Prospettive assistenziali, n. 108, ottobre-dicembre
1994
GLI HANDICAPPATI
NELL'ITALIA DELLA CRISI: OCCUPAZIONE O ASSISTENZA?
II 30 aprile 1994 si è tenuto a Torino, promosso dal
CSA, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base (1), il convegno
"Handicappati nell'Italia della crisi: occupazione o assistenza?".
L'incontro si è posto l'obiettivo di fermare l'attenzione
dei presenti (operatori, insegnanti della formazione professionale, genitori,
rappresentanti di associazioni, sindacalisti, volontari, ecc.) sul tema
scottante, oggi più che mai, dell'inserimento lavorativo delle persone
handicappate, in particolare di quelle che hanno una riduzione della capacità
lavorativa.
Timore del CSA e degli altri promotori è che la crisi
attuale impedisca ulteriormente l'avvio al lavoro di queste persone e che, in
pratica, esse siano dimenticate ed escluse anche dalle poche occasioni che
comunque si stanno individuando per gli altri disoccupati.
Non solo: si teme anche che, proprio perché è più
difficile la loro collocazione, ci si accontenti di soluzioni assistenziali
"parcheggio", anche per quanti hanno tutte le capacità per svolgere
un lavoro normale.
Ancora una volta, quindi, il CSA ha voluto riprecisare
che gli interventi del settore assistenziale (aiuti alla persona, centri
diurni) devono essere assicurati solo a chi, con una capacità lavorativa nulla
o molto limitata, non potrà mai essere avviato al lavoro.
Alcuni interrogativi
Che impegni devono assumere Comuni, Uffici del
lavoro, Imprese, Sindacati? Quali sbocchi lavorativi potrebbe offrire una nuova
organizzazione del lavoro? Si può trasformare l'esperienza di alcuni
inserimenti lavorativi realizzati in un efficace meccanismo di avviamento del
lavoro? Quali strumenti sono necessari? Quali le strade percorribili già oggi?
Che cosa fare per i soggetti in grado di lavorare in modo proficuo che
frequentano i centri diurni assistenziali?
Su questi interrogativi si sono articolate le relazioni
della mattinata.
Nel suo intervento di apertura Maria Grazia Breda, a
nome del CSA, precisa che ci si è voluto soffermare sugli handicappati con
limitata autonomia, che possono raggiungere però una capacità lavorativa
ridotta (handicappati intellettivi soprattutto, ma anche fisici con gravi
minorazioni) perché sono questi in effetti i soggetti più difficilmente
collocabili, sovente privi sia del lavoro, che di altri interventi formativi.
Ricorda, poi, l'importanza di una riforma della legge
sul collocamento obbligatorio al lavoro che introduca come nuovo criterio la
valutazione della capacità lavorativa (piena, ridotta o nulla) e
dell'autonomia della persona. Bisogna superare i limiti - ormai evidenti a
tutti gli operatori del settore, imprese comprese - della percentuale di
invalidità, che continua ad essere il solo riferimento utilizzato oggi ai fini
del collocamento al lavoro, secondo quanto stabilito dalla legge 482/1968.
«Se si deve collocare una persona handicappata al
lavoro - continua Breda - si deve valutare se ha un'autonomia sufficiente per
poter svolgere il lavoro richiesto e quale resa produttiva e capacità
lavorativa è in grado di esprimere. Inoltre, si deve sapere quali ausili
procurare, quali accorgimenti apportare al posto di lavoro perché dia il
massimo delle sue possibilità, una volta individuato il posto di lavoro e le
mansioni compatibili con la sua minorazione (collocamento al lavoro mirato)».
Prosegue affermando che il CSA è impegnato a
difendere, in particolare, il diritto al lavoro degli handicappati
intellettivi, che naturalmente possono raggiungere una resa produttiva, magari
ridotta, ma sempre proficua per l'azienda. Oggi, queste persone sono
impropriamente raggruppate con le persone colpite da malattia mentale, nella
definizione di handicappati "psichici". A Torino, proprio su
richiesta del CSA, ci si è ottenuto dall'UPLMO (Unione provinciale per il
lavoro e la massima occupazione) la predisposizione di elenchi separati:
sottolineare le differenze profonde che caratterizzano le due tipologie di
persone è importante per assicurare a ciascun soggetto interventi formativi e
lavorativi mirati alle sue effettive capacità.
Insistere sulla capacità lavorativa, intesa come
risposta globale che l'handicappato è in grado di esprimere (può fare solo una
determinata mansione, può svolgere altre mansioni analoghe, deve stare in gruppo,
può agire da solo, ecc.) è necessario per superare le innumerevoli ricadute
negative che vi sono oggi in assenza di questa valutazione.
Ad esempio, si incontra sovente, anche da parte di
sindacalisti, una scarsa conoscenza sia in merito alle tipologie dell'handicap
(tanti non sanno distinguere tra uno spastico e un paraplegico), sia per
quanto riguarda il significato che può assumere la percentuale di invalidità.
Sono molti coloro che, di fronte ad un soggetto che ha una percentuale di
invalidità del 100% (ad esempio proprio il paraplegico in carrozzina), pensano
che si tratti di una persona molto grave e, quindi, assolutamente non in grado
di lavorare.
Invece, questi handicappati fisici-motori, possono
avere una percentuale del 100%, ma essere in grado di possedere una capacità
lavorativa, anche piena, purché naturalmente la persona sia collocata in modo
mirato.
Si tende, poi, ad escludere ancora a priori l'handicappato
intellettivo, proprio perché non si valutano le capacità che molti di questi soggetti
riescono ad esprimere, ma ci si limita alla percezione negativa della
tipologia.
È anche per tali ragioni che i finanziamenti e/o gli
incentivi erogati alle cooperative sociali o ad altri soggetti per incrementare
l'occupazione degli handicappati non sempre sono utilizzati ragionevolmente.
Oggi è sufficiente inserire "un
handicappato" per ottenere contributi, anche se questo "handicappato"
collocato in modo mirato, produrrà quanto gli altri lavoratori. Incentivi e
contributi devono essere utilizzati per collocare altri soggetti, quelli che -
avendo una capacità lavorativa ridotta - hanno meno opportunità di lavoro.
