LE PERSONE SINGOLE E LE FAMIGLIE DI FATTO DI FRONTE ALL'ADOZIONE
PIER GIORGIO GOSSO
1. Sono
abbastanza noti - per essersene occupati diffusamente gli organi di informazione
- i termini della questione sollevata dalla Corte d'Appello di Roma, che, prendendo
spunto da una domanda di adozione di minore presentata dall'attrice Dalila Di
Lazzaro (respinta dal Tribunale per i minorenni della capitale), aveva
investito dell'argomento la Corte costituzionale, osservando come l'articolo 6
della Convenzione europea in materia di adozione di minori firmata a
Strasburgo il 24 aprile 1967 - invocato dall'attrice a sostegno della propria
istanza («La legislazione non può permettere l'adozione - sia simultanea che
successiva - di un minore che da parte di due persone unite in matrimonio, o da
parte di un solo adottante») - permetterebbe ai giudici minorili italiani di disporre
senza limiti l'adozione di un minore da parte di una persona singola, in quanto
tale norma sarebbe entrata a far parte del nostro ordinamento in virtù della
ratifica della suddetta Convenzione (intervenuta in Italia con legge 22 maggio
1974 n. 347).
Più in particolare, i giudici della Corte d'appello
di Roma sostenevano che la disposizione dell'articolo 6 della Convenzione di
Strasburgo non potesse ritenersi abrogata dalla successiva e tuttora vigente
legge 4 maggio 1983 n. 184 (la quale, nel disciplinare organicamente l'intera
materia dell'adozione e dell'affidamento dei minori, ammette espressamente
all'articolo 25 l'adozione legittimante del minore da parte di una singola
persona nel solo caso in cui uno dei coniugi adottanti muoia o divenga incapace
durante l'affidamento preadottivo, e prevede inoltre all'articolo 44 che una
persona singola possa ottenere l'adozione - peraltro non legittimante - di un
minore che, divenuto orfano di entrambi i genitori, risulti a lei legato da
rapporti affettivi o parentali, o di un minore di cui sia constatata
l'impossibilità di collocamento in adozione piena), e pertanto chiedevano alla
Corte costituzionale di verificare se la stessa non confligesse - in
violazione del principio di ragionevolezza sancito dall'articolo 3 della
Costituzione - con l'obiettivo primario dell'adozione dei minori, e cioè con la
finalità di procurare all'adottato l'inserimento in un ambiente familiare (il
cosiddetto criterio dell’“imitatio
naturae”), e se inoltre non fosse da considerare incompatibile con la nozione
di famiglia - quale società naturale fondata sul matrimonio - consacrata
dall'articolo 29 della Costituzione, nonché con l'interesse delminore -
riconosciuto dall'articolo 30 della stessa Costituzione - ad essere allevato
ed educato da entrambi i genitori.
2. Ai quesiti
posti dalla Corte d'appello di Roma ha dato risposta negativa la Corte costituzionale
con la sentenza n. 183 del 9 maggio 1994, ed anche tale decisione è stata ampiamente
riportata dai giornali, i quali non hanno mancato di sottolineare come nella
loro sentenza i giudici della Consulta - pur respingendo la questione di
costituzionalità nei termini prospettati dai magistrati romani - abbiano
osservato che di per sé la Costituzione dello Stato non impedirebbe affatto ai
giudici minorili di consentire alle persone singole di adottare un minore anche
al di fuori dei casi eccezionali previsti dai citati articoli 25 e 44 della
legge 184/83.
3. L'importanza
della materia richiede che alla decisione dei giudici costituzionali sia dedicata
una riflessione più attenta di quanto non abbiano fatto gli articoli di stampa,
i quali - pur riportando con sostanziale fedeltà il contenuto della sentenza -
si sono però limitati a fornirne un riassunto estrememente succinto, senza inquadrarlo
nel più ampio contesto delle tematiche relative all'educazione dei minori ed
alla prevenzione del disagio infantile.
