ESPERIENZE DI SOCIALIZZAZIONE DI UN CENTRO DIURNO PER
HANDICAPPATI GRAVI CON UNA QUINTA CLASSE ELEMENTARE
(*) LORENZO GREGORI
- GIANCARLO PASTORE
(**)
L'articolo
che segue è frutto della testimonianza di un gruppo di operatori di un centro
diurno per handicappati della Provincia di Torino.
Lo
riportiamo perché racconta una modalità di lavoro, che favorisce l'incontro tra
le persone del centro diurno - tutte handicappate - ed il contesto sociale del
quartiere.
In
questo caso è una scuola elementare, ma può essere altro: un centro sportivo,
un centro sociale, le attività svolte in comune con servizi dell'ente locale
(manutenzione giardini, parchi...).
Ciò
che conta è che si può - e viene dimostrato - uscire dalla struttura diurna
per soli handicappati e incontrarsi, socializzare con la normalità.
Va
invece modificata l'utenza del centro diurno che, come è emerso nel corso del
dibattito durante il quale è stata presentata questa esperienza, non può
certo rivolgersi a persone che presentano disturbi di natura psichiatrica.
Oggi,
per il disinteresse del servizio sanitario nazionale nei confronti dei giovani
psicotici, il centro diurno rischia di diventare - purtroppo - un contenitore
indifferenziato, con il pericolo di non dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno e
diritto.
Infatti,
a nostro avviso, il centro diurno deve essere una risposta esclusivamente per
gli handicappati intellettivi che, dopo la scuola dell'obbligo, non possono
essere avviati in percorsi formativi finalizzati alla preparazione al lavoro,
perché troppo compromessi nella loro autonomia.
Prima di raccontare l'esperienza,
tuttora in corso, di collaborazione tra il Centro socio-terapeutico diurno
(CST) dell'USSL 27 del Piemonte e la scuola elementare di Borgaro ci sembra importante
presentare brevemente lo stesso CST ed illustrarne la metodologia di lavoro.
Il CST dell'USSL 27, aperto nel
1984, si configura come una struttura a servizio dell'handicap
ultraquattordicenne; attualmente esistono due sedi, una a Borgaro ed una a
Ciriè unite dalla condivisione di una stessa metodologia.
Il nostro servizio si definisce come
struttura aperta intesa a favorire o a creare situazioni di vita reali dove il
portatore di handicap entra in contatto con la normalità. In questi anni
abbiamo avuto modo di riscontrare che la crescita, l'evoluzione, il maggior
benessere sono realizzabili là dove la patologia non si confronta solo con se
stessa, ma quando l'imitazione dei comportamenti e degli atteggiamenti di
normalità favorisce l'opportunità di conoscere e di restituire
all'handicappato un'immagine positiva di sé.
La nostra idea di CST aperto si
realizza nel doppio senso di essere accolti e di accogliere, ovvero di
utilizzare le risorse del territorio ed al tempo stesso di attivarne, divenendo
noi stessi risorsa. L'obiettivo principale rimane ovviamente il benessere dei
nostri utenti; pertanto le proposte e le risorse fornite partono da una
riflessione sui singoli progetti educativi e diventano strumento operativo.
Gli ambiti in cui si sono concretizzati
gli interventi sono il tempo libero, i contesti lavorativi e la scuola. In
questi anni le scuole del distretto scolastico dell'USL 27 sono state per noi
una notevole risorsa utilizzata sia per quelle situazioni in cui il progetto
individuale prevedeva la frequenza scolastica quotidiana e l'utilizzo del sostegno
in classe, sia per i laboratori attivati per i nostri utenti. Nel primo caso la
collaborazione ha consentito di acquisire una visione globale del soggetto
handicappato tramite lo scambio di informazioni tra operatori coinvolti nel
progetto (educatori, insegnanti, servizi sociali e neuropsichiatria)
perseguendo la logica dell'integrazione dei servizi.
Riguardo ai laboratori, essi nascono
da un'esigenza che nel corso degli anni si è fatta sempre più sentire, cioè
quella di garantire agli utenti maggiormente compromessi la possibilità di
vivere esperienze socializzanti e continuative d'integrazione.
