità a diversa gestione, i più
interessanti sono i seguenti: le comunità pubbliche appaiono più legate al
sistema dell'intervento socio-assistenziale dei servizi, ma anche più isolate
dal contesto sociale e dal tessuto delle risorse che la società può mettere
spontaneamente a disposizione di questo tipo di attività, mentre le comunità
convenzionate sembrerebbero, sempre a giudizio degli operatori, più
"orizzontali" ossia più collegate alla società. Un dato interessante
riguarda il numero di persone esterne che circolano quotidianamente
all'interno delle comunità, limitato nel caso delle comunità pubbliche (media a
1-3 persone), più elevato nel caso delle altre (oltre 5). Inoltre, le comunità
pubbliche sembrano più legate all'emergenza del bisogno; le comunità convenzionate
più vicine alla famiglia d'origine del minore. Meno direttive le comunità
pubbliche, più formali nelle regole interne di convivenza le altre comunità.
Poste le differenze generali di
impostazione, vanno sottolineate anche alcune differenze sugli atteggiamenti
degli operatori: per esempio, gli operatori delle comunità pubbliche sembrerebbero
meno disposti ad investire sul loro futuro
come operatori di comunità, mentre la propensione a
confermarsi nell'attività di operatore sociale di comunità è più alta nelle
dichiarazioni di quanti lavorano nelle comunità convenzionate; questi dati
meriterebbero tuttavia un approfondimento circa le cause non univoche di
questi atteggiamenti: "vocazione", "mancanza di alternative",
ecc.
Sottolineate le diversità, si
possono mettere in evidenza anche molti elementi comuni, che individuano
problemi presenti in entrambe queste realtà.
Vi è una domanda molto forte di
formazione, sul lavoro e non soltanto iniziale; risulta una domanda congiunta
ed una pratica, diffusa più nelle comunità convenzionate che in quelle pubbliche,
di supervisione e di rapporto con operatori professionali esterni; una
abbastanza diffusa e omogenea dichiarazione di difficoltà nei rapporti con la
burocrazia pubblica.
Anche se i dati relativi all'utenza
sono molto limitati, poiché il fuoco di attenzione era sulla struttura e sui
suoi operatori, la ricerca mette comunque in evidenza che l'utenza di queste
comunità è contenuta in piccoli numeri (la media è di 5 0 6 ospiti per singola comunità; la provenienza è locale, limitata
essenzialmente al comune in cui le comunità sono insediate; l'accesso diretto
dalla famiglia d'origine è molto forte nella comunità pubblica, mentre percorsi
più variegati risultano per i soggetti che arrivano nelle comunità
convenzionate; il problema delle dimissioni, che ritorna in modo molto
esplicito nella ricerca successiva, indica una polarità di atteggiamento tra
coloro che ritengono che le dimissioni si facciano "per missione
compiuta" oppure, in altri casi, si facciano per "impossibilità di
proseguire" nel rapporto all'interno della comunità. Questa polarità,
molto importante, non discrimina tra di loro i due tipi di comunità.
Infine vi è il dato sul tempo di
permanenza medio, che è abbastanza elevato: fino a due anni nelle comunità
pubbliche, fino a tre anni negli altri tipi di comunità.
La seconda ricerca
La seconda ricerca ha la
caratteristica, opposta alla precedente, di essere un'indagine essenzialmente
centrata sugli utenti (5). Essa si sofferma sui percorsi degli utenti, sulle
loro storie di vita, su ciò che è accaduto prima dell'ingresso in comunità,
succede durante e capita dopo. In questa ricerca sono stati considerati sia un
gruppo di utenti all'epoca inseriti nelle comunità, sia un gruppo più numeroso
di utenti dimessi; si ha così un'indicazione di "follow-up" sulle
conseguenze o sugli esiti della permanenza in comunità per questi soggetti. I
dati che emergono, in parte simili a quelli della ricerca precedente,
confermano alcune tendenze da essa rilevate, a cominciare dalla provenienza locale
dei soggetti, con un aumento dei minori nati all'estero (un segnale, sia pure
su cifre molto piccole, di una domanda nuova legata all'emigrazione
extracomunitaria).
Appare una maggiore varietà di
percorsi rispetto alla ricerca di Torino; la provenienza diretta dalla
famiglia d'origine riguarda non più del 57% dei minori attualmente inseriti,
mentre crescono le provenienze "a più tappe" per così dire, nel
caso di minori che hanno avuto esperienze di affidamento familiare non
riuscito, oppure provengono da istituti in cui hanno avuto problemi di
inserimento e di convivenza (30% di istituti, 13% da precedenti affidamenti).
