Prospettive assistenziali, n. 108, ottobre-dicembre
1994
LA
SOLIDARIETA SECONDO FURIO COLOMBO
Su "Italia Caritas" n.
10/1994, Furio Colombo, che ricordiamo per gli insulti rivolti all'ANFAA
(Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) (1), sostiene a spada
tratta la solidarietà affermando: «Sono
logicamente e tecnicamente persuaso che se non ci si fa carico e non ci si preoccupa della sorte degli altri si rischia e anzi si affronta un crollo nel quale sarà travolto il destino di tutti, anche dei cosiddetti
"privilegiati” (...). Le persone che vivono la solidarietà hanno capito (per via religiosa, ma io
sostengo che si può capire anche per via logica), che abbandonare coloro che soffrono al loro destino vuol dire veramente liquidare il nostro futuro e quello che
noi chiamiamo civiltà e cultura. Non ci è dato di separare e spezzare il legame
che ci unisce irrevocabilmente agli altri». E aggiunge: «La solidarietà è come un ponte a due corsie: una va verso i paesi più disastrati a portare tutto l'aiuto possibile; l'altra, che
non può essere bloccata, porta
esseri umani verso di noi (...)».
Conclude Furio Colombo: «Nel momento in cui prendiamo in mano il destino di un altro abbiamo in mano il nostro».
Ma, alle belle parole, seguono i
fatti?
Su "La Repubblica" del
9 ottobre 1994, Furio Colombo afferma che mentre percorreva una bella strada
del centro di San Paolo (Brasile) ha quasi inciampato su un bambino di circa 5
anni, che dormiva su un marciapiede. Dopo averlo guardato, il noto giornalista
non si è posto il problema di che cosa fare. Nessuna incertezza. Furio
Colombo giustifica il suo disimpegno con queste parole: «Non potevo toccarlo, neppure con l'intenzione di proteggerlo, lo avrei
terrorizzato (...). Ho imparato il limite di ciò che potevo fare: niente». E così si autoassolve (2).
AI riguardo pubblichiamo la
lettera inviata in data 20 ottobre 1994 a Furio Colombo da Donata Micucci,
Presidente dell'ANFAA, lettera a cui finora - come c'era da aspettarsi - non è
stata data alcuna risposta.
Ci sembra che il pensiero di
Furio Colombo possa essere così riassunto: «Bisogna parlare in termini elogiativi della solidarietà, ma è un'ottima cosa se
la fanno gli altri».
Lettera di Donata Micucci
Cosa si può fare quando si trova
un bambino di cinque anni che dorme, solo e abbandonato, ai bordi di una strada
di San Paolo? Niente, secondo Furio Colombo, che cerca di portare giustificazioni
- a mio avviso inaccettabili - per non essere intervenuto nei confronti di quel
piccolo (v. articolo "Quel bambino abbandonato per le strade di San
Paolo, in "La Repubblica" del 9.10.94).
Avrebbe potuto, invece, fare
molto, per salvare almeno quel
bambino! Non sarebbe stata una violenza nei suoi confronti, svegliarlo con dolcezza
e preoccuparsi quindi di rintracciare qualcuno che lo assistesse. A Furio Colombo,
giornalista famoso, non mancano certo le capacità per chiedere, informarsi,
sollecitare aiuti...
Esistono poi progetti seri di
intervento nei confronti di questi "meninos de rua" promossi da
organizzazioni umanitarie che provvedono ad accoglierli e che cercano di
assicurare loro un futuro migliore: ce ne sono anche a San Paolo e hanno tanto
bisogno di finanziamenti per poter sviluppare la loro attività, non certo
facile: perché non sostenerle economicamente? È un impegno proponibile anche
per noi, occidentali benestanti! Molti già lo fanno.
È vero che questi sono solo
piccoli, anche se significativi, atti di solidarietà e che giustizia vorrebbe
che non si intervenisse solo sugli effetti ma anche sulle cause
socio-economiche che determinano l'abbandono dì milioni di bambini nel mondo.
Mi permetto di suggerire anche a Furio Colombo di scrivere articoli per
proporre di sviluppare anche in questi paesi forme di accoglienza familiare.
Potrebbe essere inoltre puntualizzato il ruolo dell'adozione internazionale
non come soddisfacimento del "diritto al figlio per tutti" ma come
estrema, ma positiva scelta nei confronti di quei bambini in situazione di abbandono,
che non trovano nel loro paese, una famiglia che li possa accogliere.
