Prospettive assistenziali, n. 107, luglio-settembre 1994

 

 

ESPERIENZE DI SOCIALIZZAZIONE DI UN CENTRO DIURNO PER HANDICAPPATI GRAVI CON UNA QUINTA CLASSE ELEMENTARE (*) LORENZO GREGORI - GIANCARLO PASTORE (**)

 

 

L'articolo che segue è frutto della testimonian­za di un gruppo di operatori di un centro diurno per handicappati della Provincia di Torino.

Lo riportiamo perché racconta una modalità di lavoro, che favorisce l'incontro tra le persone del centro diurno - tutte handicappate - ed il contesto sociale del quartiere.

In questo caso è una scuola elementare, ma può essere altro: un centro sportivo, un centro sociale, le attività svolte in comune con servizi dell'ente locale (manutenzione giardini, parchi...).

Ciò che conta è che si può - e viene dimostra­to - uscire dalla struttura diurna per soli handi­cappati e incontrarsi, socializzare con la norma­lità.

Va invece modificata l'utenza del centro diurno che, come è emerso nel corso del dibattito du­rante il quale è stata presentata questa esperien­za, non può certo rivolgersi a persone che pre­sentano disturbi di natura psichiatrica.

Oggi, per il disinteresse del servizio sanitario nazionale nei confronti dei giovani psicotici, il centro diurno rischia di diventare - purtroppo - un contenitore indifferenziato, con il pericolo di non dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno e di­ritto.

Infatti, a nostro avviso, il centro diurno deve essere una risposta esclusivamente per gli han­dicappati intellettivi che, dopo la scuola dell'ob­bligo, non possono essere avviati in percorsi for­mativi finalizzati alla preparazione al lavoro, per­ché troppo compromessi nella loro autonomia.

 

 

Prima di raccontare l'esperienza, tuttora in corso, di collaborazione tra il Centro socio-tera­peutico diurno (CST) dell'USSL 27 del Piemonte e la scuola elementare di Borgaro ci sembra im­portante presentare brevemente lo stesso CST ed illustrarne la metodologia di lavoro.

Il CST dell'USSL 27, aperto nel 1984, si confi­gura come una struttura a servizio dell'handicap ultraquattordicenne; attualmente esistono due sedi, una a Borgaro ed una a Ciriè unite dalla condivisione di una stessa metodologia.

Il nostro servizio si definisce come struttura aperta intesa a favorire o a creare situazioni di vita reali dove il portatore di handicap entra in contatto con la normalità. In questi anni abbiamo avuto modo di riscontrare che la crescita, l'evo­luzione, il maggior benessere sono realizzabili là dove la patologia non si confronta solo con se stessa, ma quando l'imitazione dei comporta­menti e degli atteggiamenti di normalità favori­sce l'opportunità di conoscere e di restituire all'handicappato un'immagine positiva di sé.

La nostra idea di CST aperto si realizza nel doppio senso di essere accolti e di accogliere, ovvero di utilizzare le risorse del territorio ed al tempo stesso di attivarne, divenendo noi stessi risorsa. L'obiettivo principale rimane ovviamente il benessere dei nostri utenti; pertanto le propo­ste e le risorse fornite partono da una riflessione sui singoli progetti educativi e diventano stru­mento operativo.

Gli ambiti in cui si sono concretizzati gli inter­venti sono il tempo libero, i contesti lavorativi e la scuola. In questi anni le scuole del distretto scolastico dell'USL 27 sono state per noi una notevole risorsa utilizzata sia per quelle situazio­ni in cui il progetto individuale prevedeva la fre­quenza scolastica quotidiana e l'utilizzo del so­stegno in classe, sia per i laboratori attivati per i nostri utenti. Nel primo caso la collaborazione ha consentito di acquisire una visione globale del soggetto handicappato tramite lo scambio di informazioni tra operatori coinvolti nel progetto (educatori, insegnanti, servizi sociali e neuropsi­chiatria) perseguendo la logica dell'integrazione dei servizi.

Riguardo ai laboratori, essi nascono da un'esigenza che nel corso degli anni si è fatta sempre più sentire, cioè quella di garantire agli utenti maggiormente compromessi la possibilità di vivere esperienze socializzanti e continuative d'integrazione.

