Prospettive assistenziali, n. 107, luglio-settembre 1994

 

 

LE PERSONE SINGOLE E LE FAMIGLIE DI FATTO DI FRONTE ALL'ADOZIONE

PIER GIORGIO GOSSO

 

 

1.  Sono abbastanza noti - per essersene oc­cupati diffusamente gli organi di informazio­ne - i termini della questione sollevata dalla Corte d'Appello di Roma, che, prendendo spun­to da una domanda di adozione di minore pre­sentata dall'attrice Dalila Di Lazzaro (respinta dal Tribunale per i minorenni della capitale), aveva investito dell'argomento la Corte costitu­zionale, osservando come l'articolo 6 della Con­venzione europea in materia di adozione di mi­nori firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967 - in­vocato dall'attrice a sostegno della propria istanza («La legislazione non può permettere l'adozione - sia simultanea che successiva - di un minore che da parte di due persone unite in matrimonio, o da parte di un solo adottante») - permetterebbe ai giudici minorili italiani di di­sporre senza limiti l'adozione di un minore da parte di una persona singola, in quanto tale nor­ma sarebbe entrata a far parte del nostro ordi­namento in virtù della ratifica della suddetta Convenzione (intervenuta in Italia con legge 22 maggio 1974 n. 347).

Più in particolare, i giudici della Corte d'appel­lo di Roma sostenevano che la disposizione dell'articolo 6 della Convenzione di Strasburgo non potesse ritenersi abrogata dalla successiva e tuttora vigente legge 4 maggio 1983 n. 184 (la quale, nel disciplinare organicamente l'intera materia dell'adozione e dell'affidamento dei mi­nori, ammette espressamente all'articolo 25 l'adozione legittimante del minore da parte di una singola persona nel solo caso in cui uno dei coniugi adottanti muoia o divenga incapace du­rante l'affidamento preadottivo, e prevede inoltre all'articolo 44 che una persona singola possa ottenere l'adozione - peraltro non legittimante - di un minore che, divenuto orfano di entrambi i genitori, risulti a lei legato da rapporti affettivi o parentali, o di un minore di cui sia constatata l'impossibilità di collocamento in adozione pie­na), e pertanto chiedevano alla Corte costituzio­nale di verificare se la stessa non confligesse - in violazione del principio di ragionevolezza san­cito dall'articolo 3 della Costituzione - con l'obiettivo primario dell'adozione dei minori, e cioè con la finalità di procurare all'adottato l'in­serimento in un ambiente familiare (il cosiddetto criterio dell’“imitatio naturae”), e se inoltre non fosse da considerare incompatibile con la no­zione di famiglia - quale società naturale fonda­ta sul matrimonio - consacrata dall'articolo 29 della Costituzione, nonché con l'interesse delminore - riconosciuto dall'articolo 30 della stes­sa Costituzione - ad essere allevato ed educato da entrambi i genitori.

 

2.  Ai quesiti posti dalla Corte d'appello di Roma ha dato risposta negativa la Corte co­stituzionale con la sentenza n. 183 del 9 maggio 1994, ed anche tale decisione è stata ampia­mente riportata dai giornali, i quali non hanno mancato di sottolineare come nella loro senten­za i giudici della Consulta - pur respingendo la questione di costituzionalità nei termini prospet­tati dai magistrati romani - abbiano osservato che di per sé la Costituzione dello Stato non im­pedirebbe affatto ai giudici minorili di consentire alle persone singole di adottare un minore an­che al di fuori dei casi eccezionali previsti dai ci­tati articoli 25 e 44 della legge 184/83.

 

3.  L'importanza della materia richiede che alla decisione dei giudici costituzionali sia dedi­cata una riflessione più attenta di quanto non abbiano fatto gli articoli di stampa, i quali - pur riportando con sostanziale fedeltà il contenuto della sentenza - si sono però limitati a fornirne un riassunto estrememente succinto, senza in­quadrarlo nel più ampio contesto delle temati­che relative all'educazione dei minori ed alla prevenzione del disagio infantile.