In ogni caso, in questa seconda
indagine l'accesso alle comunità rimane fortemente segnalato e favorito dalle
istituzioni pubbliche, sia dai servizi sociali, sia da quelli di carattere
giudiziario: l'80% degli accessi avviene attraverso questo canale.
L'elemento che, con molta evidenza,
emerge fra le cause del ricorso alla comunità, e si pone come fattore
principale, è la disgregazione o incapacità educativa della famiglia
d'origine: non la sua assenza, o l'abbandono, nel senso che questo termine può
avere tradizionalmente, ma la sua debolezza educativa, incrociata sovente con
la debolezza economica, con situazioni di disgregazione e talvolta anche di
violenza o maltrattamento. Situazioni di questo tipo denotano, quindi, una
sindrome di fuga o di distacco, nel senso dell'incapacità e talvolta del non
interesse a mantenere un rapporto educativo interpersonale.
Un dato abbastanza preoccupante
riguarda il numero di visite che fanno i familiari alla comunità. Dei 115
genitori viventi e conosciuti dei 70 minori che si trovano in comunità, solo il
75% dispone della potestà parentale; di questi il 75% fanno visita alla
comunità con frequenza almeno mensile, un restante 13% 1-2 volte l'anno (12% di
genitori sembra non venire mai). Nel complesso il 60% dei minori non riceve
mai visite da padri assenti, allontanati o sconosciuti, contro un tasso di
assenza materna dimezzato (31%); più intense da parte delle madri anche le
visite settimanali e giornaliere.
La sindrome di fuga o di rigetto si
conferma come elemento notevole per quanto riguarda le dimissioni.
Relativamente ai casi di dimessi, in prevalenza (46%) le dimissioni furono
decise da autorità pubbliche esterne alla comunità; nel 40% dei casi dalla
comunità stessa: da sola, con i servizi, con l'utente, con la famiglia, nel 14%
dei casi dall'esercente la potestà. «Solo in pochi casi (12%) il minore è
(stato) un interlocutore attivo nelle decisioni che riguardano direttamente la
sua vita» (p. 55).
Le dimissioni configurano alcune
difficoltà tipiche e ricorrenti: sembrerebbe che, quanto più l'età del
soggetto aumenta, tanto più incerta diventa la previsione delle dimissioni nel
tempo; evidentemente ciò è da porre in relazione alla non esistenza o
adeguatezza di opportunità esterne, di lavoro, alloggio, prosecuzione degli
studi e così via. Sicché l'esito di dimissione che appare ancora prevalente è
quello del ritorno alla famiglia d'origine; ed è un esito cui gli operatori
intervistati manifestano molte perplessità, temendo che possa comportare la
restituzione del soggetto ad un ambiente a rischio, e limitare ex-post
l'efficacia dell'azione educativa svolta all'interno delle comunità (6).
Conclusioni
Passate brevemente in rassegna le
due ricerche, vorrei sottolineare in conclusione alcuni elementi di
riflessione generale su questa problematica.
Si pone innanzitutto il problema dei
confini e contorni istituzionali della comunità: trovo una spia linguistica
molto interessante il fatto che alcuni parlino di "comunità
alloggio", altri di "comunità di tipo familiare". Non sembra
che questi due termini siano assunti come intercambiabili. II primo pone
maggiormente l'accento sulla struttura del servizio e sull'offerta, il secondo
sulle relazioni e sulla attività che si svolge all'interno della comunità.
Così pure emergono dicotomie funzionali tra la comunità vista essenzialmente
in termini di convivenza, come risorsa di convivenza e di educazione
vicariante, e la comunità percepita e praticata come luogo di trattamento del
disagio adolescenziale, con un intervento che si giustifica prevalentemente
per ragioni di emergenza o di pronto intervento. La compresenza di queste
distinte funzioni all'interno della stessa struttura può introdurre tensioni e
porre dei problemi, sia al funzionamento della struttura stessa, sia alle
qualità dei rapporti che in essa vengono intrattenuti. Rimane confermato che
tra le risorse strutturali figura il piccolo numero degli utenti e una
disponibilità "congrua" di educatori, minore nel numero ma più
intensa e coinvolgente nel senso dell'attività svolta.
In una indagine ulteriore fatta
dagli autori della seconda ricerca, si è chiesto ai ragazzi che cosa pensano
della esperienza compiuta in comunità (7). Molti intervistati sottolineano
l'esigenza non solo di stabilità nella relazione, ma anche di intensità del
rapporto educativo: l'affidabilità del rapporto educativo comporta la messa in
gioco della personalità dei due soggetti che entrano in relazione.