Siamo convinti che il concetto di
gravità sia aleatorio e che non è sugli aspetti patologici che ci si deve
soffermare, ma su quelle capacità che possono ulteriormente evolvere. Per
questo motivo l'integrazione deve essere garantita anche ai soggetti
cosiddetti più gravi.
In questa prospettiva si inseriscono
i laboratori iniziati nell'ottobre del 1992 al CST di Borgaro e l'anno
successivo nella sede di Ciriè; la scelta del tipo di laboratori da effettuare
risale alla riflessione che l'équipe di educatori ha effettuato in sede di
formazione nella discussione dei singoli progetti educativi di ciascun utente.
Dopo questo primo momento
progettuale sono stati presi i contatti con la direttrice didattica e le
insegnanti attraverso riunioni in cui abbiamo avuto modo di farci conoscere, di
parlare della nostra metodologia, di soffermarci non solo sull'importanza
educativa rivestita dall'ingresso della scuola nella nostra struttura, ma anche
di rispondere ad una serie di dubbi e di domande riguardo il senso degli
inserimenti specifici dei singoli ragazzi nei laboratori.
Ci è sembrato importante chiarire
che la nascita di un determinato tipo di laboratorio partiva dall'esigenza dei
nostri ragazzi che dovevano esservi inseriti e che quindi il contenuto del laboratorio
stesso non poteva prescindere dalle loro capacità e dai loro bisogni.
Le maestre hanno aderito al progetto
comprendendone sia la valenza educativa per i nostri ragazzi e per le loro
classi, sia l'importanza sociale. Una esemplificazione di come si possano
conciliare le esigenze del gruppo degli alunni con quelle del portatore di
handicap senza che questo vada a scapito del normale processo di apprendimento,
di conoscenze della classe né tantomeno sopravvaluti le capacità dell'handicappato,
è data ad esempio dalla scelta del contenuto del primo ciclo di laboratori di
drammatizzazione. Se inizialmente la scelta delle insegnanti riguardo il
soggetto ricadeva su episodi trattati nel programma di storia - argomenti
lontani dagli interessi dei ragazzi handicappati inseriti - si è poi stabilito
di comune accordo di drammatizzare miti e leggende legati a quegli episodi, in
modo da non perdere di vista il contenuto rendendolo accessibile a tutti i
partecipanti del gruppo.
In termini pratici, le classi che
frequentavano i laboratori una volta arrivate al CST venivano divise in due
gruppi di 10-15 ragazzi ciascuno all'interno dei quali erano inseriti
mediamente tre ragazzi handicappati. Mentre un gruppo era impegnato in un tipo
di laboratorio (ad esempio cucina), l'altro costruiva giochi per cinque incontri
consecutivi, al termine dei quali i due gruppi cambiavano attività: chi prima
cucinava avrebbe poi costruito giochi e viceversa.
Un solo laboratorio ha visto la
presenza di un tecnico, tra l'altro volontario, mentre tutti gli altri sono
stati gestiti da educatori e maestre che mettevano in campo ciascuno le proprie
competenze e abilità.
L'intenzione iniziale era quella di
affidare la gestione di alcuni laboratori a dei tecnici; in realtà la mancanza
di risorse economiche non ha consentito la realizzazione di questo progetto. E
così, in assenza di una persona competente, il laboratorio di videotape si è
trasformato in seguito in un laboratorio di drammatizzazione, meglio gestibile
dagli adulti presenti.
Più in particolare, i laboratori
attivati con la scuola elementare di Borgaro sono stati:
- laboratorio di cucina
- laboratorio di costruzione giochi
- laboratorio di drammatizzazione
- laboratorio di falegnameria (con
falegname volontario)
- laboratorio di pittura
- laboratorio di giardinaggio.
Rispetto a quest'ultimo è
interessante sottolineare la presenza di alcuni nonni degli alunni della
scuola elementare che, invitati dai rispettivi nipoti al CST, sono rimasti
coinvolti nel progetto partecipando agli incontri programmati ricoprendo il
ruolo di esperti. Significativo è il fatto che ancora adesso il nonno di una
ragazzina viene a trovarci al CST, aiutandoci con i suoi consigli nella
manutenzione del giardino dello stesso CST.
