Prospettive assistenziali, n. 108, ottobre-dicembre
1994
IL DIRITTO ALLE CURE SANITARIE DEGLI
ANZIANI CRONICI NON AUTOSUFFICIENTI
Riportiamo
integralmente da "Giurisprudenza italiana", ottobre 1993, il commento
di Massimo Dogliotti alla sentenza del Tribunale di Venezia del 21 luglio 1992,
Presidente Chiozzi, Estensore Gionfrida, nella causa LR.E. di Venezia (Avv. Trevisan)
- Zardo Mirella in Padoan (Aw.ti Casellati e Tramarollo).
La sentenza
in oggetto stabilisce che il familiare di un anziano malato cronico non
autosufficiente è tenuto a pagare la retta di ricovero in istituto di
assistenza, ove se ne sia assunto l'obbligo con la sottoscrizione di uno
specifico accordo, ancorché la determinazione della retta e delle sue
modificazioni sia rimessa alla volontà unilaterale dell'istituto.
Si precisa
che la Signora Zardo Mirella non ha inviato alcuna disdetta all'impegno
sottoscritto, invio ritenuto indispensabile dal CSA - Comitato per la difesa
dei diritti degli assistiti. Nessuna causa è stata finora intentata da enti
pubblici a seguito di disdetta.
Testo della sentenza
Omissis. - Quanto al merito è da rilevare che la convenuta ha
anzitutto eccepito l'illegittimità del comportamento dell'IRE nella
determinazione delle rette, nelle quali sono state comprese le spese sanitarie
e farmaceutiche, spese che - in base al disposto della Legge 23 dicembre 1978,
n. 833 istitutiva del servizio sanitario gratuito - avrebbero dovuto far carico
all'Erario e non essere addebitate alla persona degente o al firmatario della
convenzione di accoglimento. Questo Tribunale ha già avuto modo di rilevare che
la legge invocata dalla convenuta, lungi dall'introdurre specifiche norme,
immediatamente applicabili, per l'attuazione dei principi enunciati, ha
dettato precetti di contenuto programmatico con i quali è stata demandata allo
Stato, alle Regioni ed agli Enti territoriali minori l'attuazione della riforma
e la concreta realizzazione di un servizio sanitario nazionale. In difetto di
una normativa attuativa di quei principi - normativa che avrebbe dovuto
contemplare anche il sistema attraverso il quale gli Enti decentrati operanti
nel settore sanitario avrebbero dovuto partecipare dei cespiti economici
costituenti il Fondo sanitario nazionale - non poteva insorgere in capo all'IRE
alcun obbligo di trasferire sul piano pubblico le spese per l'assistenza
sanitaria e farmaceutica; perciò legittimamente l'Ente di ricovero ha potuto
continuare a negoziare le proprie prestazioni iure privatorum, ispirandosi nella propria gestione finanziaria a
criteri di economicità e, dunque, maggiorando i corrispettivi richiesti per le
attività pattuite in corrispondenza all'aumento dei costi di esercizio. Dunque
l'assorbimento da parte dell'Erario delle spese di ricovero facenti capo
all'IRE avrebbe potuto essere possibile solo a seguito di uno specifico
intervento normativo che avesse consentito all'Amministrazione attrice di
partecipare al Fondo sanitario nazionale.
Questo Tribunale ha poi aggiunto che uno strumento
normativo suscettibile di aver dato pratica attuazione ai principi dettati alla
legge n. 833 del 1978 anche per i ricoverati in Istituti di lungodegenza
potrebbe essere individuato soltanto nel Decreto del Presidente del Consiglio
8 agosto 1985 (in Gazz. Uff., n. 191
del 14 agosto 1985). Ma, con riferimento al caso di specie, la citata norma non
ha rilievo alcuno, posto che il debito facente capo alla convenuta riguarda rette
maturate a tutto l'ottobre 1984, cioè relative ad un periodo antecedente
all'entrata in vigore del citato decreto.
La convenuta ha inoltre eccepito la nullità della
clausola n. 2 della convenzione di accoglimento sul rilievo che essa
consentirebbe all'IRE di applicare unilateralmente un aumento della prestazione
posta a carico della firmataria della convenzione stessa; la nullità della
clausola in questione deriverebbe, dunque, dall'indeterminabilità dell'oggetto
della convenzione per non essere previsto alcun parametro sul quale regolare
gli aumenti periodici delle rette (art. 1346 in relazione all'art. 1418 c.c.).
È questo il punto nodale della controversia, sviluppato da entrambe le parti
anche nel corso della discussione orale.
Con la denunciata clausola i contraenti hanno in via
principale previsto l'obbligo al pagamento di una retta in rate mensili
anticipate, originariamente fissata in lire 22.000 giornaliere, precisando
poi: «la retta stessa dovrà subire le variazioni che durante il periodo di
ricovero fossero fissate dall'IRE».
Avuto riguardo al contenuto della previsione
negoziale, che determina in maniera espressa e specifica l'entità della retta
iniziale, il riferimento alla nullità del contratto per indeterminatezza
dell'oggetto deve più propriamente intendersi volto a sostenere la nullità
(parziale: art. 1419 c.c.), della sola clausola concernente gli adeguamenti
successivi unilateralmente fissati dall'IRE.
In argomento va osservato che in via generale la
sanzione di nullità comminata dal codice costituisce presidio del rilievo
legale dell'oggetto quale requisito del contratto secondo la fondamentale
previsione dell'art. 1325 c.c. Nel sistema della legge viene, invero,
considerato essenziale che l'incontro della volontà delle parti, che
costituisce il fondamento dell'autonomia privata, si realizzi concretamente su
tutti i requisiti del contratto; ed è in relazione a tale esigenza che risulta
espressamente formulata la generale comminatoria di nullità di cui al 2° comma
dell'art. 1418 c.c.
Per ciò che concerne più specificamente l'oggetto
del contratto l'art. 1346 c.c. esige che lo stesso sia determinato e
determinabile. È essenziale quindi che la volontà comune dei contraenti abbia
posto una concreta disciplina sulla base della quale sia possibile identificare
l'oggetto del contratto anche in funzione di semplici elementi e criteri
prestabiliti idonei allo scopo (salvi i casi eccezionali: quali, pur in
mancanza di una espressa previsione contrattuale, la legge introduca propri
criteri integrativi - cfr. art. 1474 c.c. -).