Naturalmente non è sufficiente spostare l'attenzione
dalla percentuale di invalidità alla capacità lavorativa per ottenere più posti
di lavoro. II mondo del lavoro, la sua organizzazione e le parti che lo
compongono (imprese e sindacati) devono cominciare a riservare espressamente
agli handicappati quei posti che possono essere proficuamente occupati da
questi soggetti.
L'organizzazione del lavoro e le nuove
tecnologie
A Luciano Gallino dell'Università di Torino, che si
occupa di organizzazione del lavoro e di sociologia aziendale, ci si è rivolti
per conoscere quali sono le prospettive delle imprese e se le tecnologie e le
ristrutturazioni in atto consentono o meno spazi occupazionali per gli handicappati
con limitata autonomia.
Secondo il sociologo, sono in atto oggi due tipi di
sviluppo nel campo dell'organizzazione del lavoro e delle nuove tecnologie, che
offrono possibilità per l'inserimento lavorativo delle persone handicappate,
possibilità finora non sfruttate: «I nuovi modelli organizzativi, il nuovo
modo di lavorare, sia nei servizi che nelle medie e grandi imprese fanno
riferimento in particolare al gruppo integrato, che può variare da una dimensione
di 5-6 persone fino a 50-60 soggetti. È questo un modello che supera
l'organizzazione rigida della divisione del lavoro tipica dell'impostazione
tayloristica precedente. II gruppo integrato si fonda sul supporto reciproco.
II lavoratore non è solo, c'è un aiuto intrinseco. Si discute insieme sui
problemi incontrati nella fase di lavorazione. Qualcuno, più anziano, mostra
come si può superare quella difficoltà. II lavoratore non è solo, è integrato
e più competitivo di un modello tayloristico o fordista. Nel gruppo integrato
si possono individuare le mansioni diverse, adatte anche a persone
handicappate. È un modello organizzativo idoneo a dare il posto giusto alla
persona giusta, quindi anche a chi ha una capacità lavorativa ridotta. La
complementarietà delle funzioni, l'aiuto reciproco offrono un modello talmente
diverso dal passato.
«Le aziende non sono diventate più buone.
Semplicemente hanno compreso che il lavoro, quando è umano, sviluppa maggiore
intelligenza e, dunque, la persona risulta più efficiente».
II sociologo richiama inoltre le nuove tecnologie
per l'informazione e la comunicazione (NTIC), che permettono il lavoro a
distanza. È una opportunità da sfruttare per chi, avendo una limitata
autonomia, trova maggiori ostacoli nello spostamento da casa al posto di
lavoro. Con le NTIC si può individuare l'ambiente più idoneo da attrezzare come
posto di lavoro.
Tuttavia, secondo il CSA, c'è il rischio che si
attrezzino centri speciali per handicappati e, di fatto, nuovamente si torni
all'esclusione di questi soggetti dalle normali realtà produttive.
Ben vengano le nuove tecnologie ad aumentare le
occasioni di lavoro anche per gli handicappati, ma purché si tratti sempre di
una delle tante opportunità di impiego e non diventi la sola offerta sul campo.
Secondo Gallino, l'NTIC è una modalità assolutamente
normale. Non è da confondere con il classico lavoro a domicilio: vi sono almeno
un milione di persone che lavorano in questo campo. Ovviamente tale attività è
praticabile solamente da persone con handicap fisici e sensoriali, con
limitata autonomia, ma capacità intellettive tali da permettere loro di
acquisire un minimo di conoscenze tecniche e della lingua inglese.
II Comune può costruire posti di lavoro
L'Assessore al lavoro del Comune di Torino, Carlo
Baffert condivide l'idea del piccolo gruppo per favorire l'inserimento mirato
degli handicappati intellettivi ed intende estendere questa formula non solo
alle cooperative, ma anche ad altre realtà produttive come il commercio e
l'artigianato.
Proprio perché sono piccole aziende, il Comune può
loro offrire contropartite per facilitare l'avviamento di soggetti più deboli
sul mercato del lavoro. Analoga iniziativa può essere assunta per individuare
anche nei cantieri di lavoro, che il Comune intende predisporre per i disoccupati,
quote di assunzione di handicappati con ridotta capacità lavorativa. La legge
381/91 sulla cooperazione sociale, infine, permette agli enti pubblici di
assegnare con trattativa privata diretta una serie di servizi, scegliendo le
ditte che inseriscono persone con handicap.
Secondo l'Assessore non è più necessario ricercare
nuove formule o modelli: non c'è nulla da inventare; oggi è importante
cominciare ad agire. Certamente, collegandosi all'intervento di Breda, ritiene
indispensabile rivedere l'organizzazione del lavoro anche nell'ambito della
pianta organica del Comune, perché è giusto che siano resi disponibili quei
posti che possono essere occupati dalle persone con handicap, comprese quelle
con una limitata autonomia.
«È dunque il momento - prosegue Baffert - di
riorganizzare lo stesso assessorato. Oggi, i soggetti handicappati, una volta
terminati i corsi di formazione professionale, sono praticamente lasciati a se
stessi. II Comune sta predisponendo un servizio che dovrà, invece, occuparsi
della persona handicappata fino al suo avviamento al lavoro. E questo è tanto
più importante per gli handicappati intellettivi, che oggi frequentano i corsi
prelavorativi del Comune».
L'Assessore non dimentica che cosa il Comune può
fare in prima persona. Ricorda gli impegni assunti con l'ordine del giorno del
21 aprile 1994 (2) e tra questi la verifica della pianta organica per
riservare posti adatti a persone handicappate con capacità lavorativa piena o
ridotta.
L'ente pubblico deve gestire la propria contrattualità
con l'offerta di:
- agevolazione sull'ICI (Imposta comunale sugli
immobili);
- eventuali utenze (gas, acqua) scontate;
- pubblicità all'impresa che assume;
- gratificazioni economiche per coloro che hanno una
ridotta capacità lavorativa o per adattare il posto di lavoro in caso di
barriere architettoniche.
