Libri
MASSIMO
DOGLIOTTI, Doveri familiari e obbligazione
alimentare, Giuffré Editore, Milano, 1994, pp. 232, L. 32.000.
Massimo Dogliotti, apprezzatissimo collaboratore di Prospettive assistenziali (1), nel
volume "Doveri familiari e obbligazione alimentare" approfondisce i
rapporti fra solidarietà familiare e solidarietà sociale, chiarisce i
significati di "alimenti", "mantenimento" e
"contribuzione", sviluppa il tema del rapporto fra diritto agli
alimenti e assistenza sociale partendo dalle norme del diritto romano ed
analizza le esperienze delle epoche successive: cristianesimo, età medioevale,
epoca moderna con particolare riguardo ai periodi dello sviluppo industriale,
del liberalismo, del corporativismo fascista per arrivare alle vigenti norme
costituzionali.
Circa i rapporti fra alimenti e assistenza l'Autore
rileva che nonostante «lo sviluppo di
sicurezza sociale per il soddisfacimento dei bisogni dei cittadini (e
soprattutto di quelli più poveri), rimane tuttavia assai diffusa (soprattutto
nell'ambito della dottrina civilistica) l'opinione che non sussista un obbligo
primario dello Stato quantomeno al sostentamento dei cittadini bisognosi».
Dopo aver ricordato che quasi sempre gli enti
pubblici si rivolgono ai parenti «chiedendo loro un contributo per il pagamento
delle rette relative al ricoverato», Dogliotti afferma che la prassi è
chiaramente illegittima e diventa «ancor
più intollerabile quando la richiesta di contributo si rivolge ai parenti di
soggetti cronici non autosufficienti, i quali sono sicuramente
"malati" (la malattia non è certo tale solo nella fase acuta), e come
tali avrebbero diritto a prestazioni sanitarie e invece, dopo dimissioni spesso
precipitose dagli ospedali, sono rifiutati dal servizio sanitario, e ricevono
(dopo l'effettuazione di indagini sociali, che spesso comportano notevoli
discriminazioni tra assistito e assistito) prestazioni inadeguate da parte di
strutture (case protette, cronicari) appartenenti al sistema assistenziale:
strutture per la cui esistenza la legge non definisce standard minimi, con un
personale per il quale non si prevedono abilitazioni o titoli specifici né un
preciso mansionario».
Spesso gli enti pubblici, di fronte all'impossibilità
giuridica di imporre il pagamento di contributi ai parenti, compresi quelli
tenuti agli alimenti, magari sotto la minaccia di non ammissione o dimissione
del ricoverato impongono la stipula di veri e propri contratti. «A questo punto - rileva l'Autore - la facoltà di ottenere il pagamento trova la
sua fonte nel contratto, e non già nell'obbligo alimentare del parente: non
rileva minimamente la qualità del figlio, fratello, ecc. dell'assistito,
anche un estraneo potrebbe impegnarsi al pagamento». Secondo Massimo Dogliotti
sussistono «gravi dubbi, nella specie, sulla validità del contratto. Si
potrebbe ipotizzare il vizio di violenza (se l'ente avesse condizionato il
ricovero all'impegno finanziario del parente)».
Il contratto può essere disdetto, ma «sembra decisiva - sostiene l'Autore - per sostenere l'invalidità della
convenzione, l'osservazione che la prestazione è dovuta, in virtù di un obbligo
istituzionale dello Stato, e non può trovare la sua fonte in un accordo
jure privatorum».
Il volume è un importantissimo contributo per
l'affermazione dei diritti degli assistiti e per sconfiggere le posizioni degli
enti pubblici che, approfittando della non conoscenza delle leggi da parte dei
cittadini (e, purtroppo, spesso anche da parte di associazioni), impongono il
pagamento di contributi - a volte consistenti in centinaia di migliaia di lire
al mese - non previsti dalle leggi vigenti.
