Notiziario del Centro italiano per l'adozione
internazionale
IL BAMBINO SUD (*)
Ogni Paese ha il suo Sud la cui collocazione
geografica non sempre coincide con il posizionamento dell'ago sulla bussola e,
in questo Sud, vivono dei bambini le cui storie esprimono e rappresentano il
Sud più Sud del mondo.
Se proviamo a ruotare il mappamondo e a fare lo
sforzo di concentrarci su ogni singola nazione che, mano a mano, ci viene
incontro dall'Africa, dall'Asia, dall'America Latina e dall'Europa,
soffermandoci a considerare come è vissuta l'infanzia, ci renderemo conto che
i bambini che vivono in situazioni di indigenza, sfruttamento e abbandono sono
una massa enorme.
Eppure i bambini rappresentano il futuro, ci
restituiranno, domani ciò che diamo - o non diamo - loro oggi. E dobbiamo dare
in fretta. L'infanzia è breve: è un contenitore che permette al bambino di
incamerare modelli culturali, sociali, morali e di comportamento per poi poterli
riproporre e trasmettere da adulto.
La
condizione dell'infanzia è il biglietto da visita di un Paese.
II Brasile, ad esempio, è tristemente identificato
con il problema dei "meninos de
rua" (bambini di strada). Chi di noi ha avuto modo di vedere
reportage, leggere libri ed articoli, può ben comprendere di cosa io stia
parlando. Ma quando il racconto è fatto dalla viva voce di qualcuno per cui
questa vita è la sua vita quotidiana e questo qualcuno ti sta davanti
guardandoti con occhi intensi, capace di memorizzare il più piccolo cambiamento
della tua espressione, perché è sicuro che quanto sta dicendo non può non avere
effetto su di te, la cosa cambia aspetto. Ci si rende conto che a ben poco
serve la corazza che ci si è volutamente cucito addosso nel tempo, con tenacia
e caparbietà. Riesce difficile staccare gli occhi da quelle labbra che continuano
il racconto che si vorrebbe fermare, si sente che la pelle si accappona e si
vorrebbe fuggire. Un senso di impotenza e di frustrazione si fa strada
lentamente. Si cerca di nascondere il braccio con l'orologio, la mano con
l'anello o la borsa di pelle alla moda che appaiono veramente inutili e che ci
fanno sentire parte portante di quel consumismo che traccia il solco tra il
Nord e Sud del mondo. Ma lui, Luiz, continua inesorabile: «Mamma e papà litigavano sempre, papà non aveva un lavoro fisso,
beveva, picchiava la mamma che ogni tanto fuggiva lasciando i bambini da soli
che dovevano arrangiarsi fino al suo ritorno. La tranquillità durava un giorno
0 due e poi tutto ricominciava da capo. I fratelli più grandi già facevano
parte di una banda che cercava sopravvivenza sulle strade e a casa tornavano
solo per vedere se c'era ancora».
Lui, il più piccolo, era lì ad aspettare di crescere
ansioso di seguire le orme dei fratelli. Non dovette attendere molto: serviva
un bambino che tenesse le armi prima e la refurtiva poi. Così, nel caso fosse
stato fermato, poliziotti e giudici, data la sua giovane età, sarebbero stati
più clementi. Ormai era in carriera. Si sentiva importante, i grandi avevano
bisogno di lui e gli davano fiducia: uscì di casa - se casa si potevano
chiamare le quattro lamiere vicino alla fogna a cielo aperto - anche lui
viveva sulla strada, dormiva al riparo di scatole di cartone, ma era entrato
in una "famiglia autogestita", la grande famiglia dei ragazzi di
strada, dove c'era partecipazione, solidarietà e protezione nel momento del
bisogno; bastava rispettare i ruoli e gli incarichi. Scorribande, furterelli,
lotte con le bande avversarie riempivano le giornate. Era come un gioco dove la
posta era la vita. Lo scoprivano quando qualche amico veniva trovato morto
ammazzato. Certo erano momenti tristi, ma duravano poco perché la lotta
quotidiana per la sopravvivenza prendeva il sopravvento. E si ricominciava
dimenticando la tristezza, l'angoscia, le paure e i pianti fatti di nascosto
per non perdere la fama. A 14 anni Luiz - l'ha dichiarato lui, non si sa se
per spavalderia o se era verità - aveva sulla pelle quattro omicidi, varie
rapine, spaccio di droga, furti e una serie di denunce di cui non ricordava il
numero.