Baffert non nasconde le difficoltà, ma ritiene che
con la volontà politica e l'impegno del sindacato gli ostacoli possano essere
superati e ringrazia - e incoraggia - le associazioni come il CSA per il ruolo
di stimolo esercitato.
II sindacato è in ritardo, ma la sua
mediazione è insostituibile
Chiamata in causa dall'intervento precedente, Vanna
Lorenzoni, responsabile regionale CGIL per le politiche del mercato del lavoro,
richiama l'attenzione dei presenti sulla realtà, che, a suo avviso, è ben più
critica di come è stata presentata dai due ultimi relatori.
Innanzitutto le nuove norme introdotte dal Governo
puntano alla liberalizzazione della forza lavoro, situazione che non favorisce
certamente gli handicappati. Ma vi sono altri pericoli determinati dalla crisi
generale che stiamo vivendo, prima fra tutti la disgregazione sociale. Si è introdotto
nella mentalità generale un atteggiamento isolazionista e corporativo: chi è
un po' più forte tenta di difendere se stesso dagli altri. Dove si ricomincia
ad assumere, si pensa che bisogna sistemare prima di tutto i propri figli. Dove
ci sono le espulsioni, si ritiene che si possa cominciare dai più deboli.
Tutto ciò ci riporta a considerare quanto sia
importante, ancora oggi, il problema culturale, a partire proprio dal
sindacato. I delegati del sindacato - alcune migliaia di addetti - non sono
sensibilizzati al problema dell'handicap. «In teoria siamo noi, il sindacato -
dice Lorenzoni - il soggetto per definizione in grado di affrontare queste
tematiche; in pratica siamo in ritardo praticamente dappertutto».
Nel gruppo di lavoro regionale CGIL-CISL-UIL,
comprendente anche operatori e rappresentanti di associazioni, è stato posto
l'obiettivo di far sì che siano i delegati delle categorie ad assumere in prima
persona questo problema.
È il sindacato che nelle aziende e nel territorio può
trattare con gli enti locali e le imprese. Lorenzoni, sottolinea, altresì,
l'importanza della verifica delle informazioni che vengono date. Per esempio,
si dice che vi sono espulsioni continue dal mercato del lavoro ed è ovvio che
nessuno osa affrontare il problema della assunzione degli handicappati in
questo clima. Ma, in realtà, non si dice che a fronte di 45 mila addetti
espulsi dal mercato del lavoro, contemporaneamente ne sono stati assunti 130
mila.
Inoltre, va sfatata l'idea che gli avviamenti siano
solo di persone qualificate, perché la maggior parte riguarda persone senza
alcuna preparazione. Non è la situazione oggettiva, quindi, che impedisce
l'avviamento al lavoro. Le piccole aziende hanno continuato ad assumere e cominciano
a farlo anche le medie imprese: 4.000 sono i contratti di formazione-lavoro
stipulati negli ultimi quattro mesi; anche essi sono soggetti al rispetto
della legge 482/1968 sul collocamento obbligatorio al lavoro degli
handicappati.
«Inoltre - sostiene Vanna Lorenzoni - anche nella
pubblica amministrazione è caduto il blocco delle assunzioni. Tutti gli enti
locali sono costretti a rifare le piante organiche entro giugno. AI Comune di
Torino mancano 300 invalidi nella pianta organica». Proprio a questo riguardo
Lorenzoni vuole spostare l'attenzione anche sul numero effettivo degli
handicappati da avviare al lavoro con limitata autonomia: a Torino, ad esempio,
gli handicappati intellettivi avviabili sono circa 300, di cui almeno un
centinaio provengono dai corsi prelavorativi e sono quindi giovani preparati.
Come è possibile che, almeno per questi non si trovi una collocazione, tenuto
conto che il 30% dei 4.000 contratti di formazione e lavoro autorizzati dalla
CRI (Commissione regionale per l'impiego) riguarda posti di lavoro per operai
generici?
II problema, secondo Lorenzoni, è legato non tanto
alla mancanza di opportunità reali di collocazione, ma a quanto sono capaci di
costruire congiuntamente i vari attori: imprese, organizzazioni sindacali,
ufficio del lavoro, enti locali.
Anche sul terreno dell'organizzazione del lavoro vi
sono spazi oggettivi dì inserimento. Se è vero che il lavoro tradizionale è
ancora prevalente, è anche vero che vi sono interventi ergonomici che,
riducendo la fatica, possono consentire l'inserimento dell'handicappato
fisico, anche con scarsa autonomia.
Lorenzoni non è così fiduciosa sul gruppo integrato,
citato dal professor Gallino. II ritmo richiesto per la produzione può essere troppo elevato ed escludere,
anziché favorire, l'inserimento degli handicappati. La componente sindacale
dovrà vigilare soprattutto circa l'applicazione dei tempi di lavoro del
gruppo, in modo che siano consoni alle potenzialità del soggetto inserito.
Tuttavia, anche lei riconosce che molti handicappati
possono essere inseriti nella fabbrica integrata, perché questo tipo di
organizzazione del lavoro lascia comunque "libere" alcune
mansioni, che non possono essere per l'appunto
assorbite dal gruppo. Si tratta di mansioni di contorno, semplici, ma utili,
che si addicono proprio a soggetti handicappati con limitata autonomia
(handicappati fisici gravi e handicappati intellettivi).
Mentre l'handicappato fisico con un certo grado di
scolarità può inserirsi in attività più qualificate (collaudi, riparazioni,
ecc.), rimangono per gli altri mansioni di pulizia, piccoli trasporti, ecc.,
mansioni che devono essere necessariamente svolte.
Non è indispensabile cambiare l'organizzazione del
lavoro: è sufficiente inserirsi dentro gli spazi che la nuova organizzazione può
consentire e, ovviamente, operare attivamente per ottenere dalle aziende le
assunzioni.
A questo scopo - secondo Lorenzoni - vi è la
necessità di:
- una intensa sensibilizzazione che incentivi
l'avviamento delle persone handicappate con maggior difficoltà e con limitata
autonomia;
- prevedere commissioni di valutazione delle capacità
lavorative delle persone handicappate da inserire al lavoro, commissioni che
devono avvalersi di esperti: ergonomi, studiosi di organizzazione, ecc.