Nella fattispecie considerata, nella quale la
prestazione di una delle parti è parzialmente rimessa per ciò che concerne gli
adeguamenti del corrispettivo, alla determinazione unilaterale dell'altra,
potrebbe sostenersi la nullità della clausola per indeterminatezza dell'oggetto
nella sola ipotesi in cui l'attribuzione alla controparte del potere di
variazione sia svincolata da qualsiasi limite, rinvenibile dal contesto
negoziale e sostanzialmente rimessa al mero arbitrio dell'interessato. Si
dovrebbe, infatti, ammettere che non è dato conoscere alla radice lo stesso contenuto
quantitativo dell'obbligazione che, potendo liberamente spaziare, finirebbe
per non essere più riconducibile alla stessa parte, che una simile delega
abbia formulato.
Andando peraltro a valutare in concreto il contenuto
negoziale della clausola sembra doversi escludere che l'obbligato abbia
rimesso all'IRE la possibilità di introdurre senza limiti arbitrarie variazioni
(in aumento) della retta di degenza.
Nell'ambito della ricostruzione della comune volontà
delle parti non può, infatti, prescindersi dalla ricerca del significato
globale dell'assetto negoziale, procedendo ad una interpretazione complessiva
delle clausole (art. 1363 c.c.). L'enunciazione del trattamento di ospitalità
nella casa di riposo e la definizione delle prestazioni offerte e della retta
relativa, sono state formulate dalle parti con specifico riferimento
all'organizzazione della struttura ricettiva amministrata dall'IRE e deve
quindi ritenersi che la determinazione della retta iniziale e delle successive
variazioni sia in concreto riferibile all'adesione del contraente al
tariffario delle rette di degenza generalmente in vigore nell'ambito della
struttura in virtù di apposite delibere.
Il risultato dell'esposta interpretazione è nei fatti
analogo a quello che, nella diversa fattispecie della compravendita, la legge
espressamente introduce ad integrazione della volontà contrattuale, facendo
riferimento (art. 1474 c.c.) al prezzo normalmente praticato dal venditore (con
una previsione poi richiamata in tema di somministrazione dell'art. 1461 c.c.).
La clausola così interpretata si sottrae alla denuncia
di nullità poiché in concreto la determinazione della prestazione risulta
rimessa, non già al mero arbitrio della controparte esercitabile senza limiti
sul piano individuale, bensì agli adeguamenti eventuali che per effetto di
delibere dell'Ente risultino in via generale apportati alle tariffe vigenti;
prospettiva questa conoscibile e prevedibile, sia pure con varia approssimazione,
dall'obbligo al quale la determinazione risulta quindi indirettamente
riferibile anche con riguardo alla operatività della clausola.
Estranea al problema della nullità è l'evenienza che
gli aumenti della retta deliberati si rivelino eccessivamente onerosi per
l'obbligato al pagamento; potranno sotto tale profilo operare diversi
meccanismi negoziali ed il contraente potrà comunque avvalersi del recesso dal
contratto a tempo indeterminato.
Le premesse considerazioni valgono inoltre ad
evidenziare l'irrilevanza delle argomentazioni e delle istanze istruttive con
le quali la convenuta ha contestato i costi del servizio e della questione
della casa di riposo costituenti il presupposto delle delibere di variazione
delle rette. Trattasi, invero, di aspetti contabili e di gestione meramente
interni che non possono assumere significato sul piano strettamente
contrattuale che, come si 8 detto, è ancorato alle tariffe ed ai prezzi
generalmente adottati e praticati dall'Istituto. Pertanto, anche l'eccezione
di nullità della clausola n. 2 del contratto di accoglimento deve essere
disattesa.
È circostanza pacifica in causa - e comunque
ampiamente dimostrata - che la sig.ra Turchet Augusta è tuttora ricoverata
presso la Casa di Riposo SS. Giovanni e Paolo di Venezia dal febbraio 1981. Le
deposizioni testimoniali (del segretario dell'IRE Pierpaolo Minelli e del
funzionario dello stesso Istituto, Mario Roncarato) hanno dato conferma dei
periodi di ricovero risultanti dai prospetti prodotte dalla misura della
relativa esposizione debitoria a tutto il 31 ottobre 1984. Il credito è liquido
e determinato, risultando dal semplice conteggio dell'entità della retta nei
periodi, secondo le deliberazioni dell'Ente, e dei pagamenti parziali eseguiti.
Pertanto, in accoglimento della domanda, la convenuta
deve essere condannata a pagare all'IRE la somma di lire 20.265.000, a titolo
di rette maturate a tutto 31 ottobre 1984; non può essere, invece, accolta la
domanda con riferimento alle rette maturate nel periodo successivo per
l'assorbente motivo che il Tribunale non dispone di alcun dato concernente, da
un lato, le variazioni della retta e, dall'altro, l'ammontare delle rimesse effettuate
dall'obbligata. Il danno derivante dalla mora deve essere liquidato dalla data
della domanda (cioè dalla notifica dell'atto di citazione, mancando la prova di
una precedente costituzione in mora) secondo i criteri di cui all'art. 1224
c.c.; in concreto esso va determinato fino alla data della presente decisione
in misura corrispondente al tasso annuo del 22,50% praticato dalla Banca
Nazionale del Lavoro all'Amministrazione dell'IRE sullo scoperto di conto
corrente (come risulta dall'attestazione della Banca del 24 settembre 1984;
doc. 14 dell'attrice); per il periodo successivo alla data della sentenza sono
dovuti gli interessi moratori al tasso legale fino al saldo effettivo. - Omissis.
Commento di Massimo Dogliotti
1. Oggi, dopo il passaggio pressoché totale delle
funzioni assistenziali agli enti locali e lo scioglimento di quelli nazionali,
il sistema è profondamente mutato rispetto al passato, e gli interventi si
sono fatti più ampi, generalizzati e capillari (1). In questa nuova prospettiva
si è parlato molto - ed è forse l'argomento più dibattuto e controverso -
dell'assistenza agli anziani (nozione di cronicità e non autosufficienza, case
protette, affidamenti), ed alcune regioni, nel disciplinare legislativamente
le prestazioni assistenziali, individuano talora attività specifiche e
particolari a favore di tale categoria (2). Si assiste così ad una situazione
sostanzialmente analoga a quella che, circa un ventennio fa, caratterizzava
la questione minorile: settori extragiuridici acquistavano man mano
consapevolezza del problema, e ciò richiedeva una profonda riflessione da
parte del giurista.
La letteratura giuridica in materia minorile è
amplissima (3). Scarsa attenzione è rivolta invece ad altre categorie di
potenziali emarginati: qualche considerazione, con esempi, seppur non numerosi,
di notevole approfondimento, verso il malato di mente (4), almeno dopo la legge
n. 180 del 1978, assai limitata per il tossicodipendente (5) e praticamente
nulla per l'anziano, nonostante l'ampiezza del dibattito, recentemente
sviluppatosi in ambito clinico, assistenziale, ecc. (6).
Ancora una volta un ritardo culturale del giurista?