Un altro punto condiviso insieme
alle insegnanti è stato il carattere sperimentale dei laboratori in coerenza
con un aspetto fondamentale della nostra metodologia, quello della ricerca.
Ricerca che, evidentemente, non significa improvvisazione ma costante
autocritica e messa in discussione di ciò che è stato programmato. Più in
particolare si è visto che, in alcuni laboratori, certe attività pensate in
fase di programmazione sia per gli utenti del CST sia per gli studenti si
sono rivelate inadatte e pertanto rivedute o addirittura sostituite.
Un altro esempio di flessibilità si
è avuto a proposito di alcuni nostri utenti che, per le capacità e gli
interessi dimostrati erano stati inseriti in alcuni laboratori e, in un
secondo momento, trasferiti in un altro poiché il primo si era rivelato privo
di interesse o inadatto. Pensiamo a Andrea, 21 anni, ragazzo psicotico con
gravi turbe della personalità, inizialmente inserito nel laboratorio di
drammatizzazione con il compito di aiutare gli adulti nelle riprese con la
telecamera. L'assenza di un risultato tangibile, concreto ed immediato del
suo lavoro non ha permesso il raggiungimento di quegli obiettivi che gli
educatori si erano posti; per questi ed altri motivi l'inserimento nel
laboratorio di falegnameria ha invece consentito ad Andrea di lavorare
insieme agli altri ragazzi alla costruzione di oggetti da lui scelti.
A laboratori iniziati, le prime
classi di bambini coinvolti hanno chiesto agli educatori un incontro a scuola.
È stata un'occasione per loro di poter dare sfogo non solo a curiosità riguardo
i ragazzi del CST, ma soprattutto di allontanare paure ed ansie, a volte
immotivate o irrazionali, che possono nascere dalla non comprensione o non
conoscenza dell'handicap. Infatti, proprio quei comportamenti (apparentemente
strani) dei nostri ragazzi che costituivano motivo di disagio o di tensione,
hanno cominciato ad avere un senso per i bambini. Ciò che prima appariva strano
o addirittura incomprensibile, attraverso la mediazione dell'educatore, è
divenuto in seguito più chiaramente leggibile in termini di comunicazione. Ad
esempio, i bambini si chiedevano che cosa volesse dire Franco, 19 anni, ragazzo
Down privo di linguaggio, quando gesticolava in determinati modi e soprattutto
se questi movimenti avessero un significato; oppure si chiedevano perché
Bruno, 20 anni, ragazzo psicotico, si comportasse a volte in modo aggressivo.
Nei limiti del possibile gli educatori hanno cercato di spiegare che quei
comportamenti erano comunque un modo per comunicare stati d'animo, desideri,
sentimenti.
Altrettanto importante è stato il
coinvolgimento dei genitori degli alunni, reso possibile dall'invito esteso
agli educatori di partecipare ad un'interclasse di plesso. In questa sede anche
i genitori hanno avuto modo di avanzare perplessità e timori sulla buona
riuscita dell'esperienza, paure allontanate sia dai racconti riportati in casa
dai propri figli, sia dal confronto avvenuto con gli educatori e infine dai
risultati concreti che hanno avuto modo di vedere in occasione della festa
finale alla quale sono stati invitati.
Parallelamente gli educatori hanno
affrontato con gli utenti del CST i problemi e il disagio che la loro
situazione poteva creare nell'ambiente così come a loro stessi: è stato
importante parlare dell'handicap proprio in presenza dell'handicappato
stesso. Parlare del problema senza reticenze è servito ad allentare le tensioni
e ad aumentare il grado di comprensione reciproca. Per alcuni nostri utenti
l'ingresso dei bambini nella nostra struttura è stato vissuto quasi come la
"invasione" del territorio e il "furto" dei propri educatori.
È stato necessario a questo proposito parlare ai nostri utenti
tranquillizzandoli, spiegando che il CST rimaneva comunque il loro spazio e
che la presenza dei bambini ci aiutava in quelle attività nate per loro.
Se è importante che i bambini
capiscano la sofferenza e gli sforzi di adattamento dei nostri ragazzi, è
altresì importante che questi ultimi giungano ad una maggiore accettazione di
sé attraverso un'esperienza autentica di integrazione, che non nega i fantasmi
ma li allontana con semplici esami di realtà.