Ed una riflessione del genere sembra davvero indispensabile nel caso specifico, sia per sgom­brare il campo da ogni possibile equivoco inter­pretativo che per formulare alcuni rilievi critici tutt'altro che trascurabili nei confronti delle con­siderazioni svolte dai giudici costituzionali.

 

4.  La sentenza annotata si muove lungo tre di­stinti punti argomentativi:

a) innanzi tutto la Corte ha respinto la tesi pro­pugnata dalla difesa della Di Lazzaro e dalla Corte d'appello di Roma, secondo la quale l'arti­colo 6 della Convenzione europea di Strasburgo sarebbe da considerarsi di «applicazione imme­diata» nel nostro ordinamento, e quindi vincole­rebbe il legislatore italiano ad ammettere senza particolari condizioni all'adozione le persone singole, attribuendo conseguentemente ai giudi­ci il potere di provvedere in tal senso anche al di fuori dei casi limitati entro i quali tale potere è stato circoscritto dalla legge 184/83. Al riguar­do, infatti, la Consulta ha giustamente fatto nota­re come il Consiglio d'Europa (promotore della suddetta Convenzione) avesse a suo tempo ben chiarito - nell'illustrare le finalità della medesi­ma in un apposito "rapport explicatif" - che il suo scopo era quello di sottoporre agli Stati aderenti un "minimo" di princìpi essenziali nel campo adozionale, e che con la stessa non si era affatto inteso rendere obbligatoria l'introdu­zione dell'adozione da parte di una persona sin­gola, ma piuttosto esprimere una esplicita prefe­renza per l'adozione da parte di una coppia (tanto è vero che il successivo articolo 8 dispo­neva al paragrafo 2 che «l'autorità competente degli Stati annetterà una particolare importanza affinché l'adozione procuri al minore un nucleo familiare stabile ed armonioso»), facendo in ogni caso divieto di procedere all'adozione nei con­fronti di coppie non unite dal matrimonio.

Si tratta, indubbiamente, di conclusione inec­cepibile. Infatti, la Convenzione di Strasburgo si era mossa nell'alveo (allora ai suoi albori) delle linee di sviluppo che, a diversi livelli di matura­zione, andavano in quegli anni affermandosi nel­le coscienze delle principali aree geografiche circa l'evoluzione in atto dell'istituto dell'adozio­ne minorile da fenomeno di indole meramente contrattuale e dispositiva ad espressione di strumento di diritto familiare, fino ad assurgere alla valenza di mezzo di protezione dell'infanzia ed a prefigurarne le prevalenti funzioni di inte­grazione sociale del minore. Era, in sostanza, un primo - anche se per certi versi timido ed in­completo - tentativo di mettere in risalto, in for­ma di pattuizione e nel rispetto delle differenze del costume di ogni singolo Stato (ed in termini oltremodo elastici), una serie di valori di riferi­mento cui ciascun Paese firmatario avrebbe poi potuto ispirarsi per accelerare il processo di riavvicinamento e di uniformazione delle rispetti­ve legislazioni minorili: il tutto cementato dall'idea-guida di perseguire il fine primario di assicurare, sotto le diverse latitudini, il diritto ad un valido ambiente familiare ai minori che ne fossero privi o che non ne disponessero di uno idoneo. Ed è sotto questo profilo che vanno per­tanto ancora oggi letti, a tanti anni di distanza, quei princìpi (di sapore quasi rivoluzionario, all'epoca) che introducevano, tra l'altro, la pos­sibilità di disporre l'adozione anche senza il consenso dei genitori di origine del minore (arti­colo 5), e che richiedevano nell'interesse esclu­sivo del minore dei particolari requisiti di età e di idoneità educativa in capo agli adottanti (articoli 7, 8 e 9), così come quelli che riconoscevano la liceità di adozioni plurime o successive da parte degli stessi adottanti (articolo 12), e che cal­deggiavano l'opportunità di preservare il segre­to in merito all'identità ed alla provenienza dei minori e delle rispettive famiglie di origine e di accoglienza (articolo 20).