Bisogna dire che, una volta tanto, tale ritardo è almeno parzialmente
giustificato. E infatti l'approccio del giurista alla materia è assai più
difficile e problematico per l'anziano, rispetto, ad esempio, al fanciullo. La
figura del minore è nettamente definita dall'ordinamento: si tratta del
soggetto che non ha compiuto i diciotto anni: non si fa riferimento ad una
nozione di maturità necessariamente incerta ed equivoca, ma ad una valutazione
astratta, secondo l'id quot plerumque accidit: anche se il
minore appare maturo, non per questo cessa di essere tale e, al contrario, il
maggiorenne, che pur non sia in grado di provvedere a se stesso, è considerato
capace (salva l'ipotesi dell'incapacità naturale) fino a che non intervenga
sentenza di interdizione o inabilitazione. E vi è pure, com'è noto, un organo
giudiziario apposito, il Tribunale per i minorenni, investito delle relative
competenze.
Nulla di tutto ciò per l'anziano. Egli di per sé non
viene preso in considerazione dall'ordinamento, come invece accade per il
minore; viene al contrario in considerazione in quanto si trovi in una
condizione particolare, nella quale peraltro non rientrano solo gli anziani:
anziano non in grado di provvedere a se stesso, anziano senza mezzi di
sussistenza, ecc. E tale scelta appare del tutto corretta e condivisibile:
l'anziano che non si trovi in condizione di pericolo, di rischio, è soggetto
capace come qualsiasi altro, non necessita di particolari privilegi e
protezioni, né di limitazioni delle sue capacità.
È d'obbligo, a questo punto, qualche riferimento
alla Carta costituzionale (7). L'art. 2 Cost. garantisce ì diritti inviolabili
dell'individuo (e quindi - sicuramente - anche dell'anziano) come singolo e
nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità (famiglia, lavoro,
ospedale, istituto, ecc.). L'art. 3 Cost. impegna la Repubblica a rimuovere
ogni ostacolo economico-sociale che si frapponga allo sviluppo della personalità.
Ma pure va ricordato l'art. 32 Cost.: tutela della salute come diritto
dell'individuo e interesse della collettività (e la legge n. 833 del 1978
specifica il principio costituzionale, indicando tra gli obiettivi del Servizio
sanitario nazionale «la tutela della salute degli anziani, anche al fine di
prevenire e rimuovere le condizioni che potrebbero concorrere alla loro
emarginazione») nonché garanzia di cure gratuite per gli indigenti (8). Infine,
l'art. 38 Cost.: ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi
necessari (e tra essi potrebbe rientrare l'anziano) ha diritto al mantenimento
e all'assistenza sociale; i lavoratori hanno diritto a che siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita, tra l'altro, anche in
caso di vecchiaia (9). Da tutto quanto considerato emerge un'ulteriore
conseguenza: è possibile parlare di diritti dell'anziano in difficoltà, come
già si è fatto ampiamente per il minore (e come potrebbe avvenire per ogni
altro potenziale emarginato), in ogni settore della società, dalla famiglia al
lavoro (quanti anziani sono costretti a lavorare, non in regola e con scarso
guadagno, per arrotondare i magri proventi della pensione), all'assistenza... E
allora, norme ed istituti non rivolti esclusivamente e direttamente agli
anziani (non ve ne sono infatti, diversamente da quanto accade per i minori:
scelta, come si diceva, del tutto condivisibile, perché una legislazione
particolare e specifica «per gli anziani» finirebbe probabilmente per creare
nuove barriere di emarginazione) possono tuttavia riguardarsi con rinnovata
considerazione, per quanto appunto possano interessare gli anziani, quali
principali (ma non esclusivi) destinatari.
2. Si tratta di una problematica immensa. Individuandone
qualche aspetto tra i più significativi, vale la pena di soffermarsi sui
diritti fondamentali e, in particolare, su quelli che attengono alla personalità
e alla dignità dell'individuo, spesso violati quando si tratti di anziani. La
dottrina ha individuato vari "diritti", che in realtà sembrano costituire
differenti manifestazioni di un unico diritto: al nome, all'immagine,
all'onore, all'identità personale, alla riservatezza, alla libertà, ecc. (10).
È indubbio che tali indicazioni possano essere utilizzate, per garantire
meglio la posizione dell'anziano in istituto d'assistenza, ma pure nella
famiglia. Si pensi, ad esempio, alla prassi corrente negli istituti, dove
l'ospite non è chiamato con il proprio nome, non vengono rispettate le sue
abitudini, egli non può fare richieste, non ci si preoccupa della sua intimità,
quando viene visitato o accudito a letto, ecc. In tali casi sussisterebbero
violazioni dei diritti fondamentali, tutelabili davanti all'Autorità
giudiziaria, con possibilità di ottenere un ordine di inibizione a persistere
in quel comportamento ed eventuale condanna al risarcimento dei danni. Tutto
ciò nel caso che l'anziano sia in grado, sia pur parzialmente, di gestire se
stesso e tutelare da sé i propri diritti. Altrimenti il problema sarà quello di
trovare un soggetto che si occupi della difesa dei suoi diritti e della sua
rappresentanza in giudizio.
Qui si innesta la questione della tutela e curatela,
ben poco adatte a garantire i diritti della persona, perché costruite sulla
gestione del patrimonio e caratterizzate da una rigidezza eccessiva (da un
lato, totale incapacità, dall'altro, semicapacità, senza alcuna opzione
intermedia, laddove la realtà - soprattutto quella dell'anziano - è assai più
complessa e insofferente di precisi inquadramenti). Per il tutore la preoccupazione
principale, sulla base della vigente normativa, è la conservazione e
l'accrescimento dei patrimonio dell'incapace, mentre questi, il più delle
volte, avrebbe bisogno di sicurezza ed appoggio psicologico, e magari... di
essere convinto a spendere una parte delle sue sostanze, perché gli sia
assicurata, quando è possibile, una vita più agiata e comoda. È noto il
fenomeno dell'imponente patrimonio appartenente ai soggetti ospitati in
istituto - talora costituito dall'accumularsi per anni ed anni dei ratei di
pensione - immobilizzato presso le direzioni perché i titolari non si
preoccupano di utilizzarlo. Problemi vi sono pure per la scelta del tutore: In
genere è nominato un parente (ma la scelta talora può rivelarsi pericolosa e
nociva per l'incapace: può accadere che questi venga trascurato, senza contare
le vere e proprie appropriazioni indebite delle sue sostanze). In mancanza, quando
i parenti non siano affidabili, il giudice frequentemente si regola
scegliendo il nominativo nell'albo degli avvocati e procuratori o magari nominando
un assistente sociale, che, il più delle volte, accetteranno l'incarico assai
malvolentieri.