Siamo convinti che il concetto di gravità sia aleatorio e che non è sugli aspetti patologici che ci si deve soffermare, ma su quelle capacità che possono ulteriormente evolvere. Per questo mo­tivo l'integrazione deve essere garantita anche ai soggetti cosiddetti più gravi.

In questa prospettiva si inseriscono i labora­tori iniziati nell'ottobre del 1992 al CST di Borga­ro e l'anno successivo nella sede di Ciriè; la scelta del tipo di laboratori da effettuare risale alla riflessione che l'équipe di educatori ha ef­fettuato in sede di formazione nella discussione dei singoli progetti educativi di ciascun utente.

Dopo questo primo momento progettuale so­no stati presi i contatti con la direttrice didattica e le insegnanti attraverso riunioni in cui abbiamo avuto modo di farci conoscere, di parlare della nostra metodologia, di soffermarci non solo sull'importanza educativa rivestita dall'ingresso della scuola nella nostra struttura, ma anche di rispondere ad una serie di dubbi e di domande riguardo il senso degli inserimenti specifici dei singoli ragazzi nei laboratori.

Ci è sembrato importante chiarire che la na­scita di un determinato tipo di laboratorio partiva dall'esigenza dei nostri ragazzi che dovevano esservi inseriti e che quindi il contenuto del la­boratorio stesso non poteva prescindere dalle loro capacità e dai loro bisogni.

Le maestre hanno aderito al progetto com­prendendone sia la valenza educativa per i no­stri ragazzi e per le loro classi, sia l'importanza sociale. Una esemplificazione di come si possa­no conciliare le esigenze del gruppo degli alunni con quelle del portatore di handicap senza che questo vada a scapito del normale processo di apprendimento, di conoscenze della classe né tantomeno sopravvaluti le capacità dell'handi­cappato, è data ad esempio dalla scelta del contenuto del primo ciclo di laboratori di dram­matizzazione. Se inizialmente la scelta delle in­segnanti riguardo il soggetto ricadeva su episo­di trattati nel programma di storia - argomenti lontani dagli interessi dei ragazzi handicappati inseriti - si è poi stabilito di comune accordo di drammatizzare miti e leggende legati a quegli episodi, in modo da non perdere di vista il con­tenuto rendendolo accessibile a tutti i parteci­panti del gruppo.

In termini pratici, le classi che frequentavano i laboratori una volta arrivate al CST venivano di­vise in due gruppi di 10-15 ragazzi ciascuno all'interno dei quali erano inseriti mediamente tre ragazzi handicappati. Mentre un gruppo era impegnato in un tipo di laboratorio (ad esempio cucina), l'altro costruiva giochi per cinque in­contri consecutivi, al termine dei quali i due gruppi cambiavano attività: chi prima cucinava avrebbe poi costruito giochi e viceversa.

Un solo laboratorio ha visto la presenza di un tecnico, tra l'altro volontario, mentre tutti gli altri sono stati gestiti da educatori e maestre che mettevano in campo ciascuno le proprie compe­tenze e abilità.

L'intenzione iniziale era quella di affidare la gestione di alcuni laboratori a dei tecnici; in realtà la mancanza di risorse economiche non ha consentito la realizzazione di questo proget­to. E così, in assenza di una persona competen­te, il laboratorio di videotape si è trasformato in seguito in un laboratorio di drammatizzazione, meglio gestibile dagli adulti presenti.

Più in particolare, i laboratori attivati con la scuola elementare di Borgaro sono stati:

- laboratorio di cucina

- laboratorio di costruzione giochi - laboratorio di drammatizzazione

- laboratorio di falegnameria (con falegname volontario)

- laboratorio di pittura

- laboratorio di giardinaggio.

Rispetto a quest'ultimo è interessante sottoli­neare la presenza di alcuni nonni degli alunni della scuola elementare che, invitati dai rispettivi nipoti al CST, sono rimasti coinvolti nel progetto partecipando agli incontri programmati rico­prendo il ruolo di esperti. Significativo è il fatto che ancora adesso il nonno di una ragazzina viene a trovarci al CST, aiutandoci con i suoi consigli nella manutenzione del giardino dello stesso CST.