L'educatore e lo psicologo non sono sufficienti,
perché non sono in grado di dare all'impresa ed al sindacato il supporto
tecnico che è necessario per individuare la soluzione migliore per
l'inserimento lavorativo.
In che modo si pone a questo punto e in questo
contesto il concetto di liberalizzazione del mercato (minori vincoli per le
imprese per le assunzioni e per i licenziamenti) nei confronti dell'obbligo
dell'inserimento di persone handicappate?
«Se non ci sono più vincoli - sostiene Lorenzoni -
non è sufficiente avere un progetto di inserimento mirato. C'è bisogno del
vincolo, dell'inserimento mirato, dell'incentivo economico per chi ha più
difficoltà. Se si incentiva in modo indifferenziato qualunque tipo di
assunzione, è ovvio che le imprese assumeranno solo giovani maschi, sani, scolarizzati».
Se l'altro elemento di deregolamentazione è il lavoro
intermittente (le famose agenzie di lavoro interinale della Spagna e della
Francia) per cui si lavora tre giorni in un posto e due in un altro, e se si
riduce il lavoro a tempo indeterminato, è chiaro che sarà difficilissimo
individuare occasioni di impiego per gli handicappati con ridotta capacità
lavorativa. Pertanto, secondo la Lorenzoni, sono indipensabili non solo la
riforma della legge 482/68, ma anche un ruolo ed una politica dell'ente locale
molto più attiva, nonché un indubbio ruolo di contrattazione che il sindacato
deve assumere.
Ruolo dell'assistenza
Ai relatori della tavola rotonda del pomeriggio sul
tema "Assistenza per chi non ha
autonomia e capacità lavorativa: è solo un problema di risorse? -
Amministratori, operatori e associazioni a confronto" è stato chiesto
di portare il proprio contributo sui seguenti problemi specifici, relativi ai
centri diurni, un servizio indispensabile per gli handicappati gravi e per le
loro famiglie:
- quali interventi per chi non può accedervi a causa
della gravità delle sue condizioni psico-fisiche?
- come si può migliorare la qualità del servizio?
- come è possibile passare dal centro diurno
contenitore indifferenziato per handicappati lievi, medi e gravi, al centro
diurno solo per chi non è avviabile al lavoro?
Inoltre è stato loro richiesto di affrontare i seguenti
argomenti:
a) la mancanza di centri diurni;
b) gli orari di funzionamento;
c) la gratuità della frequenza dei centri.
Altri temi sono stati:
- il ruolo della comunità alloggio per superare gli
istituti e assicurare una soluzione "oltre la famiglia";
- le riserve di alloggi nell'edilizia pubblica residenziale;
- le strutture vuote e disponibili;
- la questione delle comunità alloggio convenzionate.
«Sentiamo più che mai l'esigenza di ricondurre
l'assistenza al suo compito istituzionale (3) - esordisce Maria Grazia Breda
nell'aprire i lavori del pomeriggio - non certo per sminuire il ruolo
assistenziale dello Stato, ma, al contrario, per valorizzare le risorse e
destinarle effettivamente a chi ne ha diritto».
Perché il CSA sente la necessità di sottolineare
questo aspetto?
«Perché - continua Breda - anche in questi ultimi
tempi molte iniziative per le persone handicappate sono state finanziate con i
soldi dell'assistenza e non con quelli degli assessorati competenti per quelle
attività. Nello stesso tempo molti interventi diretti all'inserimento lavorativo
di handicappati intellettivi sono attivati dai servizi assistenziali, anziché
dall'assessorato al lavoro. Non dimentichiamo, infine, i dieci miliardi che il
Comune di Torino, Assessorato all'assistenza, spende ogni anno per gli anziani
cronici non autosufficienti ricoverati negli istituti di assistenza/beneficenza,
anziani che, proprio perché malati, devono invece essere curati dal Servizio
sanitario nazionale».
Non è vero che sia indifferente che questi o altri
servizi siano pagati dal settore assistenziale, anziché dal settore
competente... purché si facciano!
In questo modo di procedere c'è:
1) una sottrazione di risorse dall'assistenza, che è
notoriamente un settore fortemente penalizzato;
2) non si promuove sul piano culturale e, conseguentemente,
sul piano effettivo, la reale integrazione degli handicappati. Questa,
infatti, avverrà davvero quando ogni settore (lavoro, formazione
professionale, cultura, sport, scuola, ecc.) si occuperà - investendo risorse e
personale - anche dei cittadini handicappati.
«Inoltre - prosegue Breda - vi sono alcuni interrogativi
che, anche se scomodi, come CSA vogliamo cominciare ad affrontare oggi non solo
con l'Assessore presente, ma anche con gli operatori e le associazioni.
Per esempio:
- è giusto avere una lista d'attesa per gli handicappati
intellettivi, privi di autonomia sufficiente per essere avviati al lavoro, che
necessitano quindi di centri diurni assistenziali (aperti almeno cinque giorni
alla settimana, per un minimo di otto ore al giorno) e destinare personale e
risorse assistenziali per tirocini formativi rivolti a soggetti che possono
(e devono) frequentare la formazione professionale o i corsi prelavorativi?
- Si possono dare meno di 40 ore di servizio diurno
agli handicappati intellettivi gravi, per finanziare, come assistenza, borse
di lavoro per handicappati intellettivi che sono un compito istituzionale del
settore lavoro?
«Naturalmente - assicura Breda - non si intende con
ciò colpevolizzare chi sta realizzando, come operatore dell'assistenza,
esperienze di tirocinio per tentare di avviare al lavoro soggetti
ingiustamente finiti nel settore assistenziale».
È tuttavia importante non perdere di vista
l'obiettivo che è appunto quello, secondo il CSA, di impegnarsi perché sia il
settore della formazione professionale, che quello del lavoro si occupino anche
degli handicappati con limitata autonomia e ne rispettino i diritti alla
formazione professionale e al lavoro.
