Prospettive assistenziali, n. 110, aprile-giugno
1995
L'INGANNO
PSICHIATRICO
Presso le
edizioni "Sensibili alle foglie"; Piazza Santa Maria Liberatrice 34,
00153 Roma, tel. 065757997, Roberto Cestari ha pubblicato il volume
"L'inganno psichiatrico"; 1994, pp. 224, L. 25.000. È il resoconto di
11 visite blitz in altrettanti manicomi italiani, effettuate dal febbraio 1993
al gennaio 1994.
Ciò che
l'Autore ricorda di più è «la puzza.
Un odore pesante, disgustoso e appiccicaticcio di escrementi, tanto penetrante
da rimanere a lungo addosso, sulla pelle e sugli abiti».
Prosegue
l'Autore: «Alcuni di quelli che
partecipavano alla visita (giornalisti, parlamentari, ecc.) hanno avuto conati
di vomito e sono dovuti uscire un po' all'aria aperta per riprendersi».
Ma, aggiunge
Cestari, «sebbene degradante, la
sporcizia è infatti il minore dei mali. Ciò è così facile da comprendere che
basta chiedersi: dovendo scegliere, preferiremmo vivere in un luogo sporco,
oppure in uno pulito dove però dobbiamo subire trattamenti psichiatrici
(elettroshock, psicofarmaci, eventuale contenzione fisica, ecc.)?».
Riportiamo
la prima parte del capitolo "Manicomi, lager e psichiatria" ;
raccomandando a tutti i lettori di leggere il libro e di valutare le terribili
sofferenze di migliaia di persone (26 mila sono ancora attualmente ricoverati)
e di interrogarsi, anche alla luce di quanto succede in altri paesi, su che
cosa può capitare a noi stessi. Al riguardo sono significative le
considerazioni di R. Cestari sull'ex Jugoslavia e sul Sud Africa.
MANICOMI, LAGER E
PSICHIATRIA
Sono le 6,30 del mattino, fa freddo: è il 22 febbraio
1993. Ci presentiamo all'uscita del manicomio di Siracusa: uno di noi estrae
un tesserino del Parlamento Italiano: «Sono Edo Ronchi, Deputato alla
Camera... ho potere ispettivo, dovete farci entrare...».
È la prima di una serie di visite a sorpresa, organizzate
dal Comitato dei Cittadini per i Diritti dell'Uomo (CCDU).
Andiamo verso i padiglioni... entriamo e quello che
ci troviamo davanti è qualcosa che nessuno di noi dimenticherà mai più. Subito
veniamo avvolti da un tanfo di escrementi nauseabondo, penetrante,
insopportabile.
Gli
stessi escrementi sono disseminati ovunque.
I pazienti, ma sarebbe meglio dire gli internati, di
notte sono rinchiusi in orribili cellette a due posti; lo sporco, la puzza e il
degrado sono impressionanti.
I
muri sono diroccati, scrostati, coperti di muffa, i serramenti (vetri e
finestre) rotti...
Le uniche cose che funzionano sono i catenacci che
chiudono le porte; anche le inferriate alle finestre sono in piena efficienza.
A quell'ora del mattino gli internati vengono fatti
uscire dalle celle e rinchiusi in un grande stanzone dove ci sono alcune sedie
e due finestre con le sbarre.
L'On. Ronchi chiede che la stanza venga aperta e i
reclusi si precipitano fuori a valanga. Non per cercare di scappare, né, come
spesso si vuol far credere, di aggredire qualcuno. Sono gentili, sorridono,
chiedono sigarette, qualche spicciolo, caramelle. Capiscono benissimo che le
persone che vedono arrivano da fuori, da quel mondo che è stato loro negato, e
che possono avere quello che loro non hanno.
Proseguiamo nell'ispezione e vediamo meglio queste
celle dove passano la notte: i materassi, privi di cerate, sono intrisi di
escrementi. Non vi è alcuna forma di arredo. Nelle stanzette solo i letti,
nelle sale comuni tavoli sedie e qualche panca. Chi vive lì non ha oggetti
personali; chi li ha (pochissimi), non ha posto dove metterli.