Si parla da tempo di modifica della disciplina, anche
se spesso le idee non sono abbastanza chiare. Si ipotizza la istituzione di un
ufficio di pubblica tutela, espressione della realtà del territorio, i cui
componenti sarebbero quindi nominati dalle USL; ma con precise garanzie di professionalítà,
autonomia e responsabilità. L'ufficio potrebbe controllare in modo più
capillare ed incisivo l'attività dei tutori e curatori e svolgere direttamente
tali funzioni, quando non vi siano parenti o questi non siano affidabili. In
una prospettiva più generale sarebbe opportuna una soppressione
dell'interdizione e inabilitazione; forse converrebbe parlare di limiti alle
capacità, da definire caso per caso e, più in generale, di protezione
personale, aiuto e sostegno al soggetto più debole, nell'ambito di una stretta
collaborazione tra giudice e ufficio di pubblica tutela (11).
3. La sentenza che oggi si annota è assai significativa:
un vero e proprio documento di insensibilità culturale, prima ancora che
giuridica, incapacità di individuare le esigenze, i diritti fondamentali della
persona, pur sanciti espressamente dalla Carta costituzionale, e i mezzi di tutela,
pur offerte dall'ordinamento; insensibilità e incapacità, mascherate dietro un
apparente ossequio, ma solo formale, alla norma.
Nella specie l'IRE (Istituto di ricovero e rieducazione),
ente pubblico che gestisce l"'Amministrazione delle istituzioni
dell'E.C.A. di Venezia" chiede la condanna della figlia di un'anziana donna
non autosufficiente, al pagamento di somme maturate per rette oltre gli
interessi di mora. Precisa l'Ente che il pagamento era stato assunto dalla
parente firmataria di un non meglio precisato "contratto di
accoglimento". La prima indagine che il Collegio avrebbe dovuto effettuare
- e non ha fatto - era sulla natura di tale contratto e sull'obbligazione che
ne derivasse. La figlia dell'anziana ricoverata ha assunto il debito in
proprio, e dunque non si tratta sicuramente di fideiussione o altra forma di
garanzia; né sembra sussistere alcun precedente rapporto tra l'ente e
l'assistita (altrimenti si potrebbe forse parlare, per l'assunzione di debito
da parte del terzo, di espromissione). Resterebbe la figura del contratto a
favore di terzo, nel quale peraltro lo stipulante avrebbe sempre la possibilità
di revoca finché il terzo (nella specie l'assistito) non avesse dichiarato di
voler profittare della prestazione.
Di tutto ciò nella pronuncia non vi è traccia. Ma
forse vi è una spiegazione (non certo però una giustificazione): si ritiene - e
si tratta, come si cercherà di dimostrare, di un vero e proprio pregiudizio -
che il parente obbligato agli alimenti, per ciò stesso, sia tenuto al
pagamento delle rette di ricovero; e allora il "contratto" con
l'istituto troverebbe la sua causa proprio in tale obbligo legale. Nulla di più
errato.
L'obbligo alimentare è disciplinato dal titolo XIII,
libro primo del Codice civile, artt. 433 e segg. Si distingue in genere tra
alimenti, che costituirebbero lo stretto necessario per mantenere in vita il
soggetto, e mantenimento, che si configura come nozione più ampia, quale complesso
di prestazioni, che soddisfano le esigenze di vita dell'individuo, anche in
relazione alla sua collocazione economico-sociale.
Se la nozione di mantenimento è strettamente inerente
al rapporto di coniugi e filiazione, al contrario quella di alimenti si estende
ad una più ampia fascia di parenti. All'obbligo di prestare gli alimenti sono
tenuti, nell'ordine, il coniuge, i figli legittimi, naturali, adottivi o, in
mancanza, i discendenti prossimi, l'adottante nei confronti del figlio
adottivo, i genitori, ovvero gli ascendenti prossimi, i generi e le nuore, il
suocero e la suocera, i fratelli (art. 433 c.c.). Ancora, il destinatario di
una donazione è tenuto, con precedenza su ogni altro, a prestare gli alimenti
al donante (art. 437).
Il codice civile detta una disciplina minuta e
particolareggiata della materia: gli alimenti sono chiesti da chi versa in
stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, e sono
assegnati in proporzione al bisogno appunto di chi li domanda e alle
condizioni economiche di chi li deve somministrare (art. 438 c.c.). Mutando le
condizioni economiche di chi somministra o di chi riceve gli alimenti,
l'autorità giudiziaria può provvedere per la cessazione, riduzione, aumento,
secondo le circostanze (art. 440 c.c.). Ancora, l'obbligo alimentare può essere
adempiuto, a scelta del soggetto tenuto, mediante assegno periodico ovvero accogliendo
e mantenendo nella propria casa colui che ne ha diritto (art. 443 c.c.). Ma può
la stessa autorità giudiziaria determinare il modo di somministrazione, e
quindi, secondo alcune interpretazioni, eventualmente disporre perché il
soggetto obbligato, anche contro la sua volontà, accolga in casa il congiunto
che ne ha diritto (12).
In realtà l'obbligo alimentare, e soprattutto la
previsione di una così ampia fascia di parenti tenuti, appare indubbia
espressione di una società assai diversa dall'attuale, nella quale era diffuso
il modello di famiglia patriarcale, caratterizzata da una solidarietà
allargata, mentre ]-assistenza" pubblica era sostanzialmente
inesistente. Assai differente il quadro delineato dalla Carta costituzionale (e
che meglio rispecchia l'odierno contesto sociale); è vero che si richiede
correttamente a tutti i cittadini (e quindi sicuramente anche ai familiari)
l'adempimento degli obblighi di solidarietà (art. 2 cost.), tuttavia le
funzioni assistenziali sono assunte direttamente dallo Stato: servizi sociali,
sanità, scuola, ecc., per tutti i cittadini, sistema previdenziale per i lavoratori,
assistenza per gli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi di sussistenza (art.
38 Cost.).
Si è detto talora che la disciplina alimentare si
porrebbe in contrasto con un avanzato sistema di sicurezza sociale: in realtà
sembra potersi affermare che non sussiste contrasto, in quanto obbligazione
alimentare e prestazione assistenziale rispondono a logiche, e si muovono in
prospettive tra loro totalmente differenti, l'una privatistica, l'altra
pubblicistica, senza possibilità alcuna di collegamento o - ancor peggio - di
contaminazione (13). Non si potrebbe dunque sostenere, come pure è stato fatto,
che l'assistenza pubblica si indirizzi ai "poveri", solo in via
sussidiaria, quando non esistano parenti tenuti agli alimenti. E ciò, come si
diceva, perché l'assistenza è funzione fondamentale dello Stato moderno, e i
suoi compiti non possono essere delegati o meglio scaricati esclusivamente
sulla famiglia. Tale esigenza trova un preciso riscontro di carattere
processuale: non è data possibilità all'ente erogatore di assistenza di
chiamare in giudizio i parenti tenuti agli alimenti per sentirli condannare
all'adempimento della prestazione nei confronti del congiunto povero. Si
tratta di un rapporto privato tra il soggetto che ha diritto e il parente
obbligato, senza possibilità alcuna di interferenza da parte dell'ente
pubblico. Spetterà solo a chi è privo di mezzi di sostentamento ancorché
destinatario di prestazioni pubbliche, decidere discrezionalmente se agire o
meno nei confronti degli obbligati per gli alimenti. Ogni sostituzione
processuale sarebbe inammissibile (14).