Eppure nella Convenzione internazionale sui diritti
dell'infanzia si legge che gli Stati parti della Convenzione «... Ricordato che nella Dichiarazione
universale dei diritti dell'Uomo le Nazioni unite hanno proclamato che
l'infanzia ha diritto a misure speciali di protezione ed assistenza...
Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale
ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in
particolare dei fanciulli, debba ricevere l'assistenza e la protezione
necessarie per poter assumere pienamente le sue responsabilità all'interno
della comunità... Riconoscono che il fanciullo, per il pieno ed armonico
sviluppo della personalità, deve crescere in un ambiente familiare, in un'atmosfera
di felicità, amore e comprensione...».
Anche l'india ha i suoi "street children" (bambini da strada); non sono organizzati in
bande e sono meno abbandonati, nel senso che sulla strada non vivono da soli ma
insieme alle loro famiglie e, da queste, molte volte sfruttati.
Storpiare un bambino per suscitare maggior pietà, e
conseguente adeguata elemosina, era pratica molto diffusa al punto di creare
delle vere e proprie categorie di professionisti addetti a tale incombenza.
In India circa 45 milioni di minori fanno parte della
"forza lavoro". Quasi tutta la produzione di fiammiferi a Sivakas
(Tamil Nadu), non è meccanizzata. Vi lavorano circa 50.000 bambini al di sotto
dei 15 anni. Essi abitano in villaggi lontani dalla fabbrica e tra le 3 e le 5
del mattino, vengono svegliati e stipati dentro gli autobus (anche più di 200
in uno) e portati al lavoro per tornare a casa tra le 6 e le 9 di sera. Sebbene
lavorino solo 12 ore, di fatto stanno fuori dalle 15 alle 16 ore al giorno.
Molti bambini sono al di sotto dei 7 anni e le bambine sono numericamente
superiori. Fanno scatole, incollano etichette, contano i fiammiferi.
Nell'industria dei fuochi d'artificio tingono la carta, fanno i petardi e
impacchettano il prodotto finito.
Questi bambini soffrono per il caldo, per i fumi
tossici, per l'eccessivo lavoro delle braccia, delle spalle e per lo stress;
il ritardo di un secondo può causare l'incendio di tutta la struttura con
conseguenze immaginabili. Guadagnano da 5 a 10 rupees al giorno (250-500 lire).
Proprio a New Delhi lo scorso 19 gennaio, Mr. Swami
Agnivesh, presidente del Fondo delle Nazioni unite contro le forme di
schiavitù contemporanea, insieme ad altri 76 premi Nobel ha lanciato un
appello per la creazione di una nuova organizzazione internazionale che lotti
contro il lavoro e lo sfruttamento dei bambini di tutto il mondo. Nell'appello
si afferma che «nel mondo più di 200 milioni di bambini - l'equivalente della
popolazione di Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda messe insieme - sono
costretti ogni giorno a lavorare come fossero adulti».
Eppure nella Convenzione internazionale sui diritti
dell'infanzia si legge che «... gli Stati
parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo ed allo svago, a dedicarsi
al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età, ed a partecipare
liberamente alla vita culturale ed artistica... Gli Stati parti riconoscono il
diritto del fanciullo ad essere protetto contro lo sfruttamento economico e
qualsiasi tipo di lavoro rischioso o che interferisca con la sua educazione o
che sia nocivo per la sua salute o per il suo sviluppo fisico, mentale,
spirituale, morale o sociale».
L'India
è firmataria della Convenzione.
Pure l'Italia del dopoguerra ha avuto i suoi "bambini
di strada": gli "sciuscià", cultori dell'arte di arrangiarsi
per sopravvivenza propria e delle loro famiglie. Se ci guardiamo indietro,
dobbiamo constatare che abbiamo percorso parecchio cammino, ma per arrivare
dove? Ora godiamo di una situazione economica diversa, promulghiamo leggi,
ratifichiamo Convenzioni, inventiamo Statuti a tutela dell'infanzia; siamo
diventati, se così si può dire, più "civili", più ordinati. Le
nostre strade non sono infestate da bande di ragazzini che disturbano i
passanti e derubano i commercianti, viviamo tranquilli. Tranquilli - o
piuttosto ciechi - perché i nostri 55.000 bambini, o forse più (il numero
esatto nessuno lo conosce) stanno chiusi negli istituti.
Certo è difficile stabilire chi sta meglio e chi sta
peggio, se i bambini che passano l'infanzia sulle strade o quelli che stanno in
istituto.