I
VECCHI MALATI NON DEVONO ESSERE CURATI?
L'UNEBA, Unione nazionale
istituzioni ed iniziative di assistenza sociale, ha organizzato a Lecce un
seminario di studio sul tema "Le residenze sanitarie assistenziali nella
rete dei servizi alla persona". Come risulta dal resoconto pubblicato su "Informazione sociale"; n. 5, giugno 1994, Mons.
Ruppi, Arcivescovo di Lecce, nel mettere in guardia gli operatori del settore
da iniziative rivolte a sanitarizzare il settore dell'assistenza, ha
affermato: «Se volete trasformare tutte
le case di riposo in residenze sanitarie assistenziali, fate un errore grave e rischiate non solo di uccidere opere
meravigliose, che svolgono un lavoro egregio, molto apprezzato dalle famiglie e
dagli interessati, ma rischiate di aggravare ancora di più il bilancio della malasanità e di far saltare
lo stesso equilibrio sociale delle regioni e della nazione.
L'obiettivo di ogni seria politica sanitaria,
sociale e, comunque, civile, è quello di salvaguardare la persona nella sua individualità e libertà. L'urgenza di invertire la tendenza, riequilibrando il rapporto tra pubblico e privato, è imposta non solo dalla necessità di limitare gli sprechi e di porre un freno all'eccesso
di spesa ospedaliera, ma di garantire la validità dei servizi e soprattutto di
quella larga fascia di volontariato che costituisce una delle ricchezze della
nostra epoca».
Vorremmo sapere da Mons. Ruppi
se ritiene che gli anziani malati cronici non autosufficienti devono o non
devono essere curati. Nessuno in Italia si è mai sognato di «trasformare tutte le case di riposo in residenze assistenziali»; ma solo quelle in cui sono
ricoverati vecchi colpiti da gravi patologie. Nessuno, inoltre, è contrario
alla gestione di servizi da parte dei privati: si sostiene soltanto che anche
i privati devono rispettare le esigenze ed i diritti delle persone malate. Pertanto,
dovrebbero, a nostro avviso, fornire le necessarie cure sanitarie. È questa la
"sanitarizzazione" tanto temuta dall'Arcivescovo di Lecce?
(1) Cfr. Prospettive
assistenziali, n. 94, aprile-giugno 1991.
(2) II testo
integrale dell'articolo di F. Colombo apparso su "La Repubblica" del
9 ottobre 1994 è il seguente: «NEW YORK - Scrivo da New York ma l'episodio che
sto per narrare non viene da questa città. Ero in Brasile per le elezioni
politiche, uscivo dall'albergo Cesar Park, percorrevo una bella strada del
centro di San Paolo, verso Avenida Paulista dove c'era una festa (canzoni e
bandiere) a sostegno di un candidato. La Rua Augusta è elegante e bene
illuminata ma mi sono imbattuto in una zona di buio e ho quasi inciampato in
un mucchietto buttato sul marciapiede.
Era un bambino
che avrà avuto cinque anni e dormiva come un bambino, il viso sul braccio
allungato, le gambe scoperte dallo straccio con cui credeva di essersi nascosto.
Ne ho già
parlato, di sfuggita in un altro articolo. Ma adesso vorrei dire perché quel
piccolo avvenimento mi è rimasto impresso. Quel bambino era solo. Di solito, ho
imparato percorrendo le città del Brasile, i bambini si raccolgono in branco.
Mi hanno spiegato che la solitudine è sempre il terrore più grande dei bambini
vagabondi. Non ho alcuna esperienza per dire se un bambino così piccolo che
dorme da solo sul marciapiede di una grande città sia un fatto strano o
abituale.
Questa è una strada
piena di negozi, alcune gioiellerie. Cinquanta metri più avanti c'erano due
poliziotti. Sarà stata una ragione per sentirsi un po' più sicuro? In Brasile
non sempre la polizia protegge i bambini vagabondi. La memoria della strage
della Candelaria a Rio de Janeiro (otto piccole vittime falciate da raffiche
di armi automatiche mentre dormivano sulle gradinate di una chiesa) è ancora
fresca e proprio In questi giorni Hollywood ha annunciato che ne farà un film.
