Prospettive assistenziali, n. 107, luglio-settembre 1994

 

 

Libri

 

 

MASSIMO DOGLIOTTI, Doveri familiari e obbligazione alimentare, Giuffré Editore, Milano, 1994, pp. 232, L. 32.000.

 

Massimo Dogliotti, apprezzatissimo collaboratore di Prospettive assistenziali (1), nel volume "Doveri familiari e obbligazione alimentare" approfondisce i rapporti fra solidarietà familiare e solidarietà sociale, chiarisce i significati di "ali­menti", "mantenimento" e "contribuzione", svi­luppa il tema del rapporto fra diritto agli alimenti e assistenza sociale partendo dalle norme del diritto romano ed analizza le esperienze delle epoche successive: cristianesimo, età medioe­vale, epoca moderna con particolare riguardo ai periodi dello sviluppo industriale, del liberali­smo, del corporativismo fascista per arrivare al­le vigenti norme costituzionali.

Circa i rapporti fra alimenti e assistenza l'Au­tore rileva che nonostante «lo sviluppo di sicu­rezza sociale per il soddisfacimento dei bisogni dei cittadini (e soprattutto di quelli più poveri), ri­mane tuttavia assai diffusa (soprattutto nell'ambi­to della dottrina civilistica) l'opinione che non sussista un obbligo primario dello Stato quanto­meno al sostentamento dei cittadini bisognosi».

Dopo aver ricordato che quasi sempre gli enti pubblici si rivolgono ai parenti «chiedendo loro un contributo per il pagamento delle rette relative al ricoverato», Dogliotti afferma che la prassi è chiaramente illegittima e diventa «ancor più in­tollerabile quando la richiesta di contributo si ri­volge ai parenti di soggetti cronici non autosuffi­cienti, i quali sono sicuramente "malati" (la ma­lattia non è certo tale solo nella fase acuta), e co­me tali avrebbero diritto a prestazioni sanitarie e invece, dopo dimissioni spesso precipitose dagli ospedali, sono rifiutati dal servizio sanitario, e ri­cevono (dopo l'effettuazione di indagini sociali, che spesso comportano notevoli discriminazioni tra assistito e assistito) prestazioni inadeguate da parte di strutture (case protette, cronicari) appar­tenenti al sistema assistenziale: strutture per la cui esistenza la legge non definisce standard mi­nimi, con un personale per il quale non si preve­dono abilitazioni o titoli specifici né un preciso mansionario».

Spesso gli enti pubblici, di fronte all'impossi­bilità giuridica di imporre il pagamento di contri­buti ai parenti, compresi quelli tenuti agli alimen­ti, magari sotto la minaccia di non ammissione o dimissione del ricoverato impongono la stipula di veri e propri contratti. «A questo punto - rileva l'Autore - la facoltà di ottenere il pagamento tro­va la sua fonte nel contratto, e non già nell'obbli­go alimentare del parente: non rileva minima­mente la qualità del figlio, fratello, ecc. dell'assi­stito, anche un estraneo potrebbe impegnarsi al pagamento». Secondo Massimo Dogliotti sussistono «gravi dubbi, nella specie, sulla validità del contratto. Si potrebbe ipotizzare il vizio di violenza (se l'ente avesse condizionato il ricovero all'impegno finanziario del parente)».

Il contratto può essere disdetto, ma «sembra decisiva - sostiene l'Autore - per sostenere l'in­validità della convenzione, l'osservazione che la prestazione è dovuta, in virtù di un obbligo istitu­zionale dello Stato, e non può trovare la sua fonte in un accordo jure privatorum».

Il volume è un importantissimo contributo per l'affermazione dei diritti degli assistiti e per sconfiggere le posizioni degli enti pubblici che, approfittando della non conoscenza delle leggi da parte dei cittadini (e, purtroppo, spesso anche da parte di associazioni), impongono il pa­gamento di contributi - a volte consistenti in centinaia di migliaia di lire al mese - non previsti dalle leggi vigenti.

