Prospettive assistenziali, n. 106, aprile-giugno 1994

 

 

L'ADOZIONE RIUSCITA DI UNA BAMBINA DIFFICILE

 

 

Paolo ed io ci siamo sposati nel 1975 con il desiderio di allargare subito la famiglia. Purtrop­po dopo tante delusioni abbiamo saputo che non avremmo potuto avere figli.

L'adozione ci è parsa la scelta più giusta, an­che perché ne avevamo deciso l'attuazione già da fidanzati. Sognavo un neonato da coccolare, crescere serenamente e facilmente.

Pensando di avere più probabilità, seguimmo il consiglio di un'amica presentando domanda di adozione non al Tribunale per i minorenni di Milano, da cui dipendiamo territorialmente, ma presso il Tribunale per i minorenni di un'altra città che aveva, notoriamente, fama di essere più snello burocraticamente. Questo fu un errore.

Infatti abbiamo atteso due anni inutilmente, venendo poi a sapere che la nostra domanda era stata archiviata in quanto privilegiavano coppie residenti in quel territorio.

Abbiamo quindi riproposto la domanda al Tri­bunale per i minorenni di Milano.

In questi due anni di attesa mi sono sentita, ancor più di prima, defraudata; mi sentivo diver­sa, quasi messa ai margini della società.

Mi domandavo, con rabbia, il perché io non dovessi avere un figlio, per quale motivo io non potessi avere la gioia, la felicità di stringere a me un bambino, un bambino piccolo.

Nel frattempo erano anche altre le domande che mi ponevo: perché desiderassi un figlio, perché era mio diritto, per riempire un vuoto af­fettivo che sentivo crescere dentro di me.

Erano domande a cui mi era difficile risponde­re; mio marito, invece, era più sicuro di me; non si poneva tutti questi problemi, aveva realizzato il concetto di "figlio" superando l'idea dell'età, del sesso, ecc. Era veramente più disponibile e aperto di me!

Per cercare una risposta a queste mie do­mande, che mi facevano soffrire, presi a fre­quentare delle famiglie adottive, convegni, sera­te in cui si trattava il tema dell'adozione. Dopo alcuni mesi in cui mi sono documentata, ho ri­flettuto su "che cosa" volessi, ho avuto la cer­tezza di ciò che volevo veramente. Avevo capito che era giusto dare affetto a qualunque bambi­no che ne avesse bisogno, indipendentemente dall'età, sesso o colore della pelle.

Eppure il mio cammino verso un'altra matura­zione doveva passare attraverso un'esperienza che mi aveva ulteriormente fatto riflettere. Una sera, infatti, invitati a casa di conoscenti, ci ven­ne presentato il loro bambino di circa cinque anni, adottato da pochi giorni e indiano. Ciò che mi sconvolse fu l'atteggiamento dei due genitori che lo presentavano come qualcosa di "specia­le" esibendolo come una rarità esotica!

Tutto questo ci fece riflettere ed insieme, Pao­lo ed io, decidemmo di rinunciare all'adozione internazionale temendo di poter avere un atteg­giamento simile. Ero arrivata alla conclusione che amare vuol dire dare disinteressatamente, cioè non "possedere" l'altro, ero quindi pronta ad accettare anche l'affido temporaneo.

Dopo vari colloqui, il Tribunale per i minorenni di Milano ci propose di essere la famiglia d'ap­poggio per i fine settimana e durante le vacanze di una bambina di circa sette anni, da tre giorni in istituto dopo essere stata tolta ad una madre affidataria, rivelatasi psicolabile ed estrema­mente disturbante, con cui aveva vissuto dopo essere stata per tre anni in istituto. La madre d'origine, infatti, non l'aveva abbandonata pur occupandosi ben poco di lei. Venne da noi e ruppe tutto quello che era possibile rompere, in un attimo distrusse tutti i fiori, le tende; era riu­scita persino in un breve lasso di tempo ad im­brattare i muri. Si attaccò subito a mio marito, vi­veva praticamente fra le sue braccia.

Esprimeva ed ha continuato per anni ad espri­mere una grande aggressività, quasi un odio ver­so di me. Infatti non potevo avvicinarmi a lei più di tanto, non potevo assolutamente parlarle più di tanto. Anche in occasione di una sua malattia non potevo fare nulla, accettava le medicine solo da mio marito. D'altra parte, non poteva essere di­versamente: le figure femminili l'avevano sempre tradita, l'avevano fatta soffrire e quindi esprimeva nei miei confronti paura e sfiducia verso la figura materna. Comunque era contenta di stare con noi e il rientro in istituto il lunedì mattina, diventava sempre più doloroso per lei, anche per noi natu­ralmente, ma per lei soprattutto.

Trascorsi circa otto mesi, la sua situazione le­gale e familiare, che era estremamente ingarbu­gliata, si chiarì e Sara ci fu affidata, se pure a termine, ma almeno a tempo pieno; naturalmen­te in questi otto mesi i miei rapporti con lei, pur essendo sempre molto difficili, piano piano an­davano migliorando. Sara mi metteva continua­mente alla prova: le sue giornate le passava praticamente a provocarmi.

Iniziava al mattino dicendo che non le piaceva stare nella nostra casa, che faceva tutto schifo, che voleva tornare in istituto; a quel punto io le dicevo che se il suo desiderio era di tornare in istituto, sia pur con enorme sofferenza, l'avrei portata. Quindi preparavo la sua valigetta ma, arrivati alla porta d'ingresso, mi guardava dicen­do: «Ma tu sei matta che io ritorni in istituto». Al­lora rientravamo, risistemavo le sue cose, torna­va tutto tranquillo per un'ora, due ore e poi si ri­presentava di nuovo la stessa situazione; quindi alla sera la valigia era stata preparata e disfatta almeno quattro o cinque volte.