Ed una riflessione del genere sembra davvero
indispensabile nel caso specifico, sia per sgombrare il campo da ogni
possibile equivoco interpretativo che per formulare alcuni rilievi critici
tutt'altro che trascurabili nei confronti delle considerazioni svolte dai
giudici costituzionali.
4.
La sentenza annotata si muove
lungo tre distinti punti argomentativi:
a) innanzi tutto la Corte ha respinto la tesi propugnata
dalla difesa della Di Lazzaro e dalla Corte d'appello di Roma, secondo la quale
l'articolo 6 della Convenzione europea di Strasburgo sarebbe da considerarsi
di «applicazione immediata» nel nostro ordinamento, e quindi vincolerebbe il
legislatore italiano ad ammettere senza particolari condizioni all'adozione le
persone singole, attribuendo conseguentemente ai giudici il potere di
provvedere in tal senso anche al di fuori dei casi limitati entro i quali tale
potere è stato circoscritto dalla legge 184/83. Al riguardo, infatti, la
Consulta ha giustamente fatto notare come il Consiglio d'Europa (promotore
della suddetta Convenzione) avesse a suo tempo ben chiarito - nell'illustrare
le finalità della medesima in un apposito "rapport
explicatif" - che il suo scopo era quello di sottoporre agli Stati
aderenti un "minimo" di princìpi essenziali nel campo adozionale, e
che con la stessa non si era affatto inteso rendere obbligatoria l'introduzione
dell'adozione da parte di una persona singola, ma piuttosto esprimere una
esplicita preferenza per l'adozione da parte di una coppia (tanto è vero che
il successivo articolo 8 disponeva al paragrafo 2 che «l'autorità competente
degli Stati annetterà una particolare importanza affinché l'adozione procuri al
minore un nucleo familiare stabile ed armonioso»), facendo in ogni caso divieto
di procedere all'adozione nei confronti di coppie non unite dal matrimonio.
Si tratta, indubbiamente, di conclusione ineccepibile.
Infatti, la Convenzione di Strasburgo si era mossa nell'alveo (allora ai suoi
albori) delle linee di sviluppo che, a diversi livelli di maturazione,
andavano in quegli anni affermandosi nelle coscienze delle principali aree
geografiche circa l'evoluzione in atto dell'istituto dell'adozione minorile da
fenomeno di indole meramente contrattuale e dispositiva ad espressione di
strumento di diritto familiare, fino ad assurgere alla valenza di mezzo di
protezione dell'infanzia ed a prefigurarne le prevalenti funzioni di integrazione
sociale del minore. Era, in sostanza, un primo - anche se per certi versi
timido ed incompleto - tentativo di mettere in risalto, in forma di
pattuizione e nel rispetto delle differenze del costume di ogni singolo Stato
(ed in termini oltremodo elastici), una serie di valori di riferimento cui
ciascun Paese firmatario avrebbe poi potuto ispirarsi per accelerare il
processo di riavvicinamento e di uniformazione delle rispettive legislazioni
minorili: il tutto cementato dall'idea-guida di perseguire il fine primario di
assicurare, sotto le diverse latitudini, il diritto ad un valido ambiente
familiare ai minori che ne fossero privi o che non ne disponessero di uno
idoneo. Ed è sotto questo profilo che vanno pertanto ancora oggi letti, a
tanti anni di distanza, quei princìpi (di sapore quasi rivoluzionario,
all'epoca) che introducevano, tra l'altro, la possibilità di disporre
l'adozione anche senza il consenso dei genitori di origine del minore (articolo
5), e che richiedevano nell'interesse esclusivo del minore dei particolari
requisiti di età e di idoneità educativa in capo agli adottanti (articoli 7, 8
e 9), così come quelli che riconoscevano la liceità di adozioni plurime o
successive da parte degli stessi adottanti (articolo 12), e che caldeggiavano
l'opportunità di preservare il segreto in merito all'identità ed alla
provenienza dei minori e delle rispettive famiglie di origine e di accoglienza
(articolo 20).