Un altro punto condiviso insieme alle inse­gnanti è stato il carattere sperimentale dei labo­ratori in coerenza con un aspetto fondamentale della nostra metodologia, quello della ricerca. Ricerca che, evidentemente, non significa im­provvisazione ma costante autocritica e messa in discussione di ciò che è stato programmato. Più in particolare si è visto che, in alcuni labora­tori, certe attività pensate in fase di programma­zione sia per gli utenti del CST sia per gli stu­denti si sono rivelate inadatte e pertanto rivedu­te o addirittura sostituite.

Un altro esempio di flessibilità si è avuto a proposito di alcuni nostri utenti che, per le ca­pacità e gli interessi dimostrati erano stati inse­riti in alcuni laboratori e, in un secondo momen­to, trasferiti in un altro poiché il primo si era rive­lato privo di interesse o inadatto. Pensiamo a Andrea, 21 anni, ragazzo psicotico con gravi turbe della personalità, inizialmente inserito nel laboratorio di drammatizzazione con il compito di aiutare gli adulti nelle riprese con la teleca­mera. L'assenza di un risultato tangibile, con­creto ed immediato del suo lavoro non ha per­messo il raggiungimento di quegli obiettivi che gli educatori si erano posti; per questi ed altri motivi l'inserimento nel laboratorio di falegna­meria ha invece consentito ad Andrea di lavora­re insieme agli altri ragazzi alla costruzione di oggetti da lui scelti.

A laboratori iniziati, le prime classi di bambini coinvolti hanno chiesto agli educatori un incon­tro a scuola. È stata un'occasione per loro di poter dare sfogo non solo a curiosità riguardo i ragazzi del CST, ma soprattutto di allontanare paure ed ansie, a volte immotivate o irrazionali, che possono nascere dalla non comprensione o non conoscenza dell'handicap. Infatti, proprio quei comportamenti (apparentemente strani) dei nostri ragazzi che costituivano motivo di disagio o di tensione, hanno cominciato ad avere un senso per i bambini. Ciò che prima appariva strano o addirittura incomprensibile, attraverso la mediazione dell'educatore, è divenuto in se­guito più chiaramente leggibile in termini di co­municazione. Ad esempio, i bambini si chiede­vano che cosa volesse dire Franco, 19 anni, ra­gazzo Down privo di linguaggio, quando gesti­colava in determinati modi e soprattutto se que­sti movimenti avessero un significato; oppure si chiedevano perché Bruno, 20 anni, ragazzo psi­cotico, si comportasse a volte in modo aggressi­vo. Nei limiti del possibile gli educatori hanno cercato di spiegare che quei comportamenti erano comunque un modo per comunicare stati d'animo, desideri, sentimenti.

Altrettanto importante è stato il coinvolgimen­to dei genitori degli alunni, reso possibile dall'in­vito esteso agli educatori di partecipare ad un'interclasse di plesso. In questa sede anche i genitori hanno avuto modo di avanzare perples­sità e timori sulla buona riuscita dell'esperienza, paure allontanate sia dai racconti riportati in ca­sa dai propri figli, sia dal confronto avvenuto con gli educatori e infine dai risultati concreti che hanno avuto modo di vedere in occasione della festa finale alla quale sono stati invitati.

Parallelamente gli educatori hanno affrontato con gli utenti del CST i problemi e il disagio che la loro situazione poteva creare nell'ambiente così come a loro stessi: è stato importante par­lare dell'handicap proprio in presenza dell'han­dicappato stesso. Parlare del problema senza reticenze è servito ad allentare le tensioni e ad aumentare il grado di comprensione reciproca. Per alcuni nostri utenti l'ingresso dei bambini nella nostra struttura è stato vissuto quasi come la "invasione" del territorio e il "furto" dei propri educatori. È stato necessario a questo proposi­to parlare ai nostri utenti tranquillizzandoli, spie­gando che il CST rimaneva comunque il loro spazio e che la presenza dei bambini ci aiutava in quelle attività nate per loro.