L'espressione "meno educatori,
ma più educatori" segnala uno spostamento atteso dell'attenzione: dalla
semplice tipologia dell'offerta alla sequenzialità del processo educativo,
dall'organizzazione funzionale del servizio al modo in cui le comunità si
inseriscono nella storia di vita dei soggetti.
Per dirla altrimenti i problemi di
transizione nel ciclo di vita acquistano una rilevanza cruciale: la transizione
"prima" della comunità, sia la transizione "alla
comunità", la transizione al "dopo".
Andrea Canevaro parla di storie che
non hanno storia, di storie spezzate; aggiungerei la necessità di analizzare
anche gli "anelli perdenti", ossia il fatto che dalla comunità non si
esce, necessariamente, sempre in avanti e promossi a una nuova condizione, ma
si viene talvolta restituiti alle stesse o peggiori situazioni di rischio 0 di
disagio, sicché non necessariamente il processo di transizione
comunità-ambiente approda ad esiti positivi. Tuttavia, nei due terzi dei casi
di questa seconda ricerca, gli operatori si dichiarano soddisfatti dei
risultati di inserimento che, attraverso la permanenza in comunità, sono stati
realizzati.
Ci si accorge infine che la forte
attenzione al rapporto struttura-utenza, operatore-minori nelle due ricerche
lascia sullo sfondo la società, nel senso dell'ambiente sociale in cui le comunità
si collocano. Non è agevole dire se, questa "povertà di sfondo",
derivi dalla opzione metodologica seguita o non rifletta una situazione di
reale isolamento: come se le comunità vivessero una attività di intensa
qualità emotiva e relazionale, ma restassero entro un relativo deserto
sociale.
Ci si chiede, all'inverso, quale sia
la capacità della società di valorizzare questa risorsa, per legittimarla e
riconoscerla come risorsa propria generale e non solo come risposta ai bisogni
specifici degli operatori e degli utenti coinvolti. La relativa marginalità è
indicativa del disagio che le comunità stesse vivono nel rapporto con la
società generale, mentre il significato sociale delle comunità dovrebbe
consistere nella capacità di creare "prossimità" tra ciò che è
esterno e ciò che è familiare, di attivare un raccordo tra la dimensione
ristretta della convivenza di tipo familiare e la convivenza di tipo ampia e
pubblica della cittadinanza.
Se - come dice una antica sapienza -
«la città è quel luogo dove gli estranei diventano concittadini», la
comunità, vista in questo senso politicamente e civilmente ricco, può essere o
meglio può diventare una risorsa per la società intera, oltre che uno spazio
essenziale di esperienza per chi ci lavora e ci vive.
w FORMAZIONE DEGLI OPERATORI E NUOVE
FIGURE PROFESSIONALI
MAURO ALBORESI (*)
Iniziative quali quella odierna sono
assai importanti; il tema trattato e, più in generale, il contesto entro il
quale si colloca, necessita infatti del confronto più ampio, nel rispetto delle
reciproche necessarie autonomie, dell'insieme delle forze istituzionali e
sociali.
È possibile ed opportuno tendere a determinare orientamenti
comuni.
Non vi è dubbio che il sistema dei
servizi socio-sanitari assistenziali educativi nel nostro paese, anche in
virtù di un processo pur contraddittorio, di crescita culturale attorno al concetto
dei bisogni, ha indubbiamente subito nel corso di questi anni una profonda
modificazione ed evoluzione di interventi, modalità, approccio con le diverse
situazioni di marginalità e disagio, con nuovi e vecchi bisogni delle persone,
delle famiglie, delle comunità sociali.
II mutamento quantitativo e
qualitativo intercorso ha comportato anche l'ampliamento della gamma degli
operatori coinvolti, nuove figure di operatori si sono affiancate a quelle
tradizionali, altre hanno richiesto nuovi livelli di formazione e
specializzazione. È andata sottolineandosi la necessità del superamento della
indefinitezza dei confini e dei contenuti delle singole professionalità,
particolarmente per quanto concerne gli operatori dei servizi e degli
interventi a carattere educativo-riabilitativo-assistenziale che, sovente, pur
svolgendo funzioni e compiti similari, assumevano ed assumono denominazioni le
più disparate.
Si sottolinea come caratteristica
peculiare di questo insieme di operatori l'estrema eterogeneità dei percorsi
formativi, quando presenti, attraverso i quali essi giungano ad un impiego
nell'ambito dei vari servizi citati.
Ciò è evidente anche nel contesto al
quale riferiamo le tipologie di servizio poste al centro dell'odierno
convegno.
Numerose sono le
analisi-elaborazioni-proposizioni che sono andate sviluppandosi nel tempo
circa le professionalità richieste su detto versante educativo-riabilitativo-assistenziale,
in considerazione degli orientamenti programmatici assunti dai diversi livelli
istituzionali preposti, degli obiettivi specifici che ne derivano e, quindi,
del ruolo, funzioni e compiti da attribuire agli operatori.