Norma di capitale importanza, nel senso sopra
indicato, era poi rappresentata, soprattutto, dall'articolo 16 della
Convenzione, in cui si disponeva espressamente che «ogni parte contraente
conserva la facoltà di adottare disposizioni più favorevoli nei confronti dei
minori adottati». E proprio per meglio realizzare il prevalente interesse del
minore ad una più completa esperienza formativa della sua personalità la legge
5 giugno 1967 n. 431 prima e la legge 4 maggio 1983 n. 184 poi (quest'ultima,
come si sa, tuttora in vigore) introdussero nella legislazione interna del
nostro Stato l'obbligatorietà del rapporto matrimoniale in atto come requisito
indispensabile per adottare un minore di età, limitando drasticamente - come
si è visto - i casi in cui era consentito affidare in adozione i minori a persone
singole.
Altrettanto pertinente appare, in quest'angolo
visuale, il rinvio che nella sentenza della Corte costituzionale viene fatto
alle più recenti enunciazioni contenute nella Convenzione dell'ONU del 20
novembre 1989 sui diritti dell'infanzia (cui vanno aggiunti i princìpi
approvati dalla Conferenza dell'Aja del 29 maggio 1993 sulla tutela dei
bambini e sulla cooperazione nell'adozione internazionale), dove si insiste in
particolar modo sull'opportunità che i minori abbandonati siano introdotti al
più presto in una vera e propria compagine familiare. E così pure non è da trascurare
il richiamo ad una precedente sentenza della stessa Corte costituzionale (n.
198 del 1986), nella quale si ribadiva con estrema lucidità, l'esigenza, da un
lato, di inserire il minore abbandonato in una famiglia fornita di indispensabili
garanzie di stabilità, e, dall'altro, di assicurargli la presenza, sotto
l'aspetto affettivo ed educativo, di entrambe le figure dei genitori;
b) a stretto corollario del principio sopra affermato,
la Corte costituzionale ha pertanto enunciato a chiare lettere che per dar
corso in Italia all'adozione indiscriminata di un minore da parte di una
persona singola non può dunque bastare il richiamo puro e semplice alla
ratifica della Convenzione di Strasburgo intervenuta nel lontano 1974,
occorrendo a tal fine l'emanazione di una vera e propria legge interna
"ad hoc", che specifichi, tra l'altro, i presupposti di ammissione
dei richiedenti e gli effetti da riconoscere all'adozione che si vorrebbe
introdurre: legge che finora non è stata emanata.
Senonché, sul punto, il giudice estensore ha poi
ritenuto di dover aggiungere una postilla esplicativa, sulla quale non può non
manifestarsi il più netto dissenso. Si osserva nella sentenza che, proprio
avvalendosi della facoltà (riconosciuta dall'articolo 6 della Convenzione di
Strasburgo) di ampliare l'ambito di ammissibilità dell'adozione di un minore da
parte di un solo adottante qualificandola con gli effetti dell'adozione
"piena" (e, cioè, riconoscendo all'adottato lo "status" di
figlio legittimo), lo stesso legislatore italiano starebbe orientandosi in
quest'ultima direzione, come si ricaverebbe dal progetto di riforma
dell'adozione redatto nel 1992 dalla Commissione ministeriale per la modifica e
l'integrazione della legge 184/83, istituita il 4 ottobre 1989 dal Ministro
di grazia e giustizia. L'asserzione è destituita di qualsiasi fondamento, in
quanto il citato progetto si limita a disporre testualmente, agli articoli 9,
comma 2, e 10, comma 2, che l'adozione può essere consentita anche a soggetti
singoli (purché di età non inferiore ai ventun'anni) nei soli casi in cui si
tratti di «persone unite al minore, orfano di padre e di madre, da vincolo di
parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente
alla perdita dei genitori», così ribadendo sostanzialmente (e con la sola
innovazione - peraltro da condividere - consistente nell'estendere anche a
tali casi l'effetto "pieno" dell'adozione) il disposto di cui
all'articolo 44 della legge 184/83 tuttora vigente. Non si riesce, perciò, a
comprendere come si sia potuto incorrere in un abbaglio così vistoso, il
quale, nel fornire un'informazione del tutto errata, rischia di assecondare
propensioni riformistiche ben poco meditate;
c) tutto da discutere, poi, sembra a chi scrive, il
contenuto del terzo ed ultimo passaggio argomentativo della sentenza, là dove
si enuncia in maniera perentoria che, in ogni caso, i princìpi costituzionali
richiamati dalla Corte d'appello di Roma (e cioè, si ripete, gli articoli 3, 29
e 30 della Costituzione), limitandosi ad indicare una "preferenza"
per l'adozione del minore da parte di una coppia di coniugi, non vincolerebbero
affatto l'adozione dei minori al criterio dell’“imitatio naturae” e non impedirebbero perciò un'eventuale
innovazione legislativa che - in presenza di "speciali circostanze" -
riconoscesse in maniera più ampia dell'attuale la possibilità di adottare da
parte di una persona singola.