Se è importante che i bambini capiscano la sofferenza e gli sforzi di adattamento dei nostri ragazzi, è altresì importante che questi ultimi giungano ad una maggiore accettazione di sé attraverso un'esperienza autentica di integrazio­ne, che non nega i fantasmi ma li allontana con semplici esami di realtà.

Vorremmo portare a questo proposito l'esem­pio di Giovanna, 20 anni, ragazza gravemente spastica le cui uniche forme di comunicazione sono l'espressione del viso e l'irrigidimento dei corpo, e con notevoli problemi di masticazione, inserita come gli altri utenti nella mensa scola­stica. Giovanna creava inizialmente disagio e conseguente allontanamento intorno a sé: alcu­ni bambini non riuscivano a mangiare di fronte a lei, altri chiedevano di cambiare posto o addirit­tura che Giovanna venisse messa a mangiare in un posto in cui nessuno la vedesse. La verbaliz­zazione a Giovanna dei suoi comprensibili stati d'animo, il suo irrigidimento, il chiudersi in sé, nonché di quello che le stava capitando attorno e la maggiore conoscenza di Giovanna da parte dei bambini avvenuta nei laboratori nei quali la ragazza partecipava come spettatrice, ha per­messo da una parte a Giovanna di compiere grandi sforzi su se stessa e di arrivare a man­giare nel modo più adeguato possibile, dall'altro di favorire una maggiore accettazione da parte dei bambini.

Mangiare insieme ai bambini ha rappresenta­to un momento di grande importanza poiché, in quanto contesto socializzante, ha facilitato e proseguito la reciproca conoscenza tra CST e scuola, e dunque la buona riuscita dei laborato­ri.

La scelta di mangiare insieme agli alunni della scuola nasce dall'esigenza di far vivere ai nostri ragazzi un momento importante quale quello del pasto in un contesto non ghettizzante. I nostri utenti mangiano alla mensa scolastica sin dall'apertura della nostra sede in Borgaro, cioè da prima che i laboratori iniziassero. Ciò ha consentito poi di dare continuità all'esperienza d'integrazione dei laboratori, poiché i bambini che li hanno frequentati sono gli stessi che mangiano al nostro tavolo.

Interessante riportare a questo proposito quel che racconta in un suo tema, Sabrina, una bam­bina della quinta elementare che ha partecipato al laboratorio di falegnameria: «Questi ragazzi li conoscevamo perché loro venivano a mangiare con noi, ancora adesso però vengono a mangia­re e un giorno di questi li abbiamo invitati al no­stro tavolo, loro molto felici accettarono e man­giarono con noi. Quel giorno fu il più bello della mia vita» o la sorpresa di Rita nell'accorgersi che gli handicappati sono più "civili" dei suoi compagni: «Però si comportano da esseri civili, per esempio Fabio si comporta benissimo a tavo­la: non tira il pane e non lancia le forchette».

I risultati di quest'esperienza ci confermano che un'integrazione autentica è possibile laddo­ve si realizza una continuità di rapporti, cioè quando la socializzazione non si esaurisce con il finire dell'attività ma prosegue anche in altri contesti e con nuove esperienze.

Vorremmo raccontare la storia di Grazia, ragazza Down di 33 anni, mutacica e molto timida. Grazia esprime i propri sentimenti nei confronti delle persone a lei più vicine attraverso poesie o lettere che spesso assumono toni fantastici: da­me, principi, cavalieri e castelli incantati sono i contenuti stereotipati dei suoi testi. Per queste sue capacità inventive, Grazia è stata inserita nel laboratorio di drammatizzazione con una classe di V elementare. L'ambiente, così carico di entusiasmo, la disponibilità delle insegnanti e il grande riconoscimento delle sue capacità arti­stiche sono stati gli elementi che hanno consen­tito a Grazia di vincere, anche se faticosamente, la sua chiusura, la sua timidezza.

All'inizio la ragazza si limitava a recitare le parti attribuitele accettando di esporsi; in un se­condo momento ha invece cominciato a elabo­rare lei stessa le parti che poi doveva interpreta­re. Grazia, fin da subito, si è molto affezionata al­le insegnanti, alle quali assegnava, nelle nume­rose poesie che regalava loro, il ruolo di fate, principesse, regine.