In tanti anni di attività, visitando Paesi diversi,
questa domanda me la sono posta parecchie volte senza riuscire a trovare una
risposta definitiva. A volte mi sembra meglio l'una, a volte l'altra: non ho
mai avuto certezze.
Chi, di fronte a situazioni tragiche che coinvolgevano
i bambini, non ha sentito l'impulso di portarseli a casa? Da un lato questo è
positivo, perché è indice di sensibilità e umanità: ricordo quanto diceva il
Presidente di un Tribunale per i minorenni tanti anni fa: «Se noi chiudessimo
gli istituti e mettessimo i nostri bambini sulle strade sono sicuro che prima
di sera tutti troverebbero ospitalità in una casa». Dall'altro, però, mette in
risalto quanto un gesto così altruistico nasca da una spinta emotiva
sollecitata da un fattore esterno, piuttosto che da un consapevole processo di
maturazione verso la condizione dell'infanzia o dal desiderio di maternità e
paternità.
Nell'esaminare le motivazioni che portano le coppie
ad avvicinarsi all'adozione internazionale e nel valutare con loro le possibili
cause dell'abbandono di un bambino, la povertà emerge in modo predominante,
quando non assoluto, come se ci fosse una sorta di obbligata equazione:
povertà = mancanza d'amore. È difficile far comprendere che la mancanza di
mezzi economici quasi sempre è solo una concausa alla quale vanno ad
aggiungersi la povertà morale, la disgregazione familiare e sociale, la giovane
età, la mancanza di servizi e supporti. Ancora più difficile far passare l'idea
che, in alcune situazioni, l'abbandono può anche essere un atto d'amore nei
confronti del bambino generato, ma che non si può crescere. Ed è proprio in
nome della povertà dei genitori biologici che molte coppie aspiranti
all'adozione giustificano la propria scelta e tentano di annullare parte dei
sensi di colpa che scaturiscono da ansie predatorie, da atti non sempre
limpidi, non sempre legali, che in alcuni casi precedono l'adozione di un
bambino straniero. Convinti e orgogliosi che con loro il bambino starà bene,
perché loro gli daranno di più, si sentono assolti. Ma come possono due
adulti che si propongono come genitori, come educatori erigersi a giudici e
stabilire, in base a criteri non certo obiettivi, l'incapacità o l'indegnità
del ruolo genitoriale della famiglia d'origine?
Il desiderio di avere un bambino diventa tanto forte
da trasformarsi, a volte, in un vero e proprio presunto diritto al figlio
tanto agognato. Tutto il resto passa in second'ordine; si cancellano i
contenuti ideali, che per noi sono insiti nell'adozione; si svilisce
l'intervento riparatorio nei confronti del bambino; non si sanano le sue ferite
ma, al contrario, se ne aggiungono altre.
Il bambino, inoltre, deve rispondere a determinate
aspettative: è importante che arrivi presto, anzi subito. Sempre più richiesto
è il bambino piccolo, sano e possibilmente bianco, quello che non fa fatica ad
inserirsi, quello che pone e porrà meno problemi a genitori, parenti e comunità
allargata. Pochi sono coloro che intendono l'adozione come il mettersi a
disposizione di un bambino già nato e che sta crescendo senza mamma e papà in
qualche parte del mondo.
A questo punto, è forse necessario fare un lungo
passo all'indietro. Perché il CIAI, nel 1968, si è fatto promotore
dell'adozione internazionale? Che cosa si diceva allora quando si presentava
questo problema, qual era la sfida lanciata alla società in quel contesto
storico?
Scriveva il CIAI nella sua presentazione di allora:
«Milioni di bambini in tutti i Paesi del mondo vivono aspettando una famiglia.
Essi rappresentano il prodotto di società che nel loro processo di evoluzione
culturale e tecnologia stanno perdendo di vista l'uomo e la sua dimensione.
Nelle civiltà primitive, dove l'assetto sociale è di tipo tribale, esistono gli
illegittimi e gli orfani, ma non i bambini senza famiglia. II bambino privo di
genitori viene inserito in un'altra famiglia o comunque accettato dalla
comunità, senza alcuna preordinata e sofisticata pianificazione della
protezione del bambino».