A volte mi diceva: «Sai se io voglio ti posso far impazzire prima di sera». E a volte riusciva dav­vero a portarmi all'esasperazione. Tutte queste sue manifestazioni erano dettate dalle sue insi­curezze e dalle sue paure di essere di nuovo ri­fiutata, di non essere di nuovo accettata.

Circa dopo otto mesi (ormai Sara era con noi a tempo pieno), un giorno, all'improvviso, ha de­ciso di chiamarmi mamma. Da un momento all'altro, un minuto prima mi aveva chiamato Lei­la, subito dopo mi ha chiamata mamma! In quel momento lei aveva capito che poteva fidarsi di me; in pratica io ero stata adottata da lei: ero di­ventata la sua mamma.

Subito dopo questo episodio, Sara venne di­chiarata abbandonata e così potemmo trasfor­mare l'affido educativo in affido preadottivo.

I suoi atteggiamenti nei nostri confronti erano sempre molto bruschi, molto aggressivi anche se poi, alla sera, quando la si metteva a letto passava molto tempo a succhiare il pollice di mio marito che, inginocchiato vicino al suo letto, la rassicurava e la tranquillizzava. A quell'epoca io non potevo ancora stare molto vicino a lei; quindi, a debita distanza, assistevo a questo rito con tanta voglia di essere al posto di mio marito.

Per molto tempo, Sara ha manifestato questa sua insicurezza, queste sue paure. Anche a scuola esprimeva una grossissima aggressività. Un episodio significativo avvenne quando, in se­conda elementare, la maestra decise di far por­tare dai bambini una loro fotografia da neonato. Non sapendo nulla, il giorno dopo, andai, come al solito, a prendere Sara all'uscita di scuola e trovai la maestra disperata in quanto Sara aveva picchiato tutti i bambini della sua classe. A que­sto punto salii in macchina con la bambina, e le chiesi che cosa fosse successo.

Sara scoppiò in un pianto dirotto dicendomi che lei non aveva fotografie da portare e quindi aveva pensato di punire i compagni che l'aveva­no fatta sentire diversa.

In un primo momento pensai di dare a Sara una fotografia di mia nipote ma, riflettendo me­glio, scartai questa ipotesi in quanto non mi pia­ceva impostare il discorso della sua nascita con bugie. Ricorsi allora all'aiuto dello psicologo che mi consigliò di chiedere il permesso alla mae­stra di andare in classe e spiegare ai bambini la storia della nascita di Sara. Così feci, andai in classe e, con Sara seduta sulle mie ginocchia, parlai della sua storia. Sara uscì da questa esperienza più forte e, devo dire, quasi orgoglio­sa di essere stata adottata.

Ci sono stati altri momenti di difficoltà, tantis­simi. Sara era una bambina incapace di piange­re, le sue emozioni le teneva nascoste, era molto dura, non piangeva mai perché aveva paura di essere picchiata, aveva paura della violenza; probabilmente è stata una bambina che ha subì­to questo tipo di sofferenze.

Ricordo il giorno in cui, disobbedendo a Pao­lo, aveva attraversato la strada, pericolosissima, di fronte alla nostra casa. Paolo, spaventato, la ricondusse a casa sgridandola e la mandò nella sua cameretta. Una volta chiusa la porta, sen­timmo un lamento sommesso e poi... "finalmen­te" Sara scoppiò in un pianto dirotto: si sentiva libera di esprimere i suoi sentimenti, libera di essere una vera bambina. Quello fu un momento indimenticabile della nostra vita e quasi buffo per qualcuno che avesse assistito: Sara sin­ghiozzava e al di là di una porta chiusa due adulti si abbracciavano e piangevano di felicità.

La storia di Sara è una storia fatta di momenti difficili, ma anche di momenti bellissimi. Ora Sa­ra ha quasi 18 anni ed è nostra figlia a tutti gli effetti e in tutti i sensi: mi rendo conto quanto sia stata bella, ricca e formativa questa mia espe­rienza, forse perché è stata dura, durissima, co­stellata da molte mie crisi. Quante notti sveglia a pensare: «Ma perché continua a rifiutarmi? For­se non mi vuole? Forse non riesce ad amarmi? Forse non le sono simpatica?».

In quei momenti il sostegno e l'amore di Paolo "per le sue ragazze" è stato fondamentale. Quante verifiche fatte insieme!

Quando penso al suo primo sguardo, appena arrivata da noi, uno sguardo duro, sulla difensi­va, pieno di rancori, di paure e lo raffronto a quello di oggi così dolce e sereno, mi sento ri­pagata di tutto e poco importa se ancora oggi sia un po' spigolosa e, apparentemente, non molto affettuosa nei nostri confronti. Quando la sento cantare, ridere, soprattutto quando la sen­to chiamarmi con un tono pieno di affetto e qui devo confessare che a volte fingo di non sentirla per farmi chiamare nuovamente, perché mi ren­do conto di quanto amore e di cammino percor­so insieme c'è in quel "mamma". Non rimpiango affatto di aver perso la sua infanzia; anzi penso che far da genitore ad un bambino già grande, che ha un suo passato e una sua sofferenza, ri­chieda certamente molta più fatica. Però moltis­sime sono le soddisfazioni in quanto considero che in una esperienza di questo tipo niente sia scontato, tutto sia frutto di quotidiane conquiste; ogni giorno, io conquisto il mio desiderio, la mia voglia e la mia felicità di essere mamma.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it