Norma di capitale importanza, nel senso so­pra indicato, era poi rappresentata, soprattutto, dall'articolo 16 della Convenzione, in cui si di­sponeva espressamente che «ogni parte con­traente conserva la facoltà di adottare disposi­zioni più favorevoli nei confronti dei minori adot­tati». E proprio per meglio realizzare il prevalente interesse del minore ad una più completa espe­rienza formativa della sua personalità la legge 5 giugno 1967 n. 431 prima e la legge 4 maggio 1983 n. 184 poi (quest'ultima, come si sa, tuttora in vigore) introdussero nella legislazione interna del nostro Stato l'obbligatorietà del rapporto matrimoniale in atto come requisito indispensa­bile per adottare un minore di età, limitando dra­sticamente - come si è visto - i casi in cui era consentito affidare in adozione i minori a perso­ne singole.

Altrettanto pertinente appare, in quest'angolo visuale, il rinvio che nella sentenza della Corte costituzionale viene fatto alle più recenti enun­ciazioni contenute nella Convenzione dell'ONU del 20 novembre 1989 sui diritti dell'infanzia (cui vanno aggiunti i princìpi approvati dalla Confe­renza dell'Aja del 29 maggio 1993 sulla tutela dei bambini e sulla cooperazione nell'adozione internazionale), dove si insiste in particolar mo­do sull'opportunità che i minori abbandonati sia­no introdotti al più presto in una vera e propria compagine familiare. E così pure non è da tra­scurare il richiamo ad una precedente sentenza della stessa Corte costituzionale (n. 198 del 1986), nella quale si ribadiva con estrema luci­dità, l'esigenza, da un lato, di inserire il minore abbandonato in una famiglia fornita di indispen­sabili garanzie di stabilità, e, dall'altro, di assicu­rargli la presenza, sotto l'aspetto affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori;

b) a stretto corollario del principio sopra affer­mato, la Corte costituzionale ha pertanto enun­ciato a chiare lettere che per dar corso in Italia all'adozione indiscriminata di un minore da par­te di una persona singola non può dunque ba­stare il richiamo puro e semplice alla ratifica della Convenzione di Strasburgo intervenuta nel lontano 1974, occorrendo a tal fine l'emanazio­ne di una vera e propria legge interna "ad hoc", che specifichi, tra l'altro, i presupposti di ammis­sione dei richiedenti e gli effetti da riconoscere all'adozione che si vorrebbe introdurre: legge che finora non è stata emanata.

Senonché, sul punto, il giudice estensore ha poi ritenuto di dover aggiungere una postilla esplicativa, sulla quale non può non manifestar­si il più netto dissenso. Si osserva nella senten­za che, proprio avvalendosi della facoltà (rico­nosciuta dall'articolo 6 della Convenzione di Strasburgo) di ampliare l'ambito di ammissibilità dell'adozione di un minore da parte di un solo adottante qualificandola con gli effetti dell'ado­zione "piena" (e, cioè, riconoscendo all'adottato lo "status" di figlio legittimo), lo stesso legislato­re italiano starebbe orientandosi in quest'ultima direzione, come si ricaverebbe dal progetto di riforma dell'adozione redatto nel 1992 dalla Commissione ministeriale per la modifica e l'in­tegrazione della legge 184/83, istituita il 4 otto­bre 1989 dal Ministro di grazia e giustizia. L'as­serzione è destituita di qualsiasi fondamento, in quanto il citato progetto si limita a disporre te­stualmente, agli articoli 9, comma 2, e 10, com­ma 2, che l'adozione può essere consentita an­che a soggetti singoli (purché di età non inferio­re ai ventun'anni) nei soli casi in cui si tratti di «persone unite al minore, orfano di padre e di madre, da vincolo di parentela fino al sesto gra­do o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori», così ribadendo sostan­zialmente (e con la sola innovazione - peraltro da condividere - consistente nell'estendere an­che a tali casi l'effetto "pieno" dell'adozione) il disposto di cui all'articolo 44 della legge 184/83 tuttora vigente. Non si riesce, perciò, a com­prendere come si sia potuto incorrere in un ab­baglio così vistoso, il quale, nel fornire un'infor­mazione del tutto errata, rischia di assecondare propensioni riformistiche ben poco meditate;