MARIA
ROSA GHERARDINI - MAURO POLLONI, Voglio
fare il frate o il colonnello, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1992, pp. 184,
L. 20.000.
II titolo è provocatorio. Infatti, gli Autori vogliono
rompere con la cultura e l'atteggiamento psicologico comune che considerano l'handicappato
come un soggetto non inseribile nel lavoro, inidoneo a svolgere professioni e
incapace di assumere un ruolo sociale.
Attraverso il racconto di esperienze direttamente
vissute, essi forniscono un quadro sul panorama legislativo e culturale e sui
nodi che impediscono l'inserimento lavorativo, primo fra tutti il mancato
riconoscimento della capacità lavorativa che le persone handicappate possono
esprimere, raggiungendo una piena o ridotta produttività a seconda della loro
autonomia, nelle più diverse professioni o mestieri.
Tra tutti, naturalmente, chi incontra maggiori
ostacoli è l'handicappato psichico, ed è sulle esperienze con questi soggetti
che si snodano le principali sezioni del volume, che correttamente pone
l'accento più su questi soggetti, che sugli handicappati fisici e/o sensoriali,
comunque in grado di sostenere i propri diritti.
Ma anche Gherardini e Polloni, purtroppo, non
distinguono tra chi ha un handicap intellettivo (ritardo mentale) e chi ha una
malattia mentale.
Così, anche l'interessante capitolo sulla formazione
professionale, che si sforza di indicare e suggerire proposte formative più
elastiche, a misura proprio delle diverse caratteristiche degli allievi
handicappati, lascia confusi, poiché non è chiaro a quali soggetti sono
proponibili le esperienze raccontate.
Il libro, di facile lettura, è utile a familiari e diretti
interessati, operatori, insegnanti di sostegno, responsabili della
programmazione nel settore della formazione professionale e del lavoro per
l'handicap, volontari e associazioni.
AA.VV.,
Handicap: tra bisogni e risposte - Dalla
cultura dell'inserimento a quella dell'integrazione, Edizioni Gruppo
Solidarietà, Moie di Maiolati, 1993, pp. 112, L. 15.000.
Emerge un panorama alquanto problematico dalla
lettura degli interventi inseriti in questo volume, che raccoglie le relazioni
tenute nel corso "Handicap tra
bisogni e risposte: dalla cultura dell'inserimento a quella
dell'integrazione"; promosso dal Centro Studi e Documentazione del
Gruppo Solidarietà, svoltosi a Jesi nel settembre-novembre 1992.
Tutti gli interventi, infatti, salvo quello di A.
Saccardo dell'USL VI di Thiene, teorizzano molto sulla problematica
"handicap", ma non offrono esperienze concrete con cui sia possibile
confrontare l'effettiva messa in pratica della teoria, in modo che si possa
valutarne la rispondenza con i bisogni delle persone handicappate, che ne sono
destinatarie.
La carenza più evidente è la mancanza di chiarezza
circa i diversi interventi che sono richiesti a seconda dell'autonomia che la
persona handicappata è in grado di esprimere. Ne consegue che non è esplicito
qual è il criterio in base al quale un handicappato ha il diritto di essere
assistito o invece deve essere avviato a percorsi formativi e,
successivamente, al lavoro.
Il
punto più dolente, comunque, è l'assenza del diretto interessato.
Si parla molto dei servizi, degli operatori, delle
metodologie, ma non si fa alcun cenno ai diritti delle persone handicappate,
premessa indispensabile per una impostazione corretta degli interventi che
devono tenere conto dei bisogni delle persone e dei riferimenti istituzionali
dai quali far dipendere gli interventi occorrenti. Due esempi a titolo
esemplificativo.
Nel suo intervento G. Zama, dell'USL n. 37 di Faenza,
descrive il centro educativo come struttura intermedia, in quanto dallo stesso
si esce per raggiunti limiti di età. In particolare, secondo Zama, il centro
educativo è «una struttura aperta e
questa è la caratteristica peculiare per dare un senso alla parola
integrazione».