Breda ricorda che i corsi prelavorativi (4) sono
stati chiesti insistentemente dal CSA proprio per impedire che handicappati
intellettivi con potenzialità lavorative finissero (e finiscono purtroppo
anche oggi) nei centri assistenziali. È dunque necessario insistere perché la
formazione professionale adegui i propri programmi e avvii in ogni centro
questo tipo di corsi.
Lavorare con soggetti con nulla o limitata autonomia
non è facile. Ma obiettivo del centro diurno assistenziale è quello di aiutare
la famiglia dell'handicappato intellettivo grave a sostenere tale carico il
più a lungo possibile.
II CSA non pensa certo a centri diurni gabbia, ma a
centri collegati con altre attività; chiede da anni che le 40 ore di servizio
settimanali siano utilizzate ovunque: in un parco, in un supermercato, al
cinema, in palestra, in collegamento con le realtà scolastiche come ad esempio
è stato egregiamente fatto nel Comune di Borgaro Torinese (5).
Per migliorare la qualità dell'offerta dei servizi
diurni e delle comunità alloggio, è indispensabile anche un mutamento profondo
sul piano culturale. Non si può considerare l'handicap adulto, con nulla o
limitata autonomia, un fatto privato suo e della sua famiglia. In realtà i
doveri familiari si riducono a mano a mano che aumenta l'età dei genitori; se,
come accade quasi sempre, il padre e la madre continuano ad occuparsi del
figlio maggiorenne, la società a maggior ragione deve sostenerli con la massima
intensità possibile (7).
«Quindi - conclude Breda - chiediamo che finiscano i
ricatti alle famiglie sia sugli orari dei centri diurni, quasi sempre imposti
dagli operatori e non rispondenti alle esigenze dei familiari, e che si
smetta di chiedere contributi economici a famiglie che già contribuiscono enormemente
con il mantenimento e la loro dedizione al figlio handicappato intellettivo
maggiorenne, sollevando considerevolmente la società da un compito che,
comunque, è anche suo».
Vittore Mariani, pedagogista dell'Università
Cattolica di Brescia, nel suo intervento di apertura ha offerto alcuni spunti
per tentare un approccio diverso nei riguardi della persona handicappata, in
modo che gli operatori dell'assistenza non solo siano professionalmente preparati,
ma anche motivati. Non si può accettare, afferma il Mariani, che vengano meno
gli interventi educativi nei confronti di handicappati intellettivi adulti.
Anche se si tratta di soggetti con limitata o nulla autonomia, si possono
sempre ottenere miglioramenti o, almeno, il mantenimento dei livelli
raggiunti. Con l'aumentare dell'età sono certamente meno evidenti i progressi,
ma questo non può essere un pretesto per demotivarsi e non coinvolgersi più
come persone e come educatori.
Mariani suggerisce di combattere la minor
gratificazione, che frena certamente sia l'educatore che il familiare, con una
più intensa osservazione, imparando ad accompagnare affettivamente, e non
solo educativamente, l'handicappato adulto.
«Si deve essere però convinti che siamo chiamati ad
educare e a progettare, non solo ad assistere passivamente la persona. Si può
capire il dolore, lo sconforto, il senso di impotenza di chi assiste
t'handicappato, ma non si deve dimenticare che sovente questo è anche il
frutto della mancanza di una formazione educativa adeguata. Non si sanno
accompagnare realmente queste persone».
C’è una preparazione, secondo Mariani, che gli
operatori devono senz'altro acquisire a partire dall'imparare ad osservare le
potenzialità, anche se quasi impercettibili a livello intellettivo espressivo.
E suggerisce di cominciare ad usare mezzi di comunicazione diversi, non necessariamente
solo verbali, come il linguaggio corporeo e gestuale. «Andare incontro alla
persona handicappata con linguaggi diversi, richiede impegno e cambiamento -
riconosce Mariani - ma bisogna cercare di individuare quali atti essa è in
grado di svolgere. Sta nella capacità dell'educatore, individuare quelle attività
che non vadano oltre le capacità reali del soggetto e che non siano fondate su
aspettative irrealizzabili o, al contrario, non lo consideri capace di interagire.
Gli handicappati anche gravi non devono essere lasciati a se stessi,
l'educatore non può limitarsi a fare
solo badanza».
«Oggi non possiamo più permetterci di fare solo
assistenza nell'accompagnamento di queste persone. Occorre accompagnare in
maniera educativa», ribadisce con fermezza Mariani.
Un aspetto che può
incidere, secondo Mariani, è la relazione personale, perché le persone
handicappate si coinvolgono moltissimo anche affettivamente. Attraverso la
dimensione affettiva si possono ottenere risultati anche insperati dal punto di
vista dell'apprendimento. Un altro problema da superare è il venir meno del
sostegno sociale, dopo l'adolescenza. Osserva Mariani come vi sia un grande
investimento di risorse e di personale in servizi rivolti ai soggetti handicappati
intellettivi nella prima fase evolutiva (0-15 anni), ma ad un certo punto
sembra che si dica: non si possono più recuperare, e, dunque, non investiamo
più. La famiglia, quindi, resta sola.
È a questo punto, dopo la scuola dell'obbligo, che si
deve invece sviluppare il discorso sui centri diurni, sull'impegno dei gruppi
di volontariato, formato e non solo motivato, sulla necessità di interventi
pubblici e privati, che permettano alla famiglia di essere più serena e alla
persona handicappata di sentirsi amata da molti.
Amore inteso come volontà, capacità di dono gratuito
e disinteressato verso un'altra persona. Un terzo problema è il venir meno dei
genitori. Per problemi di salute, di anzianità, perché sopraggiunge la morte.
Sorge a questo punto il problema della sistemazione dell'handicappato adulto.
Ci troviamo di fronte a comunità e casefamiglia che fanno fatica a decollare,
a comunità alloggio messe in crisi dai tagli economici, mentre persino gli
stessi istituti si sono resi conto che la sola assistenza non è più
sufficiente, ma che è necessaria una logica progettuale educativa.