Già allora si diceva che «nelle società più
"evolute", nonostante gli ammonimenti di studiosi e scienziati sui
rischi di una evoluzione socioculturale che non sia a misura di uomo, stiamo
realizzando modelli sociali che, in nome di un ipocrita protezionismo, tendono
ad escludere gli individui le cui caratteristiche non rientrano in certe norme
codificate. Fra questi gli orfani, gli illegittimi e i bambini senza famiglia,
cioè gli istituti dove, anche quando tutto è stato modernamente e
scientificamente organizzato, manca pur sempre l'essenziale: il modello dei
genitori in cui identificarsi, il calore e gli stimoli affettivi che solo la
famiglia può garantire e che sono indispensabili per un equilibrato sviluppo
del bambino. Ecco che gli istituti si rivelano per ciò che in effetti sono:
occasioni di deresponsabilizzazione della società in nome di un falso concetto
protezionistico; occasioni di difesa della società contro l'individuo non
autosufficiente e, quindi, supposto parassita sociale; depositi di bambini
esclusi e primo stadio di un processo di emarginazione dell'individuo che è
nato non in regola con le norme sociali».
Milioni di bambini nel 1968 lanciavano questa sfida
alla società. Piano piano l'adozione si è fatta strada e con essa anche
l'adozione internazionale, il cui numero delle richieste tende costantemente
ad aumentare. Ma non per questo è venuta meno la sfida originaria che al contrario
si è rafforzata: l'adozione internazionale rappresenta il superamento non solo
del vincolo di sangue, ma anche del vincolo di razza. Come aveva affermato già
nel 1962 I'Unesco nella sua dichiarazione sulle razze, sostenendo che l'umanità
intera appartiene all'unica specie dell'Homo
sapiens.
Tutto ciò può apparire di un'ovvietà banale, ma
l'ostinata presenza in ogni popolo di pregiudizi razziali, mantiene aperta la
sfida. Quando l'adozione internazionale avrà acquisito in pieno la propria
dignità e non sarà più vissuta come una miniera da sfruttare, una nuova forma
di colonialismo, ma come una forma di filiazione piena che parte dal bisogno
del bambino, l'umanità avrà compiuto un salto di qualità nella sua espressione
globale e nelle sue singole realtà nazionali. E il concreto riconoscimento dei
diritti del bambino "solo" avrà fatto un altro passo avanti. Togliere
un bambino alla solitudine, farlo evadere da un istituto e aprire a lui la
nostra famiglia vuol dire conseguire due risultati in uno: offrire a un
bambino - non importa da chi nato, né dove, né come - l'unico habitat in cui potranno rimettersi in
moto i suoi processi vitali di recupero e di crescita, ma anche invertire la
pericolosa tendenza di chiusura della famiglia mononucleare, spesso
prigioniera degli agi acquisiti, per farle riscoprire il valore che non solo
ne giustifica l'esistenza, ma la rende, per certi aspetti, insostituibile.
Siamo soliti dire che, dal punto di vista psicologico,
l'adozione non può mai essere a senso unico. L'adulto accoglie il bambino che
non ha procreato e lo fa suo figlio, ma il bambino che entra nella casa di chi
non l'ha concepito, ha a sua volta il diritto di accettare o respingere coloro
che si propongono come madre e padre. Se ciò è vero, se è vero che, a livello
psicologico, non basta adottare ma occorre anche farsi adottare, la reciprocità
si ripropone, anzi si impone a livello sociale. Non possiamo nasconderci che
il mondo e l'ambiente ai quali apparteniamo e quelli dai quali provengono i
nostri figli asiatici, africani o latino americani, si collocano frontalmente,
come su lati opposti di una barricata: di qui il mondo del benessere, di là
quello della spogliazione.
Molti di noi si sono chiesti se anche l'iniziativa
del CIAI, pur strappando centinaia di creature da una condizione di semplice
sopravvivenza in istituto, non rischi di ridursi a un'attività assistenziale
non solo per coloro che adottano ma anche per le società d'origine e
d'adozione. Molti di noi si sono chiesti se l'adozione internazionale non
rischi di allontanare nel tempo soluzioni più radicali ma in definitiva
migliori. Occorre però essere realisti. I bambini non resteranno sempre tali,
crescono in fretta, molto più in fretta dei Paesi dove nascono. Non tutti i
Paesi oggi sono in grado di offrire un reale accoglimento e inserimento a
livello locale e possiamo immaginare che riusciranno a farlo dopo evoluzioni
sociali e culturali molto lente. Nel frattempo lui - il bambino - e molti
altri dopo di lui sarebbero solo degli sradicati all'interno del proprio
ambiente. L'adozione internazionale resta un'iniziativa valida nella misura in
cui diventa, qui e là, anche una provocazione in grado di tradursi in precisi
atti di volontà politica. Qui la presenza di figli così "diversi",
che domani potrebbero essere i nostri accusatori, è forse la premessa a quel
contributo di profonda trasformazione che l'umanità si attende anche da noi.