Vorremmo portare a questo proposito
l'esempio di Giovanna, 20 anni, ragazza gravemente spastica le cui uniche
forme di comunicazione sono l'espressione del viso e l'irrigidimento dei corpo,
e con notevoli problemi di masticazione, inserita come gli altri utenti nella
mensa scolastica. Giovanna creava inizialmente disagio e conseguente
allontanamento intorno a sé: alcuni bambini non riuscivano a mangiare di
fronte a lei, altri chiedevano di cambiare posto o addirittura che Giovanna
venisse messa a mangiare in un posto in cui nessuno la vedesse. La verbalizzazione
a Giovanna dei suoi comprensibili stati d'animo, il suo irrigidimento, il
chiudersi in sé, nonché di quello che le stava capitando attorno e la maggiore
conoscenza di Giovanna da parte dei bambini avvenuta nei laboratori nei quali
la ragazza partecipava come spettatrice, ha permesso da una parte a Giovanna
di compiere grandi sforzi su se stessa e di arrivare a mangiare nel modo più
adeguato possibile, dall'altro di favorire una maggiore accettazione da parte
dei bambini.
Mangiare insieme ai bambini ha
rappresentato un momento di grande importanza poiché, in quanto contesto
socializzante, ha facilitato e proseguito la reciproca conoscenza tra CST e
scuola, e dunque la buona riuscita dei laboratori.
La scelta di mangiare insieme agli
alunni della scuola nasce dall'esigenza di far vivere ai nostri ragazzi un
momento importante quale quello del pasto in un contesto non ghettizzante. I
nostri utenti mangiano alla mensa scolastica sin dall'apertura della nostra
sede in Borgaro, cioè da prima che i laboratori iniziassero. Ciò ha consentito
poi di dare continuità all'esperienza d'integrazione dei laboratori, poiché i
bambini che li hanno frequentati sono gli stessi che mangiano al nostro tavolo.
Interessante riportare a questo
proposito quel che racconta in un suo tema, Sabrina, una bambina della quinta
elementare che ha partecipato al laboratorio di falegnameria: «Questi ragazzi li conoscevamo perché loro
venivano a mangiare con noi, ancora adesso però vengono a mangiare e un giorno
di questi li abbiamo invitati al nostro tavolo, loro molto felici accettarono
e mangiarono con noi. Quel giorno fu il più bello della mia vita» o la sorpresa di Rita nell'accorgersi che
gli handicappati sono più "civili" dei suoi compagni: «Però si comportano da esseri civili, per
esempio Fabio si comporta benissimo a tavola: non tira il pane e non lancia le
forchette».
I risultati di quest'esperienza ci
confermano che un'integrazione autentica è possibile laddove si realizza una
continuità di rapporti, cioè quando la socializzazione non si esaurisce con il
finire dell'attività ma prosegue anche in altri contesti e con nuove
esperienze.
Vorremmo raccontare la storia di
Grazia, ragazza Down di 33 anni, mutacica e molto timida. Grazia esprime i
propri sentimenti nei confronti delle persone a lei più vicine attraverso
poesie o lettere che spesso assumono toni fantastici: dame, principi,
cavalieri e castelli incantati sono i contenuti stereotipati dei suoi testi.
Per queste sue capacità inventive, Grazia è stata inserita nel laboratorio di
drammatizzazione con una classe di V elementare. L'ambiente, così carico di
entusiasmo, la disponibilità delle insegnanti e il grande riconoscimento delle
sue capacità artistiche sono stati gli elementi che hanno consentito a Grazia
di vincere, anche se faticosamente, la sua chiusura, la sua timidezza.
All'inizio la ragazza si limitava a
recitare le parti attribuitele accettando di esporsi; in un secondo momento ha
invece cominciato a elaborare lei stessa le parti che poi doveva interpretare.
Grazia, fin da subito, si è molto affezionata alle insegnanti, alle quali
assegnava, nelle numerose poesie che regalava loro, il ruolo di fate,
principesse, regine.
