Paolo ed io ci siamo sposati nel 1975 con il
desiderio di allargare subito la famiglia. Purtroppo dopo tante delusioni
abbiamo saputo che non avremmo potuto avere figli.
L'adozione ci è parsa la scelta più giusta, anche
perché ne avevamo deciso l'attuazione già da fidanzati. Sognavo un neonato da
coccolare, crescere serenamente e facilmente.
Pensando di avere più probabilità, seguimmo il
consiglio di un'amica presentando domanda di adozione non al Tribunale per i
minorenni di Milano, da cui dipendiamo territorialmente, ma presso il
Tribunale per i minorenni di un'altra città che aveva, notoriamente, fama di
essere più snello burocraticamente. Questo fu un errore.
Infatti abbiamo atteso due anni inutilmente, venendo
poi a sapere che la nostra domanda era stata archiviata in quanto
privilegiavano coppie residenti in quel territorio.
Abbiamo
quindi riproposto la domanda al Tribunale per i minorenni di Milano.
In questi due anni di attesa mi sono sentita, ancor più
di prima, defraudata; mi sentivo diversa, quasi messa ai margini della
società.
Mi domandavo, con rabbia, il perché io non dovessi
avere un figlio, per quale motivo io non potessi avere la gioia, la felicità di
stringere a me un bambino, un bambino piccolo.
Nel frattempo erano anche altre le domande che mi
ponevo: perché desiderassi un figlio, perché era mio diritto, per riempire un
vuoto affettivo che sentivo crescere dentro di me.
Erano domande a cui mi era difficile rispondere; mio
marito, invece, era più sicuro di me; non si poneva tutti questi problemi,
aveva realizzato il concetto di "figlio" superando l'idea dell'età,
del sesso, ecc. Era veramente più disponibile e aperto di me!
Per cercare una risposta a queste mie domande, che
mi facevano soffrire, presi a frequentare delle famiglie adottive, convegni,
serate in cui si trattava il tema dell'adozione. Dopo alcuni mesi in cui mi
sono documentata, ho riflettuto su "che cosa" volessi, ho avuto la
certezza di ciò che volevo veramente. Avevo capito che era giusto dare affetto
a qualunque bambino che ne avesse bisogno, indipendentemente dall'età, sesso o
colore della pelle.
Eppure il mio cammino verso un'altra maturazione
doveva passare attraverso un'esperienza che mi aveva ulteriormente fatto riflettere.
Una sera, infatti, invitati a casa di conoscenti, ci venne presentato il loro
bambino di circa cinque anni, adottato da pochi giorni e indiano. Ciò che mi
sconvolse fu l'atteggiamento dei due genitori che lo presentavano come qualcosa
di "speciale" esibendolo come una rarità esotica!
Tutto questo ci fece riflettere ed insieme, Paolo ed
io, decidemmo di rinunciare all'adozione internazionale temendo di poter avere
un atteggiamento simile. Ero arrivata alla conclusione che amare vuol dire
dare disinteressatamente, cioè non "possedere" l'altro, ero quindi
pronta ad accettare anche l'affido temporaneo.
Dopo vari colloqui, il Tribunale per i minorenni di
Milano ci propose di essere la famiglia d'appoggio per i fine settimana e
durante le vacanze di una bambina di circa sette anni, da tre giorni in
istituto dopo essere stata tolta ad una madre affidataria, rivelatasi
psicolabile ed estremamente disturbante, con cui aveva vissuto dopo essere
stata per tre anni in istituto. La madre d'origine, infatti, non l'aveva
abbandonata pur occupandosi ben poco di lei. Venne da noi e ruppe tutto quello
che era possibile rompere, in un attimo distrusse tutti i fiori, le tende; era
riuscita persino in un breve lasso di tempo ad imbrattare i muri. Si attaccò
subito a mio marito, viveva praticamente fra le sue braccia.
Esprimeva ed ha continuato per anni ad esprimere una
grande aggressività, quasi un odio verso di me. Infatti non potevo avvicinarmi
a lei più di tanto, non potevo assolutamente parlarle più di tanto. Anche in
occasione di una sua malattia non potevo fare nulla, accettava le medicine solo
da mio marito. D'altra parte, non poteva essere diversamente: le figure
femminili l'avevano sempre tradita, l'avevano fatta soffrire e quindi esprimeva
nei miei confronti paura e sfiducia verso la figura materna. Comunque era
contenta di stare con noi e il rientro in istituto il lunedì mattina, diventava
sempre più doloroso per lei, anche per noi naturalmente, ma per lei
soprattutto.
Trascorsi circa otto mesi, la sua situazione legale
e familiare, che era estremamente ingarbugliata, si chiarì e Sara ci fu
affidata, se pure a termine, ma almeno a tempo pieno; naturalmente in questi
otto mesi i miei rapporti con lei, pur essendo sempre molto difficili, piano
piano andavano migliorando. Sara mi metteva continuamente alla prova: le sue
giornate le passava praticamente a provocarmi.
Iniziava al mattino dicendo che non le piaceva stare
nella nostra casa, che faceva tutto schifo, che voleva tornare in istituto; a
quel punto io le dicevo che se il suo desiderio era di tornare in istituto, sia
pur con enorme sofferenza, l'avrei portata. Quindi preparavo la sua valigetta
ma, arrivati alla porta d'ingresso, mi guardava dicendo: «Ma tu sei matta che
io ritorni in istituto». Allora rientravamo, risistemavo le sue cose, tornava
tutto tranquillo per un'ora, due ore e poi si ripresentava di nuovo la stessa
situazione; quindi alla sera la valigia era stata preparata e disfatta almeno
quattro o cinque volte.