Là, la "fuga" dei loro bambini dovrebbe stimolare la programmazione
politica di progetti assistenziali più incisivi e favorire l'evoluzione
culturale dell'accoglienza, così da ridurre progressivamente il ricorso
all'adozione all'estero.
Abbiamo infranto il tabù del "figlio di
sangue", abbiamo infranto il mito della "razza", ma oggi, 1994,
milioni di bambini lanciano una nuova sfida: vogliono essere bambini, con una
vita da bambini, rispettati, curati e amati come i bambini devono esserlo.
Questa è l'era in cui costantemente si parla di
diritti, si rivendicano i diritti, si difendono i diritti. Forse il più
importante diritto, per un bambino, è quello di essere considerato un essere
umano e questo è un dovere che spetta à noi adulti di assolvere. Molto spesso,
nella storia, i bambini sono stati vissuti come legittima proprietà dei genitori
e questo atteggiamento è tuttora persistente. In molte circostanze il bambino
è vittima dell'egoismo dei suoi stessi genitori e si rende necessario ricorrere
all'intervento dello psicologo affinché ripari i danni prodotti dagli adulti
su di lui.
Sempre più spesso assistiamo ad una corsa frenetica
verso varie forme di maternità assistite, fecondazioni in provetta, uteri in
affitto, figli commissionati, programmati e selezionati in base a indici di
gradimento: non si può banalizzare il desiderio di avere un figlio in chi
sceglie questi percorsi, ma si impongono altri interrogativi. Già nel 1990,
durante la 28 Conferenza mondiale "Adozione internazionale: tra
norma e cultura", organizzata dal CIAI, si lanciava l'allarme sul
"dopo nascita" di questi bambini e sulle incognite del loro futuro.
Quanto si paventava è già realtà: alcuni fra questi bimbi vengono abbandonati,
altri disconosciuti da colui che all'anagrafe si era dichiarato il genitore. Ed
eccoci nuovamente ad invocare l'intervento di una legge, che ancora non c'è,
che regolamenti questa materia, che limiti il libero arbitrio del genitore.
Abbiamo prodotto una serie non indifferente di
convenzioni nazionali e internazionali, di leggi, di statuti, di codici etici
che si pongono come obiettivo la tutela dei diritti dei bambini e ogni giorno
ne chiediamo aggiornamenti e maggiori precisazioni; sempre più facciamo ricorso
a questi strumenti esterni tesi a delimitare spazi, ad erigere steccati. Quanto
più sentiamo il bisogno di ricorrere a normative che ci ordinino il percorso
da seguire, tanto più si evidenzia, in modo macroscopico, che è venuta meno la
capacità personale di scindere ciò che è consentito da ciò che non lo è, ci è
venuto a mancare o si è assopito qualche cosa che dovrebbe essere innato, una
sorta di patrimonio genetico: il senso del rispetto per l'altro, chiunque esso
sia, il senso del limite per il nostro diritto e l'assunzione di
responsabilità che ogni persona ha nel momento in cui vive e costruisce la
società per sé e per coloro che proseguiranno dopo.
La forbice che divide il Nord e il Sud del mondo
tende sempre più ad allargarsi. Alcuni Paesi dell'Est Europa hanno fatto cadere
le loro barriere e un nuovo Sud si è inserito ad allontanare maggiormente
l'obiettivo, da molti perseguito, di rifondare una società che si basi e
trasmetta autentici valori non attraverso astratte dichiarazioni, ma nel
vivere quotidiano, nel contatto fisico ed emotivo che è espressione concreta
di amore.
Loro, quelli del Sud del mondo "avranno"
solo se noi, quelli del Nord del mondo, smetteremo di proporre modelli che
incrementano e premiano l'egoismo e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Continueremo a chiedere ai governi l'emanazione di
politiche tese a ridurre il divario tra Nord e Sud. Nel nostro piccolo abbiamo
ridato una famiglia a 1229 bambini e consentito la frequenza scolastica ad
altri 496.
(*) Relazione tenuta da Gabriella Merguici all'incontro internazionale di Castiglioncello del 6-7-5 maggio 1994 sul tema "II bambino Sud".
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