Dai bagni luridi, semidiroccati e senza porte, coi
pavimenti allagati di acqua, urina e feci, alle docce che solo a vederle si
esita ad entrare, temendo per la propria salute, la visita prosegue verso gli
altri padiglioni, nessuno escluso, sia maschili che femminili.
Qualcuno sta male; una giornalista deve uscire a
prendere un po' d'aria: il tanfo di escrementi colpisce lo stomaco.
Nei bagni di uno dei reparti femminili chiamo l'On.
Ronchi, per mostrargli l'estremo degrado di quell'ambiente. Dal fondo del
corridoio Ronchi risponde: «No, basta; ne ho visto abbastanza». Il suo volto è
pallido, anche lui ha lo stomaco sottosopra.
Nel pomeriggio della stessa giornata, visitiamo il
manicomio di Messina. In un reparto maschile c'è uno stanzone pieno di gente,
dove gli infermieri spalano letteralmente escrementi da terra, a mucchi. Decine
di internati urlano e si agitano, sporchi, scalzi e seminudi; uno è legato a
una panca.
Quando mi affaccio alla porta di quello stanzone,
nonostante la mia abitudine di medico a vedere anche cose orrende, ho un breve
attimo di smarrimento: l'unica cosa che mi viene subito in mente è un girone
dell'inferno di Dante.
Quando usciamo mi accorgo che l'odore, quel lezzo
insopportabile, c'è ancora, come se ci accompagnasse. Ci annusiamo: i nostri
vestiti ne sono rimasti impregnati; dobbiamo cambiarci e mandare tutto in
lavanderia.
Nei
mesi successivi, di visite a sorpresa ne facciamo molte altre.
Ogni volta portiamo con noi una troupe televisiva:
vogliamo che tutta la nazione si renda conto di questo scempio.
Alle visite partecipa poi anche il Senatore Franco
Greco, che guida la delegazione a Trapani, Napoli e Nocera Inferiore.
Dopo i blitz di Siracusa e Messina, seguono infatti
quelli di Rieti, Napoli (manicomio "II Frullone"), Trapani,
Girifalco (CZ), Aversa, Cogoleto (GE), ancora a Napoli (manicomio
"Leonardo Bianchi"), Nocera Inferiore e infine Sassari.
Le condizioni che troviamo sono simili a quelle dei
primi due posti visitati: ovunque vi sono immagini che colpiscono duramente. II
degrado, la sporcizia, l'umanità negata, fanno sorgere spontanea una rabbia, un
desiderio di giustizia per tutte quelle persone i cui diritti umani sono così
pesantemente violati.
Ogni
volta presento una denuncia alla Procura della Repubblica di competenza
territoriale. Durante le visite i parlamentari, i giornalisti, gli altri
rappresentanti del CCDU ed io parliamo con gli internati, e vengono alla luce
storie drammatiche.
Una donna è rinchiusa da quaranta anni perché aveva
avuto una storia d'amore con un ragazzo di una famiglia importante; lei era
povera e sola, così, per evitare quel matrimonio sconveniente, venne fatta
rinchiudere nel manicomio. È molto gentile, parla tranquillamente, aiuta le infermiere
a pulire. In quaranta anni nessuno psichiatra l'ha mai dimessa: l'hanno tenuta
lì, ed è lì ancora oggi.
Molti sono quelli ricoverati da bambini, a due, tre,
quattro anni di età. Non hanno imparato nemmeno a leggere o scrivere, sono
cresciuti lì, nel manicomio. Non sanno come è la vita al di fuori. La loro vita
intera è stata stroncata, negata.
A Trapani, sulle cartelle cliniche degli internati ci
sono le loro foto, fatte all'atto dell'entrata. Mentre sto osservando la
fotografia di una bambina di otto anni, una donna quarantenne passa dietro di
me: «Sono io, io... io quella!» grida la donna, riconosciutasi nella foto.
