Prospettive assistenziali, n. 110, aprile-giugno 1995

 

 

Interrogativi

 

 

ESIGENZE E DIRITTI DELL'UTENZA NEL LAVORO PER PROGETTI

 

Sul n. 6, 1994, di "Servizi sociali", rivista della Fondazione Zancan, è stato pubblicato un lungo studio di Alessandro Pompei, responsabile dell'Ufficio formazione dell'Assessorato ai servi­zi sociali del Comune di Modena. II documento reca il titolo "Anziani non autosufficienti: lavoro per progetti e valutazione" e comprende i se­guenti capitoli: documentare l'attività professio­nale; lavorare per progetti per poter valutare; la relazione tra operatore ed anziano: quale impli­cazione teorica, quale obiettivo di salute per i servizi; l'operatore come risorsa; il protocollo di lavoro: un modo per standardizzare alcuni pro­cessi organizzativi per poterli valutare; la cartel­la professionale; il piano di lavoro: un modo per valutare il processo di aiuto; un modello operati­vo.

Nella presentazione del documento, Tiziano Vecchiato, Direttore scientifico della Fondazione Zancan, sostiene giustamente che «il lavoro per progetti nei servizi alle persone è motivo di cre­scente interesse. Grazie ad esso le collaborazio­ni sono facilitate. I problemi vengono approfondi­ti in modo più organico. Le risorse disponibili possono arricchirsi di valori aggiunti, prodotti nel lavoro comune. Le responsabilità possono me­glio aggregarsi su obiettivi condivisi».

La lettura dello studio di A. Pompei ci ha posto non pochi interrogativi dei quali presentiamo quelli a nostro avviso più importanti. Prima di tutto chiediamo come possa un progetto sugli anziani cronici non autosufficienti prescindere da quelle che sono le norme stabilite dalle leggi nazionali.

AI riguardo, perché viene proposto un piano di lavoro impostato sulla negazione del fonda­mentale diritto alle cure sanitarie nelle forme previste dalle leggi vigenti per tutti i cittadini?

A. Pompei conosce certamente la prassi della Regione Emilia Romagna secondo cui (i nostri lettori ci scusino se ci ripetiamo) le malattie qua­li le neoplasie, I'ictus, la demenza, le fratture, le malattie cardiovascolari, le sindromi psichiatri­che, le condizioni invalidanti degli apparati loco­motori - respiratori - genito-urinari, neurologici, diventano "condizioni di disagio" (1) quando ne sono colpiti gli anziani cronici non autosufficien­ti.

Ma perché mai un anziano malato di cancro, che non può essere curato a domicilio, deve ac­contentarsi di una casa protetta (servizio del comparto dell'assistenza/beneficenza) e pagare 60.000 lire al giorno, mentre un adulto avente la stessa patologia e identiche esigenze terapeuti­che è curato, fra l'altro anche gratuitamente, in una struttura della sanità? Non è questa una discriminazione sociale assolutamente intollera­bile?

È accettabile che le case protette in cui sono ricoverati anziani malati, siano dirette da opera­tori che hanno una preparazione professionale tale da non poter riconoscere se un anziano russa o è in coma?

Questa, ovviamente, non è un'accusa al per­sonale del settore assistenziale; intendiamo so­lamente sottolineare un'altra conseguenza - a nostro avviso estremamente negativa - del non riconoscimento della condizione di malato.

Concordiamo con A. Pompei quando sostiene che «vanno superati i tre modelli residenziali og­gi presenti (la casa di riposo, l'ospedale geriatri­co o i reparti di lungadegenza ospedalieri e le case protette) sia pure per motivi molto diversi, puntando sulla realizzazione di RSA che di que­ste esperienze riescano a recuperare il positivo». Ma è accettabile che il «recupero del positivo» avvenga negando esigenze e diritti fondamenta­li?

A. Pompei sa certamente che le vigenti norme sanitarie garantiscono il diritto alla cura e alla riabilitazione e ne assicurano l'esigibilità, mentre il settore dell'assistenza/beneficenza è caratte­rizzato dalla discrezionalità delle prestazioni.

Curare - è ovvio - non è e non può essere considerato un intervento che nega la qualità della vita; piuttosto è vero l'opposto: le cure me­diche, infermieristiche e riabilitative sono inter­venti indispensabili per guarire e per garantire in tutta la misura possibile buone condizioni esi­stenziali. Pertanto, tutte le prestazioni devono te­ner conto anche delle esigenze relazionali e so­ciali dei parenti e dei loro congiunti.

Riteniamo, inoltre, che il lavoro per progetti non debba riguardare solo l'efficacia e l'efficien­za degli interventi. Ci sembra che sia prioritario definire idonei e trasparenti criteri di accesso al servizio.

Ai cittadini interessa - molto più che agli ope­ratori - conoscere quali sono le condizioni po­ste dalle istituzioni per l'utilizzo dei servizi, le procedure da seguire, le possibilità di ricorso, i tempi di attesa, gli eventuali oneri economici a loro carico. Questioni che a nostro avviso devo­no far parte integrante di un valido progetto.

Ultima questione. II lavoro per progetti è una attività che compete solo al personale addetto? Perché nella impostazione, attuazione e verifica dei progetti non sono chiamate a collaborare le organizzazioni dell'utenza e quelle del volonta­riato che operano nel settore?

È giusto ritenere che siano sempre e solo gli operatori coloro che sono in grado di conoscere e interpretare (secondo alcuni anche decodifi­care) le esigenze dei cittadini?

Non sarebbe preferibile una collaborazione fra tutte le componenti sociali coinvolte?

 

(1) Cfr. "La Regione Emilia Romagna continua a negare agli anziani cronici non autosufficienti il diritto alle cure sa­nitarie", Prospettive assistenziali, n. 104, ottobre-dicembre 1993.

 

 

www.fondazionepromozionesociale.it