Francamente non sono pochi gli interrogativi che
dobbiamo porre. Chi sono i soggetti handicappati che hanno diritto al centro
diurno? Perché è una struttura intermedia se si tratta di intervento
assistenziale rivolto a quanti non possono essere avviati al lavoro, perché
gravissimi? E quando sono dimessi dal centro, dove vanno? Qual è il limite
d'età? Chi lo stabilisce?
Secondo esempio. L'intervento di A. Saccardo
presenta in modo semplice e chiaro la metodologia adottata dall'USL VI di
Thiene per favorire l'inserimento lavorativo delle persone handicappate,
senza peraltro trascurare l'importanza di una politica del lavoro e di
coordinamento tra i diversi soggetti istituzionali: il sindacato, le imprese,
le forze del volontariato.
Ma anche in questo intervento non si riesce a sapere
quando, nella vita della persona handicappata interviene il servizio di
inserimento lavorativo (SIL), quali sono i soggetti che hanno diritto a questo
intervento, se il servizio è sostitutivo della formazione professionale, se la
formazione stessa è prevista per gli handicappati intellettivi, se la sua
strutturazione è adeguata alle esigenze.
Mentre è positiva l'iniziativa del Gruppo di Solidarietà
di far riflettere sui bisogni dell'handicap, non possiamo non rilevare quanta
"cultura" ci sia ancora da fare anche tra operatori che sono
impegnati da anni in questo campo, affinché ogni intervento, prima di essere
ipotizzato 0 sperimentato, parta dal riconoscimento delle diverse tipologie di
handicap che, a seconda della loro autonomia, possono e hanno diritto a interventi
diversificati, ma precisi, diretti a rispondere e a soddisfare bisogni
altrettanto precisi.
MARIA
NICOLAI PAYNTER, Perché verità sia libera
- Memorie, confessioni, riflessioni e itinerario poetico di David Maria
Turoldo, Rizzoli, Milano, 1994, pp. 239, L. 26.000.
Il libro è un'approfondita meditazione e riflessione
sull'itinerario di Padre David Maria Turoldo e la puntuale e umanissima
registrazione delle parole che quest'uomo straordinario affidò all'Autrice
quando la sua esperienza terrena stava volgendo al termine.
Un'esistenza segnata profondamente dall'impegno svolto
a fianco dei deboli e degli oppressi a prezzo di violenti attacchi personali e
dell'ostracismo di alcuni esponenti, soprattutto di alto livello, della Chiesa
cattolica.
Fra le numerose affermazioni di Padre Turoldo, ci
hanno particolarmente colpito le seguenti:
- «In fatto di
carità, anche i monsignori romani sono sempre abbastanza disposti: a livello di
elemosina la carità non crea problemi. È a livello di giustizia che cominciano
i guai» (pag. 107);
- «La Chiesa
finora non ha mai canonizzato i santi della giustizia, preferendo in assoluto
quelli della carità» (pag. 121);
- «Nel codice
di diritto canonico non c'è mai stato - e non c'è - un posto se non marginale
per i poveri: i poveri, nel diritto, esistono soltanto come "oggetti"
di elemosina» (pag. 121).
GIOVANNA
ROSSI, La famiglia multidimensionale,
Vita e Pensiero, Milano, 1990, pp. 237, L. 26.000.
II volume di G. Rossi, che nell'ambito del dipartimento
di sociologia dell'Università cattolica da molti anni si occupa dei problemi di
politiche sociali a livello teorico ed empirico, sulla scorta di numerose
ricerche, ricostruisce il percorso della famiglia negli ultimi 20 anni e ne
mette a fuoco i principali mutamenti che si sono verificati in essa e nei suoi
rapporti con il contesto socio-economico.