Pur schematizzando possiamo
affermare che, sul versante più propriamente educativo, è andata
generalizzandosi la convinzione circa l'esigenza di una professionalità capace
di promuovere lo sviluppo delle potenzialità di crescita personale e/o di
integrazione sociale attraverso un progetto educativo appropriato, anche continuativo,
realizzato attraverso una metodologia centrata sul rapporto interpersonale,
nelle esperienze di vita ed in gruppo, sulla base di precise intenzionalità e
con un'ampia interazione.
È andata generalizzandosi anche la
convinzione circa l'opportunità di addivenire ad una unica figura, denominata
educatore professionale, in grado di assicurarsi con le molteplici
problematiche presenti nel campo degli interventi educativi-riabilitativi nei
confronti di minori, handicappati, tossicodipendenti, devianza, salute
mentale, sociale.
È andata generalizzandosi infine la
convinzione che tale figura professionale debba necessariamente essere il
prodotto di un processo formativo unitario che consenta di evitare disomogeneità
di indirizzi e contenuti.
Per quanto concerne il versante più
propriamente assistenziale è andata generalizzandosi la convinzione circa
l'esigenza di una professionalità che, attraverso l'acquisizione di conoscenze
tecniche e competenze pratiche, sappia operare in aiuto al singolo utente, ma
anche al nucleo familiare entro il quale lo stesso può essere inserito e sappia
intervenire nella relazione tra questi e l'ambiente esterno ai diversi livelli.
È andata generalizzandosi, anche
relativamente a tale operatore, la convinzione circa l'opportunità di giungere
ad un'unica figura, denominata addetto all'assistenza di base, in grado di
misurarsi con le molteplici problematiche presenti nel campo degli interventi
assistenziali relativamente ad anziani, handicap, minori e famiglie
multiproblematiche.
È andata generalizzandosi infine
anche la convinzione che tale figura, così come quella dell'educatore
professionale, debba essere il prodotto di un percorso formativo unitario.
Sulla base di tali orientamenti sono
andati sviluppandosi nel tempo, in alcune realtà regionali, processi formativi
mirati, relativamente alle figure di educatore professionale ed addetto all'assistenza
di base presso le sedi formative delle USL e/o presso le sedi formative
comunali o altre sedi abilitate.
Lo svilupparsi di tali processi
formativi, va ribadito, è anche causa-effetto della tendenza programmatoria di
diversi livelli istituzionali che pone l'accento sulla necessità, in alcuni
casi è presente l'obbligatorietà, del possesso di tali requisiti professionali
per tutte le realtà pubbliche e/o private che gestiscono servizi a carattere
educativo-riabilitativo-assistenziale.
Resta tuttavia marcata la facoltatività di tali processi
formativi in numerose realtà. Particolare rilevanza riveste la coerente scelta
operata, in ordine a molti di tali processi formativi, di uno stretto rapporto
tra livello teorico-culturale, tecnico, pratico.
Occorre pertanto tendere ad
utilizzare al meglio le esperienze formative realizzate in tali contesti
formativi, le risorse, le energie in essi certamente esistenti.
Sono scelte ed orientamenti, questi,
che appare opportuno confermare soprattutto in quanto evidenziatisi nel tempo
come rispondenti a molti dei bisogni che si pongono.
In tal senso ed a tal fine si
evidenzia come assai importante punto di riferimento ciò che è contenuto nel
decreto legislativo di riordino della sanità approvato dal Consiglio dei
Ministri in data 23.12.92 n. 502 in attuazione della legge delega n. 421 del 23
ottobre 1992, in particolare quanto contenuto nell'art. 6 "Formazione
professionale".
II nuovo modello formativo delineato
in tale ambito e che potrà decorrere dal prossimo anno accademico, va
attentamente considerato per numerosi suoi aspetti:
- la possibile unitarietà ed omogeneità del riordino dei
processi formativi;
- l'elevazione al diploma
universitario di cui all'art. 2 della legge n. 341190 del titolo abilitante
all'esercizio delle professioni;
- il consolidamento della funzione
didattica del SSN attraverso l'attuazione, con la legge, del principio che
all'interno di tale sistema si svolge la formazione del personale sanitario,
infermieristico, tecnico e della riabilitazione (allo stato l'educatore
professionale è contemplato nel ruolo sanitario tra il personale della
riabilitazione);
- il mantenimento delle attuali sedi
formative del SSN ed il loro rapporto convenzionale (protocolli d'intesa) con
le Università, che permette l'adozione degli ordinamenti didattici dei diplomi
universitari ed il rilascio degli stessi come titolo abilitante;
- l'affidamento degli insegnamenti,
di norma, a personale del ruolo sanitario sottolineando quindi la funzione di
docenza degli stessi operatori;
- la certezza dei tempi in ordine
alla soppressione di quei corsi di studio che entro i 3 anni previsti non
dovessero trasformarsi in corsi di diploma universitario e potere surroga
relativamente alla eventuale non stipula, entro i tempi previsti, dei
protocolli d'intesa.