Il laboratorio si è concluso con una
festa dove è stato rappresentato di fronte ai genitori degli alunni e dei
nostri utenti uno degli spettacoli allestiti precedentemente. In questa
occasione Grazia, dopo aver recitato di fronte al pubblico, ha voluto di sua
iniziativa leggere dal palco i saluti e i ringraziamenti rivolti alla classe e
alle maestre che avevano lavorato con lei. Successivamente Grazia, che nel
frattempo ha continuato a frequentare la classe nel momento del pasto, ha
partecipato senza l'affiancamento di un educatore ad un soggiorno in montagna
organizzato dalla scuola.
L'esperienza di integrazione è
proseguita con l'invito a realizzare, in orario scolastico e sempre senza
educatore, uno spettacolo rappresentato in occasione di una festa borgarese
nel teatro comunale. Uno dei segnali di quanto Grazia sia cresciuta in seguito
a questa esperienza è dato dal cambiamento nel rapportarsi con gli altri
ragazzi e soprattutto con le insegnanti: le attività svolte concretamente
insieme a loro hanno fatto sì che morgane e principesse perdessero la
bacchetta magica per diventare personaggi della realtà quotidiana.
Vorremmo sottolineare che non solo
utenti meno compromessi, come Grazia che già aveva un buon grado di autonomia,
hanno raggiunto risultati positivi dall'esperienza laboratori, ma che ragazzi
con patologie decisamente più gravi - per i quali soprattutto, ricordiamo, sono
stati realizzati i laboratori - hanno avuto modo di ben integrarsi e di trovare
un ruolo all'interno del gruppo di lavoro.
Pensiamo a Paola, 33 anni, ragazza
con deficit intellettivo di grado elevato, con notevoli problemi comunicativi
e alla difficoltà incontrata, sin dall'inizio della presa in carico, da parte
degli educatori di coinvolgerla nelle attività proposte. Noi stessi siamo
rimasti stupiti dall'affetto spontaneo che i bambini hanno dimostrato nei suoi
confronti e da come questo rapporto abbia consentito a Paola di lavorare nel
laboratorio di falegnameria, dipingendo e compiendo insieme agli altri ragazzi
piccoli lavori.
Per Paola si è rivelato essere
importante non tanto l'attività in sé, quanto le persone con cui questa veniva
svolta ed il modo in cui le veniva proposta; per questo motivo quando il suo
gruppo ha cambiato attività, spontaneamente, lei lo ha seguito.
Vorremmo citare brani dei temi
svolti dai bambini che hanno partecipato al primo ciclo di laboratori, temi
raccolti in un libro regalato al nostro Centro dal titolo "Caro
CST"; l'augurio è che si riesca a cogliere l'invito alla spontaneità e naturalezza
nell'approcciarsi all'handicap che hanno dimostrato questi bambini.
Scrive Giuseppe: «Quando sono entrato sentivo delle
emozioni, agitazione e paura (..) per gli handicappati era una gioia lavorare
con noi e noi eravamo felici di lavorare con loro e loro ci davano delle idee
per le scenette».
Alberto: «A me piace andare al CST a lavorare, oltre tutto ho imparato una
lezione o forse di più: a me personalmente gli handicappati prima mi mettevano
addosso un senso di angoscia e di ribrezzo. Invece adesso ho capito che loro
hanno bisogno di volontari e penso che quando diventerò grande ci sarà un
volontario in più».
Infine Sabina: «Appena siamo entrati tutti sono rimasti stupiti, ma anch'io non so il
perché, come i miei compagni sono rimasta a bocca aperta, forse per i dipinti,
forse per i ragazzi, forse per il castello magnifico, o no, scusatemi, per la
strutturazione della magnifica casa che accoglieva i ragazzi. Chissà, chissà,
nessuno saprà mai il perché. Comunque a poco a poco facevamo amicizia con
questi ragazzi che in fondo in fondo erano ragazzi come noi (..). Il lavoro
che ho fatto con loro è stato molto bello e curioso perché lavorando e
parlando con loro e vedere quanto loro si sforzavano di dire dovete capire che
anche loro come noi sono esseri umani! Anche se loro hanno avuto dei problemi
durante la nascita sono persone come noi e perciò dobbiamo rispettarli».
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