 

 

MARIA ROSA GHERARDINI - MAURO POLLONI, Voglio fare il frate o il colonnello, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1992, pp. 184, L. 20.000.

 

II titolo è provocatorio. Infatti, gli Autori vogliono rompere con la cultura e l'atteggiamento psi­cologico comune che considerano l'handicappato come un soggetto non inseribile nel lavoro, inidoneo a svolgere professioni e incapace di assumere un ruolo sociale.

Attraverso il racconto di esperienze diretta­mente vissute, essi forniscono un quadro sul panorama legislativo e culturale e sui nodi che impediscono l'inserimento lavorativo, primo fra tutti il mancato riconoscimento della capacità lavorativa che le persone handicappate posso­no esprimere, raggiungendo una piena o ridotta produttività a seconda della loro autonomia, nel­le più diverse professioni o mestieri.

Tra tutti, naturalmente, chi incontra maggiori ostacoli è l'handicappato psichico, ed è sulle esperienze con questi soggetti che si snodano le principali sezioni del volume, che corretta­mente pone l'accento più su questi soggetti, che sugli handicappati fisici e/o sensoriali, comun­que in grado di sostenere i propri diritti.

Ma anche Gherardini e Polloni, purtroppo, non distinguono tra chi ha un handicap intellettivo (ritardo mentale) e chi ha una malattia mentale.

Così, anche l'interessante capitolo sulla for­mazione professionale, che si sforza di indicare e suggerire proposte formative più elastiche, a misura proprio delle diverse caratteristiche degli allievi handicappati, lascia confusi, poiché non è chiaro a quali soggetti sono proponibili le espe­rienze raccontate.

Il libro, di facile lettura, è utile a familiari e diretti interessati, operatori, insegnanti di soste­gno, responsabili della programmazione nel set­tore della formazione professionale e del lavoro per l'handicap, volontari e associazioni.

 

 

AA.VV., Handicap: tra bisogni e risposte - Dalla cultura dell'inserimento a quella dell'integrazione, Edizioni Gruppo Solidarietà, Moie di Maiolati, 1993, pp. 112, L. 15.000.

 

Emerge un panorama alquanto problematico dalla lettura degli interventi inseriti in questo volume, che raccoglie le relazioni tenute nel corso "Handicap tra bisogni e risposte: dalla cultura dell'inserimento a quella dell'integrazione"; pro­mosso dal Centro Studi e Documentazione del Gruppo Solidarietà, svoltosi a Jesi nel settembre-novembre 1992.

Tutti gli interventi, infatti, salvo quello di A. Saccardo dell'USL VI di Thiene, teorizzano molto sulla problematica "handicap", ma non offrono esperienze concrete con cui sia possibile con­frontare l'effettiva messa in pratica della teoria, in modo che si possa valutarne la rispondenza con i bisogni delle persone handicappate, che ne sono destinatarie.

La carenza più evidente è la mancanza di chiarezza circa i diversi interventi che sono ri­chiesti a seconda dell'autonomia che la persona handicappata è in grado di esprimere. Ne con­segue che non è esplicito qual è il criterio in base al quale un handicappato ha il diritto di essere assistito o invece deve essere avviato a percorsi formativi e, successivamente, al lavoro.

Il punto più dolente, comunque, è l'assenza del diretto interessato.

Si parla molto dei servizi, degli operatori, delle metodologie, ma non si fa alcun cenno ai diritti delle persone handicappate, premessa indi­spensabile per una impostazione corretta degli interventi che devono tenere conto dei bisogni delle persone e dei riferimenti istituzionali dai quali far dipendere gli interventi occorrenti. Due esempi a titolo esemplificativo.

Nel suo intervento G. Zama, dell'USL n. 37 di Faenza, descrive il centro educativo come strut­tura intermedia, in quanto dallo stesso si esce per raggiunti limiti di età. In particolare, secondo Zama, il centro educativo è «una struttura aperta e questa è la caratteristica peculiare per dare un senso alla parola integrazione».