Il laboratorio si è concluso con una festa dove è stato rappresentato di fronte ai genitori degli alunni e dei nostri utenti uno degli spettacoli al­lestiti precedentemente. In questa occasione Grazia, dopo aver recitato di fronte al pubblico, ha voluto di sua iniziativa leggere dal palco i sa­luti e i ringraziamenti rivolti alla classe e alle maestre che avevano lavorato con lei. Successi­vamente Grazia, che nel frattempo ha continuato a frequentare la classe nel momento del pasto, ha partecipato senza l'affiancamento di un edu­catore ad un soggiorno in montagna organizzato dalla scuola.

L'esperienza di integrazione è proseguita con l'invito a realizzare, in orario scolastico e sem­pre senza educatore, uno spettacolo rappre­sentato in occasione di una festa borgarese nel teatro comunale. Uno dei segnali di quanto Gra­zia sia cresciuta in seguito a questa esperienza è dato dal cambiamento nel rapportarsi con gli altri ragazzi e soprattutto con le insegnanti: le attività svolte concretamente insieme a loro han­no fatto sì che morgane e principesse perdes­sero la bacchetta magica per diventare perso­naggi della realtà quotidiana.

Vorremmo sottolineare che non solo utenti meno compromessi, come Grazia che già aveva un buon grado di autonomia, hanno raggiunto risultati positivi dall'esperienza laboratori, ma che ragazzi con patologie decisamente più gravi - per i quali soprattutto, ricordiamo, sono stati realizzati i laboratori - hanno avuto modo di ben integrarsi e di trovare un ruolo all'interno del gruppo di lavoro.

Pensiamo a Paola, 33 anni, ragazza con deficit intellettivo di grado elevato, con notevoli proble­mi comunicativi e alla difficoltà incontrata, sin dall'inizio della presa in carico, da parte degli educatori di coinvolgerla nelle attività proposte. Noi stessi siamo rimasti stupiti dall'affetto spon­taneo che i bambini hanno dimostrato nei suoi confronti e da come questo rapporto abbia con­sentito a Paola di lavorare nel laboratorio di fale­gnameria, dipingendo e compiendo insieme agli altri ragazzi piccoli lavori.

Per Paola si è rivelato essere importante non tanto l'attività in sé, quanto le persone con cui questa veniva svolta ed il modo in cui le veniva proposta; per questo motivo quando il suo grup­po ha cambiato attività, spontaneamente, lei lo ha seguito.

Vorremmo citare brani dei temi svolti dai bam­bini che hanno partecipato al primo ciclo di la­boratori, temi raccolti in un libro regalato al no­stro Centro dal titolo "Caro CST"; l'augurio è che si riesca a cogliere l'invito alla spontaneità e na­turalezza nell'approcciarsi all'handicap che hanno dimostrato questi bambini.

Scrive Giuseppe: «Quando sono entrato senti­vo delle emozioni, agitazione e paura (..) per gli handicappati era una gioia lavorare con noi e noi eravamo felici di lavorare con loro e loro ci dava­no delle idee per le scenette».

Alberto: «A me piace andare al CST a lavorare, oltre tutto ho imparato una lezione o forse di più: a me personalmente gli handicappati prima mi mettevano addosso un senso di angoscia e di ri­brezzo. Invece adesso ho capito che loro hanno bisogno di volontari e penso che quando diven­terò grande ci sarà un volontario in più».

Infine Sabina: «Appena siamo entrati tutti sono rimasti stupiti, ma anch'io non so il perché, come i miei compagni sono rimasta a bocca aperta, forse per i dipinti, forse per i ragazzi, forse per il castello magnifico, o no, scusatemi, per la strut­turazione della magnifica casa che accoglieva i ragazzi. Chissà, chissà, nessuno saprà mai il per­ché. Comunque a poco a poco facevamo amici­zia con questi ragazzi che in fondo in fondo era­no ragazzi come noi (..). Il lavoro che ho fatto con loro è stato molto bello e curioso perché la­vorando e parlando con loro e vedere quanto lo­ro si sforzavano di dire dovete capire che anche loro come noi sono esseri umani! Anche se loro hanno avuto dei problemi durante la nascita sono persone come noi e perciò dobbiamo rispettarli».

 

 

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