Tale provvedimento legislativo può
quindi essere letto come strumento per la necessaria ed opportuna
valorizzazione delle esperienze formative delle scuole non universitarie per
educatori professionali che, come sottolineato, sono a tutt'oggi l'unica
consistente e rilevante realtà formativa e che, generalmente, sono andate affermandosi
sulla base del D.M. del 10.2.84 (che, come risaputo, ha introdotto nella sanità
la figura di educatore professionale definendone, pur sommariamente, il
profilo, determinandone i requisiti per l'esercizio della professione, indicandone
l'ambito formativo).
La necessaria definizione
dell'ordinamento didattico, ai sensi dell'articolo 9 della legge n. 341190,
relativamente alle diverse figure professionali oggetto del processo di
riforma richiamato pub essere anch'essa letta come strumento a ciò
funzionale.
Relativamente alla figura
dell'addetto all'assistenza di base, per la quale non sussistono, allo stato,
possibili riferimenti legislativi per quanto concerne l'ambito formativo, è
generalizzata la convinzione circa la necessità di mantenere, consolidandola,
la scelta della titolarità regionale e/o provinciale in quanto pienamente
conforme alle esigenze che si pongono.
In ordine al problema preso in esame
quanto attiene alla figura di educatore professionale è certamente questione
altamente problematica.
Sul versante della formazione
professionale, tenendo conto del quadro di riferimento, ma soprattutto tenendo
conto che la formazione deve essere definita a partire dal ruolo e dalle funzioni
che si intendono attribuire e che ciò che va fatto in base ad una attenta
lettura dei bisogni, è opportuno quindi orientarsi a scelte che garantiscono
una reale coerenza.
Si è discusso e si discute molto a
proposito dei possibili livelli e sedi formative per la figura professionale in
questione. Numerosi sono gli atti e le scelte, anche di carattere programmatico-legislativo,
che sottolineano una rilevante articolazione di posizioni nonché aspetti
contraddittori che allo stato lasciano irrisolto il problema.
Accanto alle scelte regionali
precedentemente richiamate si sottolineano i contenuti della già citata legge
n. 341 del 19.11.90 "Riforma degli ordinamenti didattici
universitari" ed il D.M. dell'11.2.91 "Modificazioni dell'ordinamento
didattico universitario relativamente al corso di laurea in scienze
dell'educazione" (ex pedagogia).
Scuole non universitarie per una
figura generalmente definita educatore professionale, diploma universitario
per operatore socio-psicopedagogico, corso di laurea in scienze dell'educazione
ad indirizzo educatore professionale extrascolastico sono le possibilità
offerte, con un grado assai diverso di concreta, immediata percorribilità (solo
le prime, come già sottolineato in apertura, stanno attualmente fornendo operatori
formati) a coloro che decidono di operare, qualificandosi, in ambito
socio-sanitario sul versante educativo-riabilitativo.
Al punto in cui siamo occorrono scelte precise.
Non vi è dubbio che tendenze
emergenti assegnano grande rilevanza al diploma universitario.
Altrettanta rilevanza è assegnata al
corso di laurea in scienze dell'educazione ad indirizzo educatore professionale
extrascolastico. I due percorsi, diversi tra loro, possono essere considerati
complementari. La laurea, con un carattere marcato sul piano
scientifico-culturale, può essere letta come formativa per profili professionali
aventi carattere dirigenziale, di ricerca, di coordinamento nel settore di
afferenza.
Il diploma universitario, in una
logica omogenea, si afferma come più adatto per il lavoro della figura in
discussione a diretto contatto con l'utenza, anche in quanto può essere più
marcato sul piano della necessaria formazione professionale essenzialmente a
carattere praticooperativo. Considerare il rapporto tra laurea e diploma
universitario in tali termini, in termini di complementarietà, allo stato,
appare inoltre in grado di consentire l'evitare possibili effetti dirompenti
nei confronti delle caratteristiche proprie del diploma universitario che va
opportunamente valorizzato, anche sulla scorta di esperienze europee.