Francamente non sono pochi gli interrogativi che dobbiamo porre. Chi sono i soggetti handi­cappati che hanno diritto al centro diurno? Per­ché è una struttura intermedia se si tratta di in­tervento assistenziale rivolto a quanti non pos­sono essere avviati al lavoro, perché gravissimi? E quando sono dimessi dal centro, dove vanno? Qual è il limite d'età? Chi lo stabilisce?

Secondo esempio. L'intervento di A. Saccardo presenta in modo semplice e chiaro la meto­dologia adottata dall'USL VI di Thiene per favori­re l'inserimento lavorativo delle persone handi­cappate, senza peraltro trascurare l'importanza di una politica del lavoro e di coordinamento tra i diversi soggetti istituzionali: il sindacato, le im­prese, le forze del volontariato.

Ma anche in questo intervento non si riesce a sapere quando, nella vita della persona handi­cappata interviene il servizio di inserimento la­vorativo (SIL), quali sono i soggetti che hanno diritto a questo intervento, se il servizio è sosti­tutivo della formazione professionale, se la for­mazione stessa è prevista per gli handicappati intellettivi, se la sua strutturazione è adeguata alle esigenze.

Mentre è positiva l'iniziativa del Gruppo di So­lidarietà di far riflettere sui bisogni dell'handi­cap, non possiamo non rilevare quanta "cultura" ci sia ancora da fare anche tra operatori che so­no impegnati da anni in questo campo, affinché ogni intervento, prima di essere ipotizzato 0 sperimentato, parta dal riconoscimento delle di­verse tipologie di handicap che, a seconda della loro autonomia, possono e hanno diritto a inter­venti diversificati, ma precisi, diretti a rispondere e a soddisfare bisogni altrettanto precisi.

 

 

MARIA NICOLAI PAYNTER, Perché verità sia li­bera - Memorie, confessioni, riflessioni e itine­rario poetico di David Maria Turoldo, Rizzoli, Milano, 1994, pp. 239, L. 26.000.

 

Il libro è un'approfondita meditazione e rifles­sione sull'itinerario di Padre David Maria Turoldo e la puntuale e umanissima registrazione delle parole che quest'uomo straordinario affidò all'Autrice quando la sua esperienza terrena stava volgendo al termine.

Un'esistenza segnata profondamente dall'impegno svolto a fianco dei deboli e degli oppressi a prezzo di violenti attacchi personali e dell'ostracismo di alcuni esponenti, soprattutto di alto livello, della Chiesa cattolica.

Fra le numerose affermazioni di Padre Tu­roldo, ci hanno particolarmente colpito le se­guenti:

- «In fatto di carità, anche i monsignori romani sono sempre abbastanza disposti: a livello di ele­mosina la carità non crea problemi. È a livello di giustizia che cominciano i guai» (pag. 107);

- «La Chiesa finora non ha mai canonizzato i santi della giustizia, preferendo in assoluto quelli della carità» (pag. 121);

- «Nel codice di diritto canonico non c'è mai stato - e non c'è - un posto se non marginale per i poveri: i poveri, nel diritto, esistono soltanto come "oggetti" di elemosina» (pag. 121).

 

 

GIOVANNA ROSSI, La famiglia multidimensio­nale, Vita e Pensiero, Milano, 1990, pp. 237, L. 26.000.

 

II volume di G. Rossi, che nell'ambito del di­partimento di sociologia dell'Università cattolica da molti anni si occupa dei problemi di politiche sociali a livello teorico ed empirico, sulla scorta di numerose ricerche, ricostruisce il percorso della famiglia negli ultimi 20 anni e ne mette a fuoco i principali mutamenti che si sono verifica­ti in essa e nei suoi rapporti con il contesto so­cio-economico.