Un altro internato, come se fosse in carcere, ci dice
«... sono qui da venti anni, due mesi e dodici giorni...». Controlliamo le
date con il Senatore Greco, sulla cartella clinica: sono esatte.
A Cogoleto (il paese dove è nato Cristoforo Colombo),
incontriamo un vecchietto che ci ferma, ci chiede chi siamo e perché siamo li.
Quando riceve risposta, ci chiede allora perché lo tengono ancora lì. In breve
si scopre che egli è proprietario di una bella casa con vista sul mare, ha una
cospicua pensione e oltre duecentocinquantamilioni di lire in banca.
Non ha nessun grave handicap, non è "furioso",
potrebbe prendersi una donna che lo assiste e stare a casa sua...
A Napoli, il Senatore Greco fa amicizia con un ex
giornalista, rinchiuso lì da venti anni. Ora potrebbe andarsene, ma non ha posto
dove vivere, né lavoro. II Senatore Greco lo invita a casa sua. II degente
accetta solo dopo molte insistenze e per un periodo limitato di tempo, una
vacanza dice: non vuole disturbare.
II Senatore Greco, intervistato, commenta: «Queste (i
manicomi) sono le strutture del peccato sociale».
A Sassari c'è un uomo di quaranta anni che è li
rinchiuso in una stanza da quando era bambino: si chiama Ignazio. Ogni tanto
qualche infermiere lo fa camminare un po' il resto del tempo lo passa a
scrostare con le unghie il muro della sua "prigione".
La sporcizia e il degrado che troviamo non sono le
cose più gravi. Lì gli psichiatri hanno praticato sistematicamente la
distruzione di ogni uomo o donna che aveva la sventura di esserci rinchiuso.
Oggi rimangono i superstiti, spesso comunque irreparabilmente distrutti da
decenni di violenze, "terapie" e internamento.
Così si spiega anche il perché quei
"pazienti" non protestano, nonostante le condizioni in cui li fanno
vivere.
Eppure sarebbe la cosa più logica, ognuno di noi lo
farebbe. Vivere tra i propri escrementi, in ambienti malsani e dal tanfo
nauseabondo, spesso mangiando cibo schifoso: è normale che scatti la
ribellione.
Ma qui no: nessun gesto, nessuna parola. II
manicomio, le terapie psichiatriche, hanno fatto il loro dovere, anche e
persino su chi non aveva nessun motivo per essere lì.
Quella gente è stata uccisa dentro: questo è il vero
crimine. I muri scrostati, le finestre rotte, i materassi marci, sono solo la
punta di un iceberg di sofferenza che trova radici molto più profonde e
lontane.
Ci
sono oggi circa 26.000 persone rinchiuse nei quasi cento manicomi italiani.
Qualcuno ha detto in passato che la legge 180 aveva
svuotato i manicomi e "messo la gente per la strada".
Rispondo:
magari fosse stato così! Nella strada, anche come barboni, sarebbero stati
meglio! In verità quasi nessuno è uscito vivo dai manicomi.
Solo quelli che avevano i parenti che li accettavano
in casa o che erano ricchi (alcune decine in tutta la nazione) hanno potuto,
in pratica, andarsene. Dei più di centomila rinchiusi nei manicomi prima della
approvazione della 180, oggi ne restano 26.000, circa 4.000 sono forse quelli
che sono riusciti a "scappare", tutti gli altri sono morti durante
questi anni, dentro i manicomi stessi...
Per quelli che restano ci sono 26.000 storie di
atroci sofferenze, che non sono ancora cessate. Dozzine di elettroshock ne
hanno distrutto il cervello e la memoria; le percosse, le camicie di forza, le
torture fisiche e psichiche vissute per decenni sono qualcosa che lascia un
segno profondo.
Durante le visite ci sono anche i momenti drammatici.
A Girifalco e ad Aversa, nonostante il potere ispettivo proprio dei
parlamentari, gli psichiatri non vogliono far entrare nessuno.
Un ispettore