Ciò consentirebbe anche di evitare
l'introduzione, nel rapporto tra la figura in questione e le altre presenti
nelle piante organiche delle diverse realtà gestionali nelle quali opera, di
elementi di rincorsa emulativa non sufficientemente giustificati, soprattutto
in rapporto ai necessari modelli organizzativi.
Ciò consentirebbe anche di operare
in relazione agli spazi esistenti nelle diverse piante organiche in termini
non problematici.
Occorre operare scelte di merito a
partire unicamente dai bisogni evidenziatisi. Se è quindi possibile
sottolineare che l'attività educativa e formativa può muoversi in autonomia dal
mercato del lavoro è tuttavia opportuno sottolineare riferimenti allo stesso,
ciò anche per offrire chiarezza di prospettiva ai formandi.
Occorre una formazione aperta al
mondo del lavoro impegnato direttamente nella professione, presente
nell'ambito dei servizi, al mondo culturale vicino a quello del settore
educativo dallo stesso coinvolto.
La definizione di un percorso
formativo adeguato, che partendo da un'attenta e preventiva verifica del
fabbisogno presente sul territorio consenta di avviare i servizi con personale
formato, è quindi un elemento di grande importanza e sottolinea il bisogno
della definizione di standards ed obblighi di riferimento per tutti i soggetti
pubblici e privati coinvolti e più in generale di un più avanzato livello di
programmazione dei servizi socio-sanitari a carattere educativo-riabilitativo-assistenziale.
La questione della formazione
professionale non pub non interessare i diversi livelli della pubblica
amministrazione. La formazione di figure quali quella dell'addetto
all'assistenza di base, dell'educatore professionale, al pari di altre a
carattere socio-pedagogico (educativo-riabilitativo-assistenziale), è
questione comportante implicazioni che vanno ben al di là della specifica
sede od ambito in cui è collocata. È necessario quindi uno stringente rapporto
di relazione finalizzato alla socializzazione delle esperienze ed anche, se
del caso, a ridefinizioni strutturali, anche di carattere legislativo. Ciò che
deve essere messo in campo, in primo luogo, non è il prestigio o l'autonomia di
questo o quel soggetto istituzionale o non, quanto l'interesse del
cittadino-utente dei servizi e dello studente professionista in formazione.
È da sottolinearsi la necessità di
una stretta collaborazione con la realtà Regione per ciò che rappresenta e può
rappresentare ai diversi livelli.
L'attuale legislazione, in
particolare quella ripetutamente richiamata, rende tutto ciò assolutamente
percorribile. La stessa esperienza verificabile in questo contesto lo
sottolinea.
Oltre a quanto riferibile alla
formazione al lavoro si pone, su scala nazionale, in forma assai pressante, il
tema della qualificazione sul lavoro per coloro che attualmente sono occupati
nei servizi citati, a prescindere da una loro gestione attraverso il soggetto
pubblico o privato.
È necessario porre con forza il
problema e ciò sia in direzione di una valorizzazione della dignità propria
dell'operatore, sia in relazione alle esigenze dell'utenza. Obiettivo centrale
è quello della equiparazione giuridica e qualitativa delle iniziative corsuali
di 1a formazione con quelle di qualificazione sul lavoro.
La qualificazione sul lavoro degli
operatori è occasione di miglioramento della qualità dei servizi, momento
rilevante di riflessione sul proprio modo di operare. La qualificazione sul
lavoro non deve essere considerata come esperienza formativa a termine, come
semplice passaggio per l'acquisizione di un titolo, ma soprattutto come avvio
dì un processo che valorizzi lo stesso concetto di formazione permanente.
In tale ottica si sottolinea
l'aggiornamento anche come elemento indispensabile per il mantenimento,
l'elevamento della professionalità, per una relazione continua delle capacità
di bisogni, sempre più complessi.
La formazione nelle sue
articolazioni, può non essere intesa come strumento di cambiamento
dell'organizzazione dei servizi, ma è indubbio che rappresenti un valido
supporto della stessa.
Sussistono, anche relativamente a ciò, importanti esperienze
possibile punto di riferimento. II tema della formazione professionale, nei
suoi diversi aspetti, è strettamente intrecciato a quello del riconoscimento
della figura professionale: senza legge non c'è professione.
Seguendo lo schema di riferimento
assunto, relativamente alla figura di addetto all'assistenza di base, appare
quindi non più rinviabile lo sviluppo di opportune iniziative nei confronti
dei Ministeri competenti e degli altri livelli istituzionali coinvolti per la
definizione del profilo professionale (tenendo conto delle esperienze già
affermatesi in termini positivi), per il riconoscimento del ruolo e delle
funzioni professionali, per la definizione degli opportuni processi formativi.