Le
nuove tipologie della famiglia multidimensionale sono individuate come segue:
a) quelle che «si fanno carico». Ad esempio, le
famiglie con anziani, con minori, con malati e con portatori di handicap;
b) la «famiglia multigenerazionale» caratterizzata
da nuclei in cui sono presenti fino a quattro generazioni e in cui si
evidenziano intrecci relazionali complessi. Altra nota distintiva è la sua
spinta all'autonomia. Occorre, pertanto, andare oltre la semplice coabitazione
e considerare «come più nuclei familiari,
pur non coabitando, spesso tessono interrelazioni strettissime, formando delle
reti informali di mutuo aiuto»;
c) la "famiglia prolungata", quella in cui
si registra «una certa permanenza
prolungata dei figli oltre la prima giovinezza in famiglia».
Tuttavia, le ricerche, precisa l'Autrice «hanno messo in luce come i genitori e i
figli non desiderino per lo più convivere, ma preferiscano avere un rapporto
di intimità a distanza, che salvaguardi proprio questi reciproci bisogni di
dipendenza e autonomia».
I successivi spunti di riflessione offerti dal libro
di G. Rossi sono estremamente preziosi per i lettori che vogliono conoscere in
profondità le dinamiche dei rapporti familiari, anche al fine di ricavarne
documentate indicazioni prospettiche.
MICHELE
LA ROSA - WALTHER ORSI - SEBASTIANO PORCU, Anziani - Salute - Ospedale - I "nodi" di un rapporto ed il
ricovero "improprio" in una indagine sociologica nella realtà bolognese,
Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 223, L. 25.000.
II volume presenta i risultati di una ricerca sociologica,
promossa dall'USL 29-Bologna Est, rivolta alle persone di età superiore ai 65
anni che nei mesi di settembre e ottobre 1988 sono stati curati presso
l'Ospedale Bellaria del capoluogo emiliano.
La rilevazione ha riguardato i pazienti anziani
ricoverati in sei reparti: medicina generale I e lI, pneumologia,
neurochirurgia, gastroenterologia, fisiatria ed ha risposto a due esigenze:
cogliere la distribuzione temporale dei ricoveri degli anziani nel corso dell'anno
e ricostruire la tipologia della popolazione anziana ospedalizzata al fine di
individuarne le principali caratteristiche in vista delle attività di ricerca
sul carattere proprio 0 incongruo del ricovero.
Dall'indagine emerge che «gli anziani ricoverati
presentano una patologia multipla». Le malattie più frequenti sono le seguenti:
«Artrosi (43,8%), ipertensione arteriosa (37,8%), bronchite cronica (22,2%),
cardiopatie ischemiche (20,7%), altre malattie cardiache (23,7%), emorroidi e
vene varicose (17,8%), enfisema ed insufficienza respiratoria (17%), paresi
(17%), tumore (15,5%)».
Per
quanto riguarda le cause del ricovero sono segnalate:
-
«l'esigenza di una maggiore disponibilità
di riabilitazione fisiatrica nel territorio»;
- le gravi carenze di interventi domiciliari e in
particolare «l'impossibilità di un
accesso giornaliero da parte del medico di base presso il paziente anziano
bisognoso di terapie mediche».
L'indagine sui ricoveri impropri e incongrui è stata
effettuata «con testimoni significativi
non solo inerenti l'istituzione ospedaliera ma anche i servizi territoriali e
le realtà socio-sanitarie della USL nel suo complesso. Oltre ai medici ospedalieri,
sono stati così coinvolti caposala, medici di base, geriatri, medici del pronto
soccorso, assistenti domiciliari, assistenti sanitari, assistenti sociali di
quartiere e di ospedale, la realtà del volontariato, ivi compresa quella
parrocchiale».
I ricercatori, dunque, sono partiti dal convincimento
che gli operatori ed il volontariato siano fedeli interpreti delle esigenze
degli anziani ricoverati. Al riguardo, abbiamo forti dubbi e riteniamo che
sarebbero necessarie - finalmente - ricerche realizzate interpellando
l'utenza.
www.fondazionepromozionesociale.it