Esclusa dunque la possibilità di azione da parte
dell'ente erogatore, che non è legittimato a rivalersi sui parenti tenuti, esso
potrebbe eventualmente indirizzare il "povero" al gratuito patrocinio
(ma sempre che questi intenda promuovere il giudizio alimentare); più ampio
spazio di manovra vi sarà soltanto nel caso che il povero non appaia in grado
di provvedere ai propri interessi; l'ente potrà inviare un rapporto alla Procura
della Repubblica, che, ove lo ritenga opportuno, promuoverà una causa di
interdizione. In tal caso spetterà comunque al tutore la scelta discrezionale
sulla richiesta degli alimenti. È pur vero infine che i parenti tenuti, se
inadempienti alla relativa prestazione, potrebbero incorrere in responsabilità
penale per violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570
c.p.c.), ma ancora una volta solo su querela del diretto interessato.
È appena il caso di osservare che i tentativi di
giustificare un potere di sostituzione processuale dell'ente erogatore, di
fronte alla chiara dizione della legge sono destinati al fallimento. Così il
riferimento all'art. 7 della legge n. 6872 del 1890, per cui spetta alla
congregazione di carità (poi ECA, oggi Comune) la cura degli interessi dei
poveri e la loro rappresentanza legale dinanzi all'autorità amministrativa e a
quella giudiziaria (15). La norma è stata da sempre interpretata (e non poteva
che essere così) come previsione di salvaguardia e protezione verso i
"poveri" visti come classe, collettività (ad es. procurando che la
volontà di testatori o donanti, genericamente a favore dei poveri, fosse
pienamente attuata) e non nei confronti del singolo individuo. Né miglior
fortuna potrebbe avere l'uso di uno strumento privatistico, come l'azione per
ingiustificato arricchimento, cui in genere ci si riferisce come extrema ratio... quando non si hanno
altre risorse, cui richiamarsi. In ogni caso il riferimento è del tutto
errato. Non si potrebbe parlare di ingiustificato arricchimento per il parente
tenuto agli alimenti finché questi non siano richiesti appunto dal soggetto
che ne ha diritto.
Né potrebbe argomentarsi l'esistenza di un obbligo
dal disposto dell'art. 155 T.U.L.P.S., per cui i parenti tenuti agli alimenti
sono bensì obbligati all'assistenza del congiunto povero e vengono in tal
senso diffidati dall'autorità locale; decorso inutilmente tale termine
tuttavia il soggetto bisognoso è soltanto ammesso al gratuito patrocinio per
promuovere una causa alimentare. E dunque ancora una volta la valutazione circa
la opportunità della richiesta è rimessa esclusivamente a lui.
4. Rilevata dunque la grave lacuna nella sentenza,
che non ha speso una parola per definire la natura del contratto e della
relativa obbligazione, bisogna aggiungere che, nel merito, la stessa pronuncia
contiene varie affermazioni che suscitano ulteriori e fondate perplessità. Essa
giustifica innanzitutto il comportamento dell'IRE che ha compreso nella
determinazione delle rette pure (sic) le spese sanitarie e farmaceutiche per
gli ospiti, in palese contrasto con le indicazioni della legge n. 833 del 1978,
istitutiva del Servizio sanitario, tendenzialmente gratuito (almeno fino a
tempi molto recenti...) o meglio finanziato a monte con il prelievo fiscale,
per cui tali spese dovrebbero far carico all'erario e non potrebbero
addebitarsi al soggetto degente, e con lo stesso art. 32 Cost. che prevede cure
gratuite per gli indigenti (16). Assai significativamente nessun riferimento
fa la sentenza a tali norme che pure dovrebbero costituire il fondamento di
ogni pronuncia, là dove sia in questione la tutela della (rectius il diritto alla) salute. Sembra di tornare al passato
quando la giurisprudenza (e gran parte della dottrina) volutamente ignorava
il valore dei principi costituzionali e il loro impatto sul resto
dell'ordinamento. E infatti significativamente, senza mai nominare la
Costituzione, la pronuncia recupera la distinzione ormai superata (anche se
ancora non del tutto desueta) tra norme precettive e programmatiche che non
riguarderebbe più soltanto la Costituzione, ma pure una legge ordinaria come
quella di riforma sanitaria: questa, invece di introdurre norme specifiche
direttamente applicabili, avrebbe dettato appunto "precetti di contenuto
programmatico", demandando allo Stato, alle Regioni e agli enti
territoriali minori l'attuazione della riforma e la concreta realizzazione del
servizio sanitario. Non ce ne eravamo accorti... pensavamo che la riforma
sanitaria fosse una realtà, se non altro per le polemiche e le critiche,
talora pilotate ed interessate, che essa ha suscitato e continua a suscitare.
In mancanza di una riforma, dunque, secondo la
pronuncia, nessun obbligo ha l'IRE di trasferire sul piano pubblico le spese
sanitarie e farmaceutiche, e legittimamente «ha potuto continuare a negoziare
le proprie prestazioni iure privatorum», ispirandosi nella propria gestione a
criteri di economicità, maggiorando i corrispettivi richiesti per le attività
pattuite, in corrispondenza dell'aumento dei costi di esercizio, con la conseguenza
- si dovrebbe aggiungere - che gli ospiti di quell'istituto e di molti altri,
spesso anziani non autosufficienti ed in condizioni finanziarie alquanto
precarie, sono gli unici (essi o i loro parenti)... a pagare in Italia la spesa
sanitaria. Certo il linguaggio economicista-manageriale (oggi così di moda)
di questo passo della sentenza mal si adatta alle esigenze di tutela di un
diritto, quale quello alla salute, solennemente richiamato dalla Carta
costituzionale. Ma ancora una volta la pronuncia appare precisa espressione di
una cultura, non solo giuridica, difficile da superare. È convinzione diffusa
che l'anziano non autosufficiente non sia malato (perché la malattia
riguarderebbe solo le fasi acute e non anche postumi permanenti) e le
prestazioni a suo favore rientrino sempre e comunque nel settore assistenziale
e non anche in quello sanitario (17). Eppure la migliore scienza medica insegna
che l'impegno deontologico non è soltanto quello di guarire il malato, ma pure
di ostacolare, ritardare il progressivo aggravamento e, nella fase terminale,
anche soltanto di lenire il dolore (18).