Bisogna introdurre una dimensione pedagogica
educativa nell'accompagnare queste persone nella vita, tenendo conto della
loro globalità e non solo del loro deficit. Bisogna andare oltre l'assistenza,
oltre il solo approccio terapeutico: solo così si potranno sviluppare al
massimo le potenzialità delle persone.
Servizi assistenziali a dimensione
dell'utente e della famiglia
Ma come possono i servizi socio-assistenziali
realizzare questo obiettivo? Franco Mondino, coordinatore dell'USSL 27 della
Regione Piemonte, riconosce che i servizi, pur non sottovalutando la
competenza e l'impegno di operatori e amministratori, a volte stentano ad
offrire risorse sufficientemente diversificate per poter soddisfare l'ampia
tipologia dei bisogni.
«Autorevoli studiosi, infatti, hanno dimostrato che
tutti i portatori di handicap per quanto gravi, possono "crescere",
possono avviare veri processi di cambiamento se, anziché essere collocati in
contesti chiusi solo per portatori di handicap, sono inseriti in luoghi dove
si svolge la vita normale, la vita di tutti».
Sul piano metodologico è necessario quindi, secondo
Mondino, realizzare alcune condizioni: - individuazione chiara degli obiettivi
da raggiungere;
- puntualizzare degli strumenti ritenuti qualificanti
per il raggiungimento degli obiettivi;
- determinazione di indicatori dei risultati
conseguiti;
- volontà determinata di confrontare gli obiettivi
con i risultati raggiunti e scegliere le azioni correttive per superare gli
scostamenti evidenziati.
Sul piano organizzativo, invece, il Coordinatore
dell'USSL 27 individua alcuni strumenti che possono facilitare il
raggiungimento degli obiettivi:
- raccordo tra i vari servizi che sono coinvolti sul
problema handicap;
- formazione permanente degli operatori; -
documentazione legata alle cose che si fanno o che si osservano;
- incontri domiciliari per sostenere la famiglia ed
ascoltarne i bisogni;
- iniziative volte a integrare la persona handicappata
nei vari contesti sociali presenti (scuole, ambiti lavorativi, ricreativi,
ecc.).
In particolare, descrive l'esperienza dei centri
diurni, che hanno attivato laboratori aperti al territorio in cui sono stati
inseriti portatori di handicap e soggetti normodotati. I laboratori integrati,
ad esempio, per la costruzione di giochi e per le attività di cucina, pittura,
drammatizzazione, musica, ceramica, possono favorire il raggiungimento di
obiettivi di cambiamento, di evoluzione, di maturazione attraverso l'imitazione
e gli stimoli nei confronti di modelli e comportamenti delle persone
cosiddette normodotate.
Per quanto riguarda la flessibilità dell'orario del
centro diurno, Mondino osserva che gli interventi, quando sono frutto di
un'analisi dei bisogni delle persone, devono tener conto anche in termini di
orari delle esigenze delle famiglie e degli utenti.
È un processo complesso, per resistenze organizzative
e carenze di risorse: occorre sapervi far fronte non solo nelle azioni
quotidiane, ma anche nelle emergenze. Quindi, in caso di necessità, il
servizio può essere di 40 ore o anche di più. I vantaggi della flessibilità -
sottolinea Mondino - consentono l'inserimento di numerose iniziative; ad
esempio in orari preserali si possono utilizzare le piscine, altre attività
possono essere previste nei giorni di sabato. Mondino sottolinea, comunque,
che ogni miglioramento è possibile se gli enti locali, oltre a promuovere una
organizzazione più efficiente dei servizi, assicureranno al settore handicap
le necessarie risorse finanziarie e il personale occorrente.
Cooperazione: è possibile conciliare
qualità e prezzo?
Paolo Petrucci, presidente della Cooperativa sociale
"Animazione Valdocco" di Torino, riprende il problema delle risorse
ed invita a riflettere attorno a tre nodi che sono, secondo il suo punto di vista,
non solo un problema di risorse.
Sul costo dei servizi (e delle risorse che si devono
pertanto destinare) incidono infatti - secondo Petrucci - altri fattori. Per
esempio il tema della qualità è centrale. A sua volta la qualità del servizio
è determinata dalla soddisfazione delle parti in causa, che sono non soltanto i
clienti (USL, Comuni), gli utenti e le loro famiglie, ma anche, e non di meno,
gli operatori. Petrucci parte proprio da questi ultimi, per i quali
indubbiamente la soddisfazione è determinata da un'equa remunerazione delle
loro prestazioni, dalla possibilità di partecipazione nel lavoro e nelle
decisioni, dal fatto di lavorare con altri che credono negli stessi obiettivi.
Questi sono tutti elementi che si dovrebbero trovare nelle cooperative sociali;
ciò non deve essere dato per scontato perché il fatto di essere una
cooperativa sociale non determina automaticamente prestazioni qualitativamente
valide. Ad esempio, l'applicazione del contratto collettivo di lavoro può
essere un vincolo per determinare la qualità del servizio. Quando una cooperativa
sociale può applicare salari convenzionali e, quindi, ridotti, determinerà
senz'altro una riduzione dei prezzi, ma non darà altrettanta soddisfazione agli
operatori, con ricadute sull'aumento del turn
over degli stessi con i conseguenti effetti negativi per gli utenti.
La soddisfazione dei clienti è un altro aspetto del
problema. «Bisogna fare economie in quanto le risorse sono scarse, ma occorre
anche garantire l'affidabilità del servizio e la soddisfazione dell'utenza.
L'ente, a questo punto - osserva Petrucci - deve
scegliere la cooperativa con la quale vuole collaborare. Certo il prezzo non è
sinonimo di qualità. Ma spesso il prezzo, come abbiamo visto, nasconde
l'insoddisfazione degli operatori, situazione che non è garanzia di
affidabilità». Pertanto, secondo Petrucci, il cliente (Usi, Comune), nella
scelta di una cooperativa, deve tenere conto di più elementi: il prezzo, la
progettualità, l'affidabilità che è determinata dall'esperienza, la capacità
di interagire con gli altri servizi pubblici del territorio e con la
programmazione dell'ente locale.