c) tutto da discutere, poi, sembra a chi scrive, il contenuto del terzo ed ultimo passaggio argo­mentativo della sentenza, là dove si enuncia in maniera perentoria che, in ogni caso, i princìpi costituzionali richiamati dalla Corte d'appello di Roma (e cioè, si ripete, gli articoli 3, 29 e 30 del­la Costituzione), limitandosi ad indicare una "preferenza" per l'adozione del minore da parte di una coppia di coniugi, non vincolerebbero af­fatto l'adozione dei minori al criterio dell’“imita­tio naturae” e non impedirebbero perciò un'eventuale innovazione legislativa che - in presenza di "speciali circostanze" - ricono­scesse in maniera più ampia dell'attuale la pos­sibilità di adottare da parte di una persona sin­gola.

C'è davvero da stupirsi nel constatare come ad una simile conclusione si sia pervenuti in maniera del tutto apodittica e nello spazio di. qualche riga di testo, senza nemmeno abbozza­re al riguardo un qualche tentativo di motivazio­ne.

Ed infatti, come si è accennato all'inizio di queste brevi note, è proprio sul terreno costitu­zionale che andrebbe condotto e sviluppato un discorso serio e penetrante sulle finalità dell'isti­tuto dell'adozione minorile e sui criteri da perse­guire di volta in volta nella sua prassi attuativa. Sotto questo aspetto, il provvedimento della Corte costituzionale appare piuttosto deludente,

poiché - si ripete - non è dato di rintracciarvi alcun valido ragionamento di supporto.

Non è certamente questa la sede per adden­trarsi in maniera esauriente nella disamina di tutte le complesse sfaccettature del problema (disamina che richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello destinato ad ospitare queste modeste considerazioni). Ma, pur nei limiti del presente commento, ci sia consentito di osser­vare con ferma convinzione come sia proprio l'intero impianto costituzionale ad aver permea­to nella sua essenza la disciplina dell'adozione dei minori disegnata dalla legge 184/83.

Ed in proposito non si ricorderà mai abba­stanza che la Carta costituzionale (articolo 2) ha inserito tra i doveri primari dello Stato quello di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uo­mo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, assumendo il solenne impegno (ar­ticolo 3, comma 2) di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e di assicurare l'assistenza e l'educazio­ne dei minori in tutti i casi di incapacità dei loro genitori (articolo 30, comma 2): i diritti ed impe­gni che non possono riguardare in principalità proprio l'educazione dell'infanzia in stato di ab­bandono, aiutando a capire come debba conti­nuare ad essere considerato indispensabile, per una buona riuscita dell'esperienza adozionale, l'affidamento del minore abbandonato ad una famiglia composta almeno da due ben precise figure genitoriali.

È dunque in quest'ottica che vanno verificati i valori da porre in primo piano nella realizzazione delle adozioni dei minori, più che nei princìpi di uguaglianza e di tutela della famiglia matrimo­niale invocati dai giudici della Corte d'appello di Roma e presi in esame di sfuggita dalla Corte costituzionale. Si comprenderà, allora, come suoni quanto meno affrettata e superficiale l'af­fermazione che vorrebbe considerare i valori costituzionali estranei (o comunque indifferenti o genericamente permissivi) rispetto alla temati­ca dell'adozione dei minori da parte di persone singole, in nome di un imprecisato concetto di "progresso" o di "evoluzione dei costumi" che dovrebbe di per sé far accettare senza discute­re l'invocata estensione dei soggetti cui ricono­scere l'idoneità all'adozione. Ancora una volta sorge il sospetto che ad ispirare certe riforme sia non tanto l'apertura sociale verso un nuovo e più "moderno" concetto di famiglia, quanto - in buona sostanza - la mai sopita tendenza a dar soddisfazione alle ricorrenti richieste di quanti vanno proclamando il riconoscimento di un presunto "diritto all'adozione" in capo a cia­scun individuo adulto.