Tutto ciò una volta tanto ha precisi riscontri
normativi, non soltanto nella Carta costituzionale (il già ricordato art. 32
non pone discriminazioni di sorta tra soggetto e soggetto) ma anche nella
legislazione ordinaria che talora ci si dimentica o si finge di dimenticare.
Già la Legge 4 agosto 1955, n. 692, prevedeva che l'assistenza di malattia ai
pensionati di invalidità e di vecchiaia fosse fornita «senza limiti di durata
nei casi di malattie specifiche della vecchiaia nell'apposito elenco da
compilarsi a cura del Ministro del lavoro e della previdenza sociale». E con
decreto di tale Ministro del 21 dicembre 1956 venivano definite le malattie
specifiche della vecchiaia, ribadendosi altresì che «le malattie morbose, di
cui al precedente elenco sono assistibili senza limiti di durata dopo l'età
pensionabile», sotto forma di cure ambulatoriali e domiciliari o, se del caso,
di assistenza ospedaliera. Tali norme, pur oggi superate, appaiono assai
significative. L'art. 29 della legge 12 febbraio 1968, n. 132 precisa che le
regioni devono programmare i propri interventi nel settore ospedaliero, prevedendo
il fabbisogno di posti letto, distinti per «acuti, cronici, convalescenti,
lungodegenti». E infine la legge n. 833 del 1978, all'articolo 2 precisa che a
tutti i cittadini devono essere assicurati la diagnosi e le cure degli eventi
morbosi, quali ne siano le cause, la fenomenologia e la durata (19).
Dunque l'anziano non autosufficiente dovrebbe essere
destinatario di prestazioni sanitarie come qualsiasi altro cittadino. Al
contrario, come si diceva, nella prassi le prestazioni agli anziani non
autosufficienti, pur quelle di carattere sicuramente sanitario, sono
"scaricate" sul settore assistenziale. E non si tratta certo solo di
una scelta nominalistica.
Il diritto all'assistenza sociale si trova nello
stato di elaborazione in cui si trovava il diritto alla salute prima della
riforma sanitaria; tutto è incerto ed impreciso (20). Non si sa quali siano i contenuti
delle prestazioni e neppure si è certi sugli effettivi destinatari. Si sconta
la mancanza di una legge-quadro che fissi accettabili standards assistenziali ed individui esattamente i destinatari
delle prestazioni, e cioè i titolari del diritto all'assistenza (è peraltro
assai significativo che anche le regioni si siano ben guardate dal legiferare
su standards assistenziali e
destinatari: evidentemente uno stato di incertezza fa comodo a tutti). Forse,
però, anche se si addivenisse ad una legge-quadro sull'assistenza, vi sarebbe
sempre un margine di indeterminatezza (Chi avrebbe diritto all'assistenza? Chi
si potrebbe considerare inabile, secondo le indicazioni dell'art. 38 Cost.?),
con possibile rischio di discriminazioni.
In realtà, il sistema assistenziale, almeno formalmente,
è ancora quello dell'antica beneficenza ottocentesca (e non a caso la legge
Crispi del 1890 è ancora in vigore), anche se, dopo il D.P.R. n. 616 del 1977,
non è più verticistico, ma si svolge a livello locale; l'impostazione è però
sempre la medesima: concessione graziosa dall'alto e non diritto soggettivo
perfetto e direttamente azionabile da parte dell'utente (21).
5. In questo quadro si comprende fin troppo bene
]"`ideologia" del decreto 8 agosto 1985 del capo del Governo, che
attribuisce rilevantissime attività (guarda caso, proprio quelle relative ai
soggetti più deboli, handicappati, malati di mente, tossicodipendenti e
anziani) di contenuto sicuramente sanitario al settore socio-assistenziale,
da un terreno sicuro e certo (dove - come si diceva - le prestazioni e i
destinatari sono esattamente individuati e le violazioni dei diritti possono
essere fatte valere davanti al giudice) ad uno assolutamente fluido ed incerto.
Ma se è condannabile in generale l'“ideologia” del decreto, esso presta il
fianco a gravi critiche anche da un punto di vista tecnico-giuridico. Il decreto
richiama l'art. 30 della legge 27 dicembre 1983, n. 730, cui sembra voler dare
attuazione: tale norma precisa che per l'esercizio delle proprie competenze,
nelle attività di tipo socio-assistenziali, gli enti locali e le Regioni
possono avvalersi delle U.S.L., facendosi carico del relativo finanziamento;
gravano sul Fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo
sanitario connesse con quelle socio-assistenziali. Tale disposizione, nella
sostanza condivisibile (in mancanza, ancora, di una legge quadro sull'assistenza),
cerca, alla meno peggio, di trovare un coordinamento tra settore sanitario e
sociale.
Al contrario, il decreto 8 agosto 1985 fa rientrare
tra le attività socio-assistenziali (seppur di rilievo sanitario) attività
sicuramente "sanitarie", svolte nelle c.d. strutture protette, come
riabilitazione e rieducazione funzionale degli handicappati, cura e recupero
fisico-psichico dei malati mentali e dei tossicodipendenti, cura degli anziani
relativamente agli stati morbosi non curabili a domicilio. È evidente il
contrasto rispetto alla norma cui il decreto dovrebbe dare attuazione. Le
innovazioni e la delicatezza della materia disciplinata dal decreto avrebbero,
inoltre, richiesto comunque un intervento legislativo. Va ancora osservato
che le regioni, di solito pronte in altri settori a contrastare gli interventi
del potere centrale, hanno accettato senza discutere, anzi apparentemente con
molto entusiasmo, il decreto ed hanno provveduto di conseguenza, con molte
delibere, convenzioni, ecc. In ogni caso il decreto, per quanto si è detto,
parrebbe illegittimo, e dunque il giudice che si trovasse nel corso di una
controversia a doverlo applicare, potrebbe sicuramente non tenerne conto,
dichiarandone appunto l'illegittimità (seppure limitatamente al caso in
esame) (22).
Al predetto decreto fa riferimento la pronuncia, ma
solo per precisare che nella specie esso non potrebbe applicarsi, in quanto si
tratta di rette scadute anteriormente all'entrata in vigore di esso. Ma semmai,
per quanto si è detto precedentemente, le prestazioni agli anziani non
autosufficienti avrebbero dovuto essere poste, prima del decreto, interamente a
carico del sistema sanitario.
6. Ma al di là della configurazione del contratto in
questione e della necessaria incidenza del diritto costituzionale alla salute,
le argomentazioni strettamente formali del Tribunale non sono meno discutibili.