Le nuove tipologie della famiglia multidimen­sionale sono individuate come segue:

a) quelle che «si fanno carico». Ad esempio, le famiglie con anziani, con minori, con malati e con portatori di handicap;

b) la «famiglia multigenerazionale» caratteriz­zata da nuclei in cui sono presenti fino a quattro generazioni e in cui si evidenziano intrecci rela­zionali complessi. Altra nota distintiva è la sua spinta all'autonomia. Occorre, pertanto, andare oltre la semplice coabitazione e considerare «come più nuclei familiari, pur non coabitando, spesso tessono interrelazioni strettissime, for­mando delle reti informali di mutuo aiuto»;

c) la "famiglia prolungata", quella in cui si re­gistra «una certa permanenza prolungata dei figli oltre la prima giovinezza in famiglia».

Tuttavia, le ricerche, precisa l'Autrice «hanno messo in luce come i genitori e i figli non deside­rino per lo più convivere, ma preferiscano avere un rapporto di intimità a distanza, che salvaguar­di proprio questi reciproci bisogni di dipendenza e autonomia».

I successivi spunti di riflessione offerti dal li­bro di G. Rossi sono estremamente preziosi per i lettori che vogliono conoscere in profondità le dinamiche dei rapporti familiari, anche al fine di ricavarne documentate indicazioni prospettiche.

 

 

MICHELE LA ROSA - WALTHER ORSI - SEBA­STIANO PORCU, Anziani - Salute - Ospedale - I "nodi" di un rapporto ed il ricovero "improprio" in una indagine sociologica nella realtà bolo­gnese, Franco Angeli, Milano, 1990, pp. 223, L. 25.000.

 

II volume presenta i risultati di una ricerca so­ciologica, promossa dall'USL 29-Bologna Est, rivolta alle persone di età superiore ai 65 anni che nei mesi di settembre e ottobre 1988 sono stati curati presso l'Ospedale Bellaria del capo­luogo emiliano.

La rilevazione ha riguardato i pazienti anziani ricoverati in sei reparti: medicina generale I e lI, pneumologia, neurochirurgia, gastroenterologia, fisiatria ed ha risposto a due esigenze: cogliere la distribuzione temporale dei ricoveri degli an­ziani nel corso dell'anno e ricostruire la tipologia della popolazione anziana ospedalizzata al fine di individuarne le principali caratteristiche in vi­sta delle attività di ricerca sul carattere proprio 0 incongruo del ricovero.

Dall'indagine emerge che «gli anziani ricovera­ti presentano una patologia multipla». Le malattie più frequenti sono le seguenti: «Artrosi (43,8%), ipertensione arteriosa (37,8%), bronchite croni­ca (22,2%), cardiopatie ischemiche (20,7%), al­tre malattie cardiache (23,7%), emorroidi e vene varicose (17,8%), enfisema ed insufficienza re­spiratoria (17%), paresi (17%), tumore (15,5%)».

Per quanto riguarda le cause del ricovero so­no segnalate:

- «l'esigenza di una maggiore disponibilità di riabilitazione fisiatrica nel territorio»;

- le gravi carenze di interventi domiciliari e in particolare «l'impossibilità di un accesso giorna­liero da parte del medico di base presso il pa­ziente anziano bisognoso di terapie mediche».

L'indagine sui ricoveri impropri e incongrui è stata effettuata «con testimoni significativi non solo inerenti l'istituzione ospedaliera ma anche i servizi territoriali e le realtà socio-sanitarie della USL nel suo complesso. Oltre ai medici ospeda­lieri, sono stati così coinvolti caposala, medici di base, geriatri, medici del pronto soccorso, assi­stenti domiciliari, assistenti sanitari, assistenti so­ciali di quartiere e di ospedale, la realtà del vo­lontariato, ivi compresa quella parrocchiale».

I ricercatori, dunque, sono partiti dal convinci­mento che gli operatori ed il volontariato siano fedeli interpreti delle esigenze degli anziani rico­verati. Al riguardo, abbiamo forti dubbi e ritenia­mo che sarebbero necessarie - finalmente - ri­cerche realizzate interpellando l'utenza.

 

 

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