«Tutti possiamo essere in grado di fare dei bei
progetti: basta avvalersi di un bravo consulente. Ma non tutti siamo capaci di
metterli poi in pratica. È possibile quindi, attraverso le diverse forme di
gara: licitazione privata, licitazione europea, appalto concorso, individuare
il vincitore secondo criteri di qualità.
«Non è scandaloso - insiste Petrucci - che un ente
tenga conto dell'esperienza e riconfermi la ditta che sta gestendo se è
contento del suo lavoro. La metta a confronto, anche per quel che riguarda il
prezzo, con le altre cooperative, ma se il paragone regge perché non continuare
il rapporto?».
Petrucci allarga il suo ragionamento anche alle
strutture. Per esempio, non ritiene che i centri diurni, aperti per 40 ore o le
comunità alloggio siano di per sé garanzia di qualità. Gli utenti si accorgono
se l'intervento è buono ed è con questa cartina di tornasole che ci si deve
misurare.
La cooperativa, se vuole, può giocare delle carte in
più rispetto agli operatori del settore pubblico, perché per la sua natura è
portata a dover progettare e, quindi, può individuare e studiare più facilmente
percorsi atti a rispondere alle singole esigenze. Sempre riferendosi al nodo
delle 40 ore richieste per i centri diurni che accolgono handicappati
intellettivi con nulla o limitata autonomia, gli operatori delle cooperative
possono applicare agevolmente orari flessibili che facilitino l'attuazione di
progetti che prevedono momenti anche serali e festivi.
Razionalizzare le risorse e valorizzare
l'esistente
Anche l'Assessore ai servizi sociali del Comune di
Torino, Angela Migliasso, ribadisce che la qualità dei servizi non è solo un
problema di risorse, ma senz'altro con le risorse ci si deve misurare.
Propone una pista di riflessione: non si può fare
finta che non esista il problema, che si tratti solo o di scarsa volontà
politica o di incapacità a sfruttare le risorse disponibili. Angela Migliasso
è convinta che la volontà politica sia indispensabile, ma non sufficiente.
Quando si parla di risorse si intendono: strutture, personale, denaro.
Contesta, al riguardo, la legge 104/1992, importante sul piano dei principi, ma
assolutamente vuota sul piano concreto in quanto non ha finanziato i capitoli
destinati alla realizzazione dei servizi necessari per sconfiggere l'istituzionalizzazione
e favorire, invece, l'integrazione sociale degli handicappati: servizi di
aiuto alla persona, inserimento lavorativo, centri diurni, comunità alloggio.
L'Assessore richiama anche le tendenze dell'attuale
Governo che, purtroppo, vanno nella direzione di una progressiva riduzione
delle risorse destinate al settore dell'assistenza, con il rischio che si
finisca poi per fare "assistenzialismo".
Cita, ad esempio, la riorganizzazione delle USL
(decreto legislativo 517/93) che separa gli interventi assistenziali dalle
competenze delle USL. È vero che queste possono continuare ad esercitare tali
compiti su delega dei Comuni, ma questi ultimi devono garantire anticipatamente
la copertura dei costi, fatto praticamente impossibile, secondo Migliasso, per
un ente locale.
Riferendosi, poi, alle domande introduttive poste da
Breda del CSA, in particolare sulle funzioni che l'Assessorato all'assistenza
svolge in materia di inserimento lavorativo di handicappati intellettivi,
Migliasso osserva che i soggetti che giungono ai servizi assistenziali hanno
quasi sempre già alle spalle percorsi di formazione professionale o
prelavorativa. In genere si tratta di persone che hanno oggettive difficoltà,
una riduzione della capacità lavorativa, una limitata autonomia, per cui
difficilmente riescono a trovare un'occupazione senza l'appoggio dei servizi.
In verità Migliasso riconosce l'opportunità di
realizzare l'unificazione dei due percorsi (quello assistenziale e quello della
formazione professionale) in capo ad un unico servizio che dipenda
dall'Assessorato al lavoro e alla formazione professionale. Condivide anche le
osservazioni di Breda sull'opportunità di trasferire il servizio taxi
all'assessorato ai trasporti, e di far assumere - come sta tentando di
ottenere - le iniziative di teatro per l'handicap dall'Assessorato alla
cultura.
Entrando poi nel merito dei punti suggeriti dai
promotori, Migliasso ribadisce il suo impegno all'apertura delle strutture
diurne e residenziali già pronte. Inoltre, per quanto riguarda le comunità
alloggio, ritiene importante seguire il suggerimento delle associazioni che hanno
richiesto all'Amministrazione di riservare nell'ambito dell'Edilizia
Residenziale Pubblica (ERP) alloggi da destinare a questo scopo. Naturalmente,
l'amministrazione dovrà trattare al riguardo, ma senz'altro è un'occasione da
non perdere. Infatti, questa è una soluzione molto valida, secondo Migliasso,
anche per permettere una socializzazione normale, considerato che gli alloggi
dell'ERP sono destinati a persone eterogenee.
Richiamandosi al punto relativo alla soddisfazione
degli ospiti dei servizi appaltati alle cooperative introdotto da Petrucci,
l'Assessore all'assistenza è d'accordo nel tenere presente prezzo e qualità e
precisa che, in merito al rinnovo delle convenzioni, è stato scelto l'appalto
concorso, contro la logica del maggior ribasso.
«Terremo conto della validità del progetto - continua
Migliasso - e valuteremo i diversi aspetti: la professionalità ed esperienza
della ditta concorrente, la capacità di interagire con gli altri servizi e
risorse del territorio, l'applicazione del contratto di lavoro, il prezzo
offerto, ecc.».
Infine, nella ricerca di alternative valide che non
comportino aggravi di bilancio, cita l'attività avviata in collaborazione con
l'Assessorato all'istruzione, collaborazione che permette ai 300 handicappati
intellettivi frequentanti i centri diurni assistenziali del Comune di Torino di
usufruire dei numerosi laboratori dello stesso assessorato all'istruzione e
di promuovere momenti di scambio proficui anche per il personale.