Si cerca in tutti i modi di giustificare una clausola, palese espressione
dell'arbitrio e della prevaricazione che spesso gli enti di assistenza
praticano nei confronti degli assistiti e dei loro parenti. Nella specie la figlia
dell'anziana non autosufficiente era tenuta a pagare una retta fissata in una
somma predeterminata «salve le varianti che durante il ricovero fossero
fissate (unilateralmente) dall'ente". Si potrebbe forse pensare ad un
vizio di consenso per violenza (la contraente è stata in sostanza
"obbligata" a sottoscrivere, se voleva ricoverare la madre in
istituto); ma più corretta probabilmente è la tesi della nullità della
clausola, stante la totale indeterminabilità dell'oggetto (23), non essendo
previsto alcun parametro per regolare gli aumenti periodici delle rette,
secondo il combinato disposto degli artt. 1325 e 1418 c.c.
Il Tribunale afferma correttamente (prescindendo dal
linguaggio che richiama palesemente a teorie della volontà ormai superate) che
nullità potrebbe esservi qualora la prestazione di una parte fosse rimessa,
anche solo per gli adeguamenti del corrispettivo, alla determinazione unilaterale
dell'altra, senza alcun limite (in sostanza un vero e proprio arbitrio), ma al
contrario una parte avrebbe attribuito una sorta di delega all'altra. Tuttavia,
invece di affermare che nella specie ci si troverebbe proprio in tale
situazione, il Collegio ritiene, con un tautologico gioco di parole, che
dall'assetto negoziale risultante dall'interpretazione complessiva delle
clausole, emerga come la definizione di prestazioni e rette siano formulate
dalle parti, con riferimento all'organizzazione della struttura ricettiva di
ricovero e al tariffario in vigore, a seguito di deliberazione dell'ente. Ma
se questo (e cioè una delle parti contrattuali) stabilisce unilateralmente gli
aumenti di rette e lo fa con delibera per tutti i ricoverati non per questo...
tale comportamento cessa di essere arbitrario.
La pronuncia, a giustificazione del suo assunto,
richiama l'art. 1474 c.c. (cui corrisponde in tema di somministrazione l'art.
1561 c.c.) (24). Ma il riferimento appare del tutto errato: tale norma,
nell'ambito del contratto di compravendita - e tutta da dimostrare sarebbe
comunque l'applicazione alla fattispecie - prevede un'integrazione ove le
parti non abbiano convenuto, ma è assolutamente pacifico che nella specie esse
abbiano convenuto, seppur lasciando gli aumenti all'arbitrio di una di esse.
Sarebbe un'evidente forzatura ritenere che la parte si sia rimessa «al prezzo
normalmente praticato dal venditore». Ma anche così la clausola dovrebbe
ritenersi nulla. Il prezzo, indicato dall'art. 1474 c.c., si riferisce a cose
di larga produzione e consumo, comunque generiche, che il soggetto vende ad un
prezzo relativamente costante nell'ambito di un'attività commerciale e potrebbe
pure riguardare eventuali aumenti (ad es. nella somministrazione) con una
relativa prevedibilità e conoscibilità. Tutto ciò non si può certo affermare
per il servizio di assistenza agli anziani, che non può confondersi con una
cosa generica o un bene di largo consumo: e le diverse rette praticate magari
a parità di prestazioni, nonché gli aumenti, talora indiscriminati e
ingiustificati, stanno a dimostrarlo. Se proprio il Tribunale avesse voluto
applicare una norma suppletiva, avrebbe dovuto richiamare l'art. 1657 c.c. in
materia di appalto (contratto che forse trova qualche maggiore somiglianza con
la fattispecie in esame): tale norma prevede infatti che la determinazione del
corrispettivo (o eventualmente l'aumento) sia determinato dal giudice.
La sentenza si conclude con la condanna della
convenuta al pagamento delle somme dovute e interessi di mora, nonché con la
concessione dell'esecutorietà, non prima di aver osservato che se gli aumenti erano
eccessivamente onerosi, il contraente «poteva recedere dal contratto».
Un'immagine veramente emblematica, evocata senza volerlo dai giudici
veneziani: un'anziana, malata e non autosufficiente, che è costretta ad
allontanarsi dall'istituto di ricovero, amministrato - si badi bene - da un
ente pubblico, e vede palesemente violato il suo diritto alla salute,
solennemente affermato dalla Carta costituzionale.
Per gli anziani non autosufficienti - e la sentenza
annotata finisce per avallare tale odioso assunto - il diritto alla salute è
ancora di là da venire.
Segnaliamo che su Giurisprudenza
italiana, ottobre 1993, pp. 687 e seguenti, è riportato integralmente il
parere del Prof. Pietro Rescigno che abbiamo pubblicato sul n. 97, gennaio-marzo
1992, di Prospettive assistenziali.
(1) In argomento, in particolare,
cfr., Dogliotti e Crisalli, Il minore e
l'assistenza, in Dir. Fam. Pers.,
1984, p. 328; Bassanini, Unità sanitarie
locali e riforma dell'amministrazione locale, in Reg. Com. Loc., 1977, n. 2-3, p. 107; Roehrssen, Profili funzionali delle Usl, in Ras. Amm. Sanità, 1976, p. 605.
(2) Cfr., per esempio, Regione
Piemonte, legge n. 54 del 3 settembre 1984, Disposizioni
per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici di edilizia
residenziale pubblica da realizzare da parte degli lacp, in Barriere architettoniche a cura di
Ponzio, Torino, 1985, p. 243.
(3) Cfr. per un primo riscontro Dogliotti, I diritti del minore e la Convenzione dell'ONU, in Dir. Fam. Pers., 1992, p. 301; per
un'ampia analisi cfr. Bessone, Dogliotti e Ferrando, Giurisprudenza del diritto di famiglia, Milano, 1991; Bonilini, Nozioni di diritto di famiglia, Torino,
1987, Bessone, Alpa, D'Angelo e Ferrando, La
famiglia nel nuovo diritto, Bologna, 1986; A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, Milano, 1984;
Giardina, La condizione giuridica del
minore, Napoli, 1984.
(4) Tra questi, Cendon, Il prezzo della follia, lesione della salute
mentale e responsabilità civile, Bologna, 1984; Id., Lesione della salute psichica e accertamento della responsabilità,
in Quadrimestre, 1984, 96; Zatti, Infermità di mente e diritti fondamentali
della persona, in Prospettive
assistenziali, 1987, n. 77, p. 17; Cendon, Profili dell'infermità di mente nel diritto privato, ivi, p. 23.