Nel mio caso,
stupore e riflessione sono stati messi in moto, io credo, dall'età del bambino.
Guardavo la testa indifesa, il viso ancora senza i segni della durezza di
strada, tranquillo nel sonno, e mi rendevo conto che stavo rispondendo a un
istinto, non a un pensiero. È lo stesso istinto che gli esseri umani
condividono con molti animali. Ciò che è piccolo e tenero ed evidentemente
incapace di aiutarsi da solo provoca una reazione protettiva. Succede tra le
scimmie, succede all'animale che allatta un cucciolo abbandonato di una specie
sconosciuta senza che scatti l'altro istinto, di diffidenza verso la specie
sconosciuta.
La parte
intellettuale di me è stata più accorta ma meno nobile. Più che altro mi poneva
il problema: come mettere a posto la coscienza? II bambino era li, respirava
nel sonno che certo era sopravvenuto per mancanza di forze, non per la
tranquilla decisione di andare a dormire. Aveva fatto un estremo atto di
fiducia negli altri, nella protezione del mondo, forse per l'ultima volta
nella sua vita.
Non potevo
toccarlo, neppure con l'intenzione di proteggerlo, lo avrei terrorizzato. Non
potevo farlo notare ai passanti. Sarebbe apparso un gesto ridicolo come
attrarre l'attenzione di un newyorkese su un senza casa. Manca ormai il
dislivello della meraviglia. Un bambino di cinque anni dorme da solo sul
marciapiede di una città, bella, evoluta, moderna, industriale, democratica.
Devo rassegnarmi a riconoscere che è un fatto "normale", nel senso
che non produce sorpresa, indignazione, neppure attenzione?
Ho imparato il
limite di ciò che potevo fare: niente. Se ne scrivo non è per comporre una
pagina commovente. II sentimento, se mai, è di disperazione. Ma vorrei
dedicare questa minima vicenda al ministro Guidi, uomo intelligente che ha appena denunciato un suo dubbio
sul male che può essere fatto ai bambini, in un mondo strano e irriconoscibile
in cui i bambini sono invocati come l'espediente che rimedierà agli squilibri
statistici. E poi entrano al primo posto nella lista del materiale sprecabile.
Ecco, vorrei dire al ministro il
pericolo su cui ogni sforzo, ogni attenzione dovrebbero essere concentrati:
quel bambino di cinque anni che dorme da solo sul marciapiede è già stato
derubato di tutto, è già stato svuotato, è già la vittima di un delitto che
nessun animale commetterebbe, l'abbandono. Se vi accade di passare da Rua
Augusta a San Paolo del Brasile e di vederlo dormire, il viso esposto al
pericolo che irrimediabilmente sta per venire, questa notte o fra poco, sapete
che la sua vita è già stata spazzata via. Non venduta, attenzione. Sarebbe un
atroce delitto ma legato a un'idea demenziale di valore. no, questo bambino non
vale nulla, non è nessuno, non serve. Un nuovo galateo ci insegna addirittura
a non vederla. II ministro Guidi, che credo sappia, più dei tradizionali ministri
ornamentali, dei pericoli che corrono i bambini, ne ha denunciato uno (l'espianto
clandestino di organi) che forse non esiste, non per pietà verso i piccoli ma
perché tecnicamente difficile. In un certo senso il ministro ha fatto bene lo
stesso. L'importante è impedire la buona educazione del non notare, non
vedere, non sapere, dimenticare.
Se posso essere utile con un minimo
di frammento d'esperienza, vorrei aggiungere un suggerimento: concentriamo
tutte le forze disponibili su quel che sappiamo per certo. Quel che sappiamo
per certo va al di là delle ipotesi anche crudeli e aberranti. Bisogna trovare
il modo di alzare talmente (anche attraverso interventi giuridici, diplomatici)
la soglia di guardia sul destino dei bambini, da giustificare anche la
possibilità di interventi trans-nazionali. E impegnandosi, s'intende, a usare
gli stessi standard nella propria casa. Non potrebbe un ministro collegarsi
con altri ministri, legare la propria azione a quella di altri paesi, includere
il lavoro e l'esperienza dell'Unicef, della Carìtas, del volontariato religioso
e laico e creare un cerchio benevolo e inflessibile di vigilanza? Sono persuaso
che sia una delle poche strade da cui il mondo che si presume civile può uscire
da questa stagione di stordimento concitato e inutile.
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