La definizione di un percorso
mirato, specifico per la figura di addetto all'assistenza di base, sulla scorta
di quello realizzato, ad esempio, per la figura di assistente sociale, è
questione che vedrà impegnate, nei prossimi mesi, sul piano propositivo, le
stesse organizzazioni sindacali.
Assai più articolato, complesso è
ancora una volta, quanto riferito o riferibile al riguardo della figura di
educatore professionale.
Si è posto e si pone in tale ottica
il problema dell'annullamento determinato dalla sentenza del TAR del Lazio e da
quella successiva del Consiglio di Stato (settembre 1990), del D.M. del 10.2.84
surrichiamato.
È un dato di fatto che è venuto a
cadere l'unico provvedimento a livello nazionale, se si esclude il DPR 1219/84
(individuazione dei profili professionali del personale dei Ministeri in attuazione
dell'art. 3 della legge 11.7.80 n. 312), certamente il più avanzato, nonostante
i molti limiti, che definiva riferimenti per l'esercizio della professione
della figura di cui trattasi.
A fronte di ciò si è da più parti
posto il problema di una sua reiterazione, si è sottolineata l'importanza di
un atto che ribadisca in maniera inequivocabile, pur limitatamente al comparto
della sanità, la presenza, l'esistenza stessa dell'educatore professionale.
In tale direzione grande rilievo
assume la definizione della "Legge di riforma delle professioni
infermieristiche, tecniche e della riabilitazione" (tra le quali, come
ricordato, figura l'educatore professionale), il cui testo è sottoposto al
necessario iter parlamentare. Tra le molteplici questioni che si sottolineano
in tale ipotesi: chiara definizione delle figure professionali come necessitanti
di precisi titoli, chiara definizione dell'iter formativo ad un livello
adeguato, processo di "sanatoria qualificata" in relazione alle
molteplici esperienze formative definitesi nel tempo, istituzione dei collegi
professionali.
Ciò non è affatto in contraddizione
con l'esigenza di un percorso mirato, specifico per la figura di educatore
professionale sulla base di quello realizzato per altre professionalità (ancora
una volta, ad esempio, gli assistenti sociali).
Il riordino della professione
dell'educatore professionale è infatti, sul piano della proposizione, realtà,
in quanto in data 26.5.1993 è stata presentata alla Camera dei deputati una
specifica proposta, definita anche in riferimento ad un articolato di merito
proposto dall'ambito sindacale.
Altre proposte sappiamo in procinto di essere presentate.
La proposta in oggetto consta di cinque articoli.
L'articolo 1 definisce il profilo
professionale dell'educatore professionale, l'ambito di intervento, i livelli
di responsabilità, la possibilità di esercitare la professione sia in forma
autonoma che in rapporto di lavoro subordinato.
L'articolo 2 fissa i requisiti per
l'esercizio della professione, individuandoli nel diploma universitario di
cui all'art. 2 della legge 19.11.90 n. 341.
Gli articoli 3 e 4 istituiscono
l'albo e l'ordine professionale degli educatori professionali dettando le
relative norme regolamentari.
L'articolo 5 fissa i termini per
l'equiparazione ai diplomi universitari degli attestati e/o diplomi rilasciati
da sedi formative regionali, comunali, del SSN o equiparate nonché i criteri di
iscrizione all'albo del personale che non possiede titoli professionali
specifici ma che opera nei servizi con funzioni riconducibili al profilo di
educatore professionale.
La proposta di legge in questione,
al pari di eventuali altre, sarà nel tempo sottoposta al previsto iter
parlamentare. Questi, in una prima fase, si svilupperà all'interno della
Commissione Affari sociali della Camera e Sanità del Senato e in un confronto
con le diverse realtà sociali e professionali interessate. Sarà quella
l'occasione per apportare, se del caso, modificazioni, integrazioni e
quant'altro funzionale ad una sempre maggiore rispondenza della stessa ai numerosi
problemi che si pongono.
Non è un percorso scontato,
tutt'altro, esplicite e forti contrarietà sono da mettere in preventivo.
Numerosi ed articolati, come
sottolineato, sono dunque i problemi che abbiamo di fronte nell'affrontare il
tema posto alla base di questa comunicazione, in particolare, relativamente
alle due figure prese in esame:
- l'insufficienza, l'eterogeneità
dei processi formativi rispetto al fabbisogno che si evidenzia nelle diverse
aree di intervento; :
- l'assenza di un riconoscimento a livello nazionale.
Il risultato dell'azione di noi
tutti, delle diverse realtà istituzionali e sociali, deve e può essere quindi
una scelta concreta ed unificante, sia di formazione che di definizione, una
valorizzazione ai diversi livelli.
Di ciò, da tempo, si avverte la
necessità.