C'è davvero da stupirsi nel constatare come ad una
simile conclusione si sia pervenuti in maniera del tutto apodittica e nello
spazio di. qualche riga di testo, senza nemmeno abbozzare al riguardo un
qualche tentativo di motivazione.
Ed infatti, come si è accennato all'inizio di queste
brevi note, è proprio sul terreno costituzionale che andrebbe condotto e
sviluppato un discorso serio e penetrante sulle finalità dell'istituto
dell'adozione minorile e sui criteri da perseguire di volta in volta nella sua
prassi attuativa. Sotto questo aspetto, il provvedimento della Corte
costituzionale appare piuttosto deludente,
poiché - si ripete - non è
dato di rintracciarvi alcun valido ragionamento di supporto.
Non è certamente questa la sede per addentrarsi in
maniera esauriente nella disamina di tutte le complesse sfaccettature del
problema (disamina che richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello
destinato ad ospitare queste modeste considerazioni). Ma, pur nei limiti del
presente commento, ci sia consentito di osservare con ferma convinzione come
sia proprio l'intero impianto costituzionale ad aver permeato nella sua
essenza la disciplina dell'adozione dei minori disegnata dalla legge 184/83.
Ed in proposito non si ricorderà mai abbastanza che
la Carta costituzionale (articolo 2) ha inserito tra i doveri primari dello
Stato quello di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, assumendo il solenne
impegno (articolo 3, comma 2) di rimuovere gli ostacoli che impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e di assicurare l'assistenza e l'educazione
dei minori in tutti i casi di incapacità dei loro genitori (articolo 30, comma
2): i diritti ed impegni che non possono riguardare in principalità proprio
l'educazione dell'infanzia in stato di abbandono, aiutando a capire come debba
continuare ad essere considerato indispensabile, per una buona riuscita
dell'esperienza adozionale, l'affidamento del minore abbandonato ad una
famiglia composta almeno da due ben precise figure genitoriali.
È dunque in quest'ottica che vanno verificati i
valori da porre in primo piano nella realizzazione delle adozioni dei minori,
più che nei princìpi di uguaglianza e di tutela della famiglia matrimoniale
invocati dai giudici della Corte d'appello di Roma e presi in esame di sfuggita
dalla Corte costituzionale. Si comprenderà, allora, come suoni quanto meno
affrettata e superficiale l'affermazione che vorrebbe considerare i valori
costituzionali estranei (o comunque indifferenti o genericamente permissivi)
rispetto alla tematica dell'adozione dei minori da parte di persone singole,
in nome di un imprecisato concetto di "progresso" o di
"evoluzione dei costumi" che dovrebbe di per sé far accettare senza
discutere l'invocata estensione dei soggetti cui riconoscere l'idoneità
all'adozione. Ancora una volta sorge il sospetto che ad ispirare certe riforme
sia non tanto l'apertura sociale verso un nuovo e più "moderno"
concetto di famiglia, quanto - in buona sostanza - la mai sopita tendenza a dar
soddisfazione alle ricorrenti richieste di quanti vanno proclamando il
riconoscimento di un presunto "diritto all'adozione" in capo a ciascun
individuo adulto.