 

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5.  Con una più recente e più meditata senten­za (n. 281 del 23.6.1994), la Corte costitu­zionale si è, poi, pronunciata - respingendola - su di un'altra questione sollevata dal Tribunale per i minorenni di Genova con riferimento alla domanda di adozione presentata da una coppia di coniugi che non aveva maturato i tre anni mi­nimi di rapporto matrimoniale previsti dall'artico­l0 6 della legge 184/83, ma aveva documentato un pregresso rapporto di convivenza di oltre dieci anni: in proposito il Tribunale aveva affac­ciato alcuni dubbi sulla legittimità costituzionale di tale norma, rilevando che la stessa, non pren­dendo in considerazione il periodo di conviven­za degli aspiranti all'adozione, sarebbe in con­trasto sia con l'articolo 2, nel cui ambito andreb­be ricompresa la tutela della famiglia di fatto co­me formazione sociale) che con l'articolo 3 della Costituzione (dando luogo ad una irragionevole disparità di trattamento tra coppie unite in matri­monio e conviventi “more uxorio”).

 

6.  Con grande chiarezza la Corte costituziona­le ha innanzi tutto ricordato - in linea con una lunga serie di sentenze emesse tra il 1980 ed il 1993 - che l'adozione è finalizzata alla tu­tela prevalente del minore: il che «comporta tra l'altro che, ai fini della complessa opera di sele­zione dei soggetti idonei a svolgere il delicatissi­mo compito di accogliere ed educare un bambi­no abbandonato, costituisce criterio fondamen­tale quello che la doppia figura genitoriale sia unita dal vincolo giuridico che garantisce stabili­tà, certezza, reciprocità e corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto». Inoltre i giudici costituzionali hanno con altret­tanta chiarezza ribadito - sempre sulla scorta di precedenti decisioni della Consulta - come nel nostro ordinamento giuridico l'aspirazione ad adottare non appartenga alla sfera dei diritti co­stituzionalmente protetti: non esiste, insomma, un "diritto all'adozione" per nessuna categoria di cittadini.

 

7.  Sotto il profilo dell'interesse del minore (che rappresenta l'unico bene protetto dalla le­gislazione sull'adozione), la Corte ha infine os­servato che - fermo restando l'indefettibile pre­supposto dell'unione matrimoniale - potrebbe in certi casi specifici ritenersi altrettanto tutelato il minore che venga adottato da una coppia spo­sata da poco tempo, ma collaudata da un lungo periodo precedente di convivenza: : ciò anche in considerazione del sempre maggior rilievo che, nell'evolversi dei costumi, starebbe appun­to acquistando la convivenza "more uxorio".

Si tratta, però, di un'innovazione che, coinvol­gendo una serie assai impegnativa di valori ed esigendo complesse valutazioni sulla concreta idoneità degli aspiranti all'adozione, non può certamente farsi discendere "sic et simpliciter" dal principio di uguaglianza di cui all'articolo 3 della Costituzione (si è visto, infatti, che in tema di adozione gli adulti non hanno alcun diritto da far valere).

È dunque da condividere l'equilibrata conclu­sione cui è pervenuta la sentenza della Corte, secondo la quale un'innovazione del genere - sia per evitare disparità di trattamento tra adot­tandi o tra coniugi che per assicurare un'indi­spensabile uniformità di comportamenti su tutto il territorio nazionale - non potrebbe che scatu­rire da una modifica della vigente legge sull'adozione (modifica, ci permettiamo di ag­giungere, che in ogni caso dovrebbe essere at­tentamente meditata, anche per non suscitare nella pubblica opinione - a tutt'oggi pesante­mente condizionata da poca cultura e da scarsa sensibilità sui problemi dell'infanzia - delle aspettative impossibili da soddisfare).

 

 

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