A volte mi diceva: «Sai se io voglio ti posso far
impazzire prima di sera». E a volte riusciva davvero a portarmi
all'esasperazione. Tutte queste sue manifestazioni erano dettate dalle sue insicurezze
e dalle sue paure di essere di nuovo rifiutata, di non essere di nuovo
accettata.
Circa dopo otto mesi (ormai Sara era con noi a tempo
pieno), un giorno, all'improvviso, ha deciso di chiamarmi mamma. Da un momento
all'altro, un minuto prima mi aveva chiamato Leila, subito dopo mi ha chiamata
mamma! In quel momento lei aveva capito che poteva fidarsi di me; in pratica io
ero stata adottata da lei: ero diventata la sua mamma.
Subito dopo questo episodio, Sara venne dichiarata
abbandonata e così potemmo trasformare l'affido educativo in affido
preadottivo.
I suoi atteggiamenti nei nostri confronti erano
sempre molto bruschi, molto aggressivi anche se poi, alla sera, quando la si
metteva a letto passava molto tempo a succhiare il pollice di mio marito che,
inginocchiato vicino al suo letto, la rassicurava e la tranquillizzava. A quell'epoca
io non potevo ancora stare molto vicino a lei; quindi, a debita distanza,
assistevo a questo rito con tanta voglia di essere al posto di mio marito.
Per molto tempo, Sara ha manifestato questa sua
insicurezza, queste sue paure. Anche a scuola esprimeva una grossissima
aggressività. Un episodio significativo avvenne quando, in seconda elementare,
la maestra decise di far portare dai bambini una loro fotografia da neonato.
Non sapendo nulla, il giorno dopo, andai, come al solito, a prendere Sara
all'uscita di scuola e trovai la maestra disperata in quanto Sara aveva
picchiato tutti i bambini della sua classe. A questo punto salii in macchina
con la bambina, e le chiesi che cosa fosse successo.
Sara scoppiò in un pianto dirotto dicendomi che lei
non aveva fotografie da portare e quindi aveva pensato di punire i compagni che
l'avevano fatta sentire diversa.
In un primo momento pensai di dare a Sara una
fotografia di mia nipote ma, riflettendo meglio, scartai questa ipotesi in
quanto non mi piaceva impostare il discorso della sua nascita con bugie.
Ricorsi allora all'aiuto dello psicologo che mi consigliò di chiedere il
permesso alla maestra di andare in classe e spiegare ai bambini la storia
della nascita di Sara. Così feci, andai in classe e, con Sara seduta sulle mie
ginocchia, parlai della sua storia. Sara uscì da questa esperienza più forte e,
devo dire, quasi orgogliosa di essere stata adottata.
Ci sono stati altri momenti di difficoltà, tantissimi.
Sara era una bambina incapace di piangere, le sue emozioni le teneva nascoste,
era molto dura, non piangeva mai perché aveva paura di essere picchiata, aveva
paura della violenza; probabilmente è stata una bambina che ha subìto questo
tipo di sofferenze.
Ricordo il giorno in cui, disobbedendo a Paolo,
aveva attraversato la strada, pericolosissima, di fronte alla nostra casa.
Paolo, spaventato, la ricondusse a casa sgridandola e la mandò nella sua
cameretta. Una volta chiusa la porta, sentimmo un lamento sommesso e poi...
"finalmente" Sara scoppiò in un pianto dirotto: si sentiva libera di
esprimere i suoi sentimenti, libera di essere una vera bambina. Quello fu un
momento indimenticabile della nostra vita e quasi buffo per qualcuno che avesse
assistito: Sara singhiozzava e al di là di una porta chiusa due adulti si
abbracciavano e piangevano di felicità.
La storia di Sara è una storia fatta di momenti
difficili, ma anche di momenti bellissimi. Ora Sara ha quasi 18 anni ed è
nostra figlia a tutti gli effetti e in tutti i sensi: mi rendo conto quanto sia
stata bella, ricca e formativa questa mia esperienza, forse perché è stata
dura, durissima, costellata da molte mie crisi. Quante notti sveglia a
pensare: «Ma perché continua a rifiutarmi? Forse non mi vuole? Forse non
riesce ad amarmi? Forse non le sono simpatica?».
In quei momenti il sostegno e l'amore di Paolo
"per le sue ragazze" è stato fondamentale. Quante verifiche fatte
insieme!
Quando penso al suo primo sguardo, appena arrivata da
noi, uno sguardo duro, sulla difensiva, pieno di rancori, di paure e lo
raffronto a quello di oggi così dolce e sereno, mi sento ripagata di tutto e
poco importa se ancora oggi sia un po' spigolosa e, apparentemente, non molto
affettuosa nei nostri confronti. Quando la sento cantare, ridere, soprattutto
quando la sento chiamarmi con un tono pieno di affetto e qui devo confessare
che a volte fingo di non sentirla per farmi chiamare nuovamente, perché mi rendo
conto di quanto amore e di cammino percorso insieme c'è in quel
"mamma". Non rimpiango affatto di aver perso la sua infanzia; anzi
penso che far da genitore ad un bambino già grande, che ha un suo passato e una
sua sofferenza, richieda certamente molta più fatica. Però moltissime sono le
soddisfazioni in quanto considero che in una esperienza di questo tipo niente
sia scontato, tutto sia frutto di quotidiane conquiste; ogni giorno, io
conquisto il mio desiderio, la mia voglia e la mia felicità di essere mamma.
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