(5) Sul punto Caferra, Famiglia e assistenza. Il diritto della
famiglia nel sistema della sicurezza sociale, Bologna, 1984, p. 174;
Scotti, La disciplina delle
tossicodipendenze, in Quad. Giust.,
1983, n. 24, p. 1; Dogliotti, Tossicodipendenza:
prevenzione e prospettive, in Dir.
Fam. Pers., 1982, p. 653; Sciacchitano, L'esperienza
della sezione specializzata per le tossicodipendenze, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1980, p.
310.
(6) In argomento, cfr. Dogliotti, Le persone fisiche, in Trattato di diritto privato (Appendice)
a cura di Rescigno, Torino, 1991, p. 70; cfr., altresì, gli Atti del Convegno "Anziani cronici non autosufficienti: nuovi orientamenti
culturali e operativi", svoltosi a Milano nei giorni 20-21 maggio
1988, pubblicati in Eutanasia da
abbandono, Torino, 1988; Dogliotti, La
condizione giuridica dell'anziano, relazione presentata al Convegno di
Milano cit., p. 186, e in Dir. Fam. Pers., 1988, p. 1856; Id., I diritti dell'anziano, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1987, p.
708; altresì cfr. ampiamente, Pavone e Santanera, Anziani e interventi assistenziali, Roma, 1982; Tortello e
Santanera, L'assistenza espropriata. I
tentativi di salvataggio delle Ipab e la riforma dell'assistenza, Firenze,
1982; Brugnone, I diritti degli anziani, Firenze,
1983.
(7) In particolare Bessone, Rapporti
etico-socia/e, in Comm. Cost. a
cura di Branca, Bologna-Roma, 1977, p. 100; Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell'uomo,
in Diritto e valori, Bologna, 1985,
p. 123.
(8) In proposito, cfr. Dogliotti, Le persone fisiche, cit., p. 73; Id., La Corte Costituzionale riconosce la
risarcibilità del danno alla salute, in Rass.
Dir. Civ., 1988, p. 722; Alpa, Compendio del nuovo diritto privato, Torino,
1985, 205; per un'analisi dei casi di responsabilità contrattuale tra medico e
paziente cfr. Visintini, Inadempimento e
mora del debitore, in Il codice
civile, Commentario diretto da Schlesinger, art. 1228-1222, Milano, 1987,
p. 192; per i casi di responsabilità extracontrattuale sanitaria, che
costituiscono ormai l'ipotesi più frequente, cfr. Id., I fatti illeciti, II, Padova, 1990, p. 101; Cendon, op. cit., p. 69.
(9) In argomento, Rossi, La
tutela dell'incapacità al lavoro e della vecchiaia, in La previdenza sociale, Padova, 1985, p. 4.
(10) Cfr., per tutti, al riguardo,
Dogliotti, Le persone fisiche, in Trattato di diritto privato a cura di
Rescigno, Torino, 1982, p. 42 e segg.
(11) Cfr., con particolare riferimento all'esigenza di interventi
assistenziali, Brugnone, op. cit.,;
Pavone e Santanera, op. cit.,;
Battistacci, Un ufficio di pubblica
tutela per i soggetti a rischio di emarginazione, in Eutanasia da abbandono, Torino, 1988, p. 197.
(12) Al riguardo cfr., tra gli altri, Provera, Alimenti, in Commentario
al codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1972; Tedeschi,
Gli alimenti, in Trattato di dir.
civ. it. a cura di F. Vassalli, Torino, 1969, p. 435; Auletta, Alimenti e solidarietà familiare,
Milano, 1984; Vincenzi Amato, Gli alimenti, in
Trattato di diritto privato a cura di
Rescigno, Torino, 1982, p. 805, e da ultimo Dogliotti, Gli alimenti, in Tratt. dir.
civ. già diretto da Cicu e Messineo, e continuato da Mengoni, in corso di
pubblicazione per i tipi della Giuffrè, Milano.
(13) Cfr. peraltro la previsione di
Vincenzi-Amato, Gli alimenti, Milano,
1973, p. 202.
(14) Cfr. in
argomento Rescigno, Le garanzie da perseguire in favore
dell'anziano cronico non autosufficiente, in Eutanasia da abbandono, cit., p. 177; Dogliotti, Gli obblighi del Servizio sanitario
nazionale e dei parenti tenuti agli alimenti, cit., p. 186.
(15) Cfr., ampiamente, Dogliotti e Crisalli, Il minore e l'assistenza, cit., p. 328.
(16) Cfr. al riguardo
Rescigno, Le garanzie, cit., p. 177;
Dogliotti, Gli obblighi, cit., p.
186; e in particolare Santanera e Breda, Per
non morire d'abbandono. Manuale di autodifesa, Torino, 1990, pp. 61 e segg. e 123
e segg.
(17) In argomento cfr. ampiamente Pavone e Santanera, Anziani e interventi assistenziali,
cit., pp. 33 e segg.; Santanera e Breda, op.
cit., pp 49 e segg.; Fabris e Pernigotti, Ospedalizzazione a domicilio, Torino, 1987, pp. 21 e segg.; Fabris
e Ferrario, Cronici: comparto sanitario o
assistenziale?, in Prospettive
assistenziali, 1988, n. 81, p. 1.
(18) Sull'argomento dell'assistenza
al malato terminale cfr. specialmente Henriquet, La morfina per la via orale, in Atti
del V Congresso nazionale della Clinica del Dolore, svoltosi a Fasano
(Brindisi) il 18 febbraio 1992, in corso di pubblicazione.
(19) Per un ulteriore esame della
normativa, cfr. Santanera, Vecchi da
morire, cit. 23 e segg.; Santanera e Breda, Per non morire d'abbandono, cit., 130.
(20) Cfr. su tale problematica in
particolare Tortello e Santanera, L'assistenza
espropriata. I tentativi di salvataggio delle IPAB e La riforma dell'assistenza, Firenze, 1982; Dogliotti, La riforma dell'assistenza... della Corte
Costituzionale, in Prospettive
assistenziali, 1988, n. 84, p. 13.
(21) Dogliotti e Crisalli, op. cit., pp. 333 e segg.
(22) Cfr. ancora Dogliotti, Gli obblighi, cit., p. 190.
(23) Cfr., per tutti, al riguardo,
Scognamiglio, Il contratto, in Commentario al Codice civile a cura di Scialoja
e Branca, Bologna-Roma, 1970, pp. 66 e segg.; Sacco, Il contratto, in Trattato
Dir. Priv. diretto da Rescigno, cit., p. 10, Torino, 1982, p. 283; Bianca,
Il contratto, Milano, 1984, p. 581.
(24) Sul punto specificamente,
Rubino, Le compravendita, in Trattato di dir. civ. a cura di Cicu e
Messineo, Milano, 1971, p. 243.
www.fondazionepromozionesociale.it