Conclusioni
Grazie al nutrito dibattito del mattino e del pomeriggio,
si sono sviluppati e approfonditi quei nodi che i relatori avevano appena
affrontato o, addirittura ignorato, come è avvenuto per la richiesta avanzata
dal CSA e dalle altre associazioni promotrici circa la gratuità delle
prestazioni fornite agli handicappati intellettivi maggiorenni che
frequentano i centri diurni assistenziali (8).
Anche se certamente molti sono i problemi rimasti
aperti, è stato deciso di operare (come operatori, sindacalisti, insegnanti,
diretti interessati, familiari e volontari) per:
- far assumere dagli Assessori al lavoro e alla
formazione professionale le competenze in materia di handicappati, compresi
quelli con potenzialità lavorative ridotte, come gli handicappati
intellettivi;
- sviluppare una maggiore pressione nei confronti
del sindacato, richiamandolo al suo compito di tutela anche nei confronti di
questi cittadini.
Nessuno nega le difficoltà del mercato del lavoro,
ma sia le organizzazioni sindacali, che l'Ente locale devono svolgere un ruolo
preciso al fine di garantire comunque una quota di posti di lavoro da destinare
agli handicappati nell'ambito delle occasioni occupazionali.
Molto dibattuto è stato il ruolo che devono svolgere
i servizi socio-assistenziali, in particolare i compiti dei centri diurni per
gli handicappati intellettivi con nulla o limitata autonomia.
Gli educatori tendono a proporre un servizio che si
fonda su progetti decisi singolarmente sulla base di loro autonome valutazioni.
Le associazioni, invece, insistono perché innanzitutto il servizio sia
assicurato a tutti gli utenti almeno cinque giorni alla settimana e per non
meno di otto ore al giorno e, come si ricordava in precedenza, senza il
versamento di alcun contributo economico da parte dei familiari (9).
Si contesta soprattutto la discrezionalità lasciata
oggi all'operatore (che decide a quanti giorni, a quante ore di frequenza ha
diritto la persona handicappata) e si chiede che il servizio sia finalmente
regolato da una delibera, che recepisca le richieste delle famiglie e definisca
una volta per tutti i confini chiari entro i quali gli operatori hanno il loro
spazio di progettualità.
Mentre la mattinata è stata ricca di stimoli e
sollecitazioni volte ad individuare strategie per rivendicare il posto di
lavoro per quei soggetti che, pur con capacità lavorative ridotte, sono
ugualmente in grado di poter svolgere mansioni produttive, gli interventi del
pomeriggio hanno attirato l'attenzione dei presenti, in particolare degli
operatori e degli amministratori, sulla necessità di avvicinarsi all'utente
handicappato grave cercando di vedere innanzitutto la persona che egli
rappresenta, i suoi bisogni, le sue richieste anche emotive ed affettive. Tutto
ciò, al fine di vedere sempre meno l'utente come "problema" e sempre
più, invece, come persona che, proprio perché fortemente dipendente dagli
altri per la gravità delle sue condizioni, a maggior ragione va seguito,
valorizzando la professionalità degli operatori e la loro umanità.
(1) Fanno parte del CSA le seguenti
organizzazioni: ASVAD - Associazione solidarietà e volontariato a domicilio;
AGAFH - Associazione genitori adulti e fanciulli handicappati - USSL 34; AIAS
- Associazione italiana assistenza spastici - Sezione di Torino; AISM - Associazione
italiana sclerosi multipla - sezione piemontese; ANFAA - Associazione
nazionale famiglie adottive e affidatarie, Associazione ODISSEA 33 - Chivasso;
COGIDAS; Comitato per l'integrazione scolastica degli handicappati;
Coordinamento dei comitati spontanei di quartiere; Coordinamento para e tetraplegici;
Unione italiana ciechi - sezione di Torino; Unione italiana per la lotta alla
distrofia muscolare - sezione di Torino; Unione per la lotta contro
l'emarginazione sociale; UTIM - Unione per la tutela degli insufficienti
mentali.
Hanno aderito all'iniziativa:
Cooperativa animazione Valdocco - Torino; Associazione volontari Parella,
Campidoglio e S. Donato; Associazione case famiglia Frassati; CO.GE.HA -
Collettivo genitori handicappati - USSL 28; CSAIvrea; Cooperative Due Re;
G.R!H. - Genitori ragazzi handicappati - USSL 26; Associazione handicap e
sviluppo; Lega nazionale per il diritto al lavoro degli handicappati; Associazione
Scintilla - USSL 24 - Associazione Shantala - Nichelino; Associazione Vivere
insieme; Unione culturale "Franco Antonicelli".
(2) Cfr. Un ordine del giorno del
Consiglio comunale di Torino sull'inserimento lavorativo degli handicappati, Prospettive assistenziali n. 106,
aprile-giugno 1994.
(3) II primo comma dell'art. 38 della
Costituzione italiana recita: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto
dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza
sociale».
(4) Cfr. M.G. Breda - M. Rago, Formare per l'autonomia. Strumenti per la
preparazione professionale degli handicappati intellettivi, Rosenberg
& Sellier, Torino, 1991.
(6) Cfr. L. Gregori - G. Pastore,
"Esperienze di socializzazione di un centro diurno per handicappati gravi
con una quinta classe elementare", Prospettive
assistenziali, n. 107, luglio-settembre 1994.
(7) Cfr. G. Piana, "Handicappati
intellettivi: ruolo della famiglia e della società - Aspetti etici", Prospettive assistenziali, n. 105,
aprile-giugno 1994.
(8) Come è noto, da tempo il CSA -
Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti e l'UTIM, Unione per la
tutela degli insufficienti mentali, sostengono la gratuità dei servizi
assistenziali diurni erogati a persone handicappate intellettive maggiorenni,
quando il soggetto è titolare della sola pensione di invalidità e della
indennità di accompagnamento. Si veda al riguardo l'inserto "Enti
pubblici non imbrogliate i parenti degli assistiti", in Prospettive assistenziali, n. 105,
gennaio-marzo 1994.
(9) Si ricorda che, per esempio, li
Comune di Torino non ha mai richiesto contributi ai parenti degli assistiti che
frequentano i centri diurni, neppure per il trasporto e la mensa.
www.fondazionepromozionesociale.it