(*) Università di Torino, Dipartimento
scienze sociali.
(1) Le ricerche in
questione sono: Indagine conoscitiva
sulle comunità alloggio per adolescenti site in Torino e gestite
dall'amministrazione comunale direttamente o per convenzione. Rapporto
conclusivo della ricerca, pp. 68 dattil.; P. Bastianoni, Chi vive in comunità? Un profilo dell'utenza,
Quaderni di Educare in comunità, n. 2, Dipartimento sicurezza sociale, Giunta
regionale della Regione Toscana, Coordinamento nazionale comunità per minori,
Firenze 1992, pp. 85.
(2) Gli atti sono
raccolti in "Attenti al lupo!
Un'occasione di riflessione sulla comunità alloggio per adolescenti e
preadolescenti”; Suppl. al n. 1, 1992 della rivista "Diapason",
pp. 46. Per una esperienza connessa, cfr. "Piccolo
è bello. Obiettivi, tecniche, problemi, nell'intervento professionale degli
educatori della comunità alloggio comunale di via Gottardo 275/5”; Città di
Torino, VI Circoscrizione, maggio 1991, pp. 64.
(3) Associazione
Coordinamento Nazionale delle Comunità di tipo familiare, Per il coordinamento delle comunità di tipo familiare, Dipartimento
sicurezza sociale della Regione Toscana, Firenze 1990.
(4) L'indagine
torinese ha intervistato 76 operatori, 39 di comunità pubbliche e 37 di
comunità convenzionate. Alcuni dati rilevanti (in % delle risposte):
|
Comunità pubbliche
convenzionate |
|
Operatori |
|
|
-
maschi |
72 |
40 |
-
fino a 25 anni |
20 |
46 |
-
vivono nella famiglia d’origine |
25 |
40 |
-
meno di 6 anni di lavoro |
41 |
67 |
-
non hanno titolo di studio specifico |
54 |
73 |
-
inquadrati stabili |
97 |
68 |
-
faranno l'operatore di comunità in futuro |
38 |
51 |
Condizioni di
lavoro |
|
- |
-
ritengono l'organico sufficiente |
27 |
74 |
-
hanno straordinario |
|
|
retribuito |
31 |
8 |
-
lamentano disturbi da lavoro |
26 |
5 |
-
ritengono buone le strutture |
20 |
70 |
Funzionamento e
clima |
|
|
-
buoni rapporti col vicinato |
51 |
75 |
-
collaborazione educativa con i servizi sociali |
79 |
46 |
-
supervisione |
41 |
73 |
-
ritengono che la comunità decida l'accettazione |
51 |
73 |
-
ritengono di perseguire il riavvicinamento alla |
|
|
famiglia
d'origine |
38 |
65 |
Utenti |
|
|
-
provenienza famiglie origine |
90 |
63 |
-
da altra comunità famiglia affido, istituto |
10 |
37 |
-
durata media di permanenza fino a 24 mesi |
100 |
62 |
-
operatori favorevoli a |
|
|
utenza
di più fasce d'età |
26 |
50 |
(5) Le 10 comunità sono situate in
prevalenza nel centro Italia (quattro nell'area di Firenze, 1 Ancona, 1 Roma) e
al nord (Torino, Genova, Cremona). Tre hanno utenza di prima infanzia fino a 6
anni; 7 accolgono preadolescenti e adolescenti. Tre sono a diretta gestione
pubblica, 7 convenzionate, il 95% dei soggetti è a carico pubblico (Comune,
Usi, Provincia). La ricerca - effettuata tra novembre 1990 e maggio 1991 - ha
riguardato 175 soggetti, di cui 70 presenti in comunità e 105 dimessi.
(6) Le destinazioni dopo le dimissioni sono:
|
passato |
futuro (ipotesi) |
-
vita autonoma |
4,8 |
7,2 |
-
alloggio apposito |
20,9 |
14,2 |
-
genitori |
35,4 |
35,8 |
-
parenti |
11,4 |
10,0 |
-
affidamento. |
16,1 |
8,6 |
-
adozione |
11,4 |
10,0 |
-
incerte |
- |
14,2 |
-
Soggetti |
105 |
70 |
(7) C. Avalle, P.
Bastianoni, R. Zanieri, I ragazzi
valutano la comunità, cicl., pp. 10. Rilevano il favore «per la possibilità
di aver usufruito dell'intervento di comunità anche dopo il compimento del 18°
anno di età potendo concludere gli studi avviati o l'iter funzionale
all'inserimento lavorativo» (p. 10).
(*) Federazione Italiana Lavoratori
Funzione Pubblica - CGIL Nazionale.
www.fondazionepromozionesociale.it