* * *
5. Con
una più recente e più meditata sentenza (n. 281 del 23.6.1994), la Corte
costituzionale si è, poi, pronunciata - respingendola - su di un'altra
questione sollevata dal Tribunale per i minorenni di Genova con riferimento
alla domanda di adozione presentata da una coppia di coniugi che non aveva
maturato i tre anni minimi di rapporto matrimoniale previsti dall'articol0 6
della legge 184/83, ma aveva documentato un pregresso rapporto di convivenza di
oltre dieci anni: in proposito il Tribunale aveva affacciato alcuni dubbi
sulla legittimità costituzionale di tale norma, rilevando che la stessa, non
prendendo in considerazione il periodo di convivenza degli aspiranti
all'adozione, sarebbe in contrasto sia con l'articolo 2, nel cui ambito andrebbe
ricompresa la tutela della famiglia di fatto come formazione sociale) che con
l'articolo 3 della Costituzione (dando luogo ad una irragionevole disparità di
trattamento tra coppie unite in matrimonio e conviventi “more uxorio”).
6. Con
grande chiarezza la Corte costituzionale ha innanzi tutto ricordato - in linea
con una lunga serie di sentenze emesse tra il 1980 ed il 1993 - che l'adozione
è finalizzata alla tutela prevalente del minore: il che «comporta tra l'altro
che, ai fini della complessa opera di selezione dei soggetti idonei a svolgere
il delicatissimo compito di accogliere ed educare un bambino abbandonato,
costituisce criterio fondamentale quello che la doppia figura genitoriale sia
unita dal vincolo giuridico che garantisce stabilità, certezza, reciprocità e
corrispettività di diritti e doveri del nucleo in cui il minore sarà accolto».
Inoltre i giudici costituzionali hanno con altrettanta chiarezza ribadito -
sempre sulla scorta di precedenti decisioni della Consulta - come nel nostro
ordinamento giuridico l'aspirazione ad adottare non appartenga alla sfera dei
diritti costituzionalmente protetti: non esiste, insomma, un "diritto
all'adozione" per nessuna categoria di cittadini.
7. Sotto
il profilo dell'interesse del minore (che rappresenta l'unico bene protetto
dalla legislazione sull'adozione), la Corte ha infine osservato che - fermo
restando l'indefettibile presupposto dell'unione matrimoniale - potrebbe in
certi casi specifici ritenersi altrettanto tutelato il minore che venga
adottato da una coppia sposata da poco tempo, ma collaudata da un lungo
periodo precedente di convivenza: : ciò anche in considerazione del sempre
maggior rilievo che, nell'evolversi dei costumi, starebbe appunto acquistando
la convivenza "more uxorio".
Si tratta, però, di un'innovazione che, coinvolgendo
una serie assai impegnativa di valori ed esigendo complesse valutazioni sulla
concreta idoneità degli aspiranti all'adozione, non può certamente farsi discendere
"sic et simpliciter" dal
principio di uguaglianza di cui all'articolo 3 della Costituzione (si è visto,
infatti, che in tema di adozione gli adulti non hanno alcun diritto da far
valere).
È dunque da condividere l'equilibrata conclusione
cui è pervenuta la sentenza della Corte, secondo la quale un'innovazione del
genere - sia per evitare disparità di trattamento tra adottandi o tra coniugi
che per assicurare un'indispensabile uniformità di comportamenti su tutto il
territorio nazionale - non potrebbe che scaturire da una modifica della
vigente legge sull'adozione (modifica, ci permettiamo di aggiungere, che in
ogni caso dovrebbe essere attentamente meditata, anche per non suscitare nella
pubblica opinione - a tutt'oggi pesantemente condizionata da poca cultura e da
scarsa sensibilità sui problemi dell'infanzia - delle aspettative impossibili
da soddisfare).
www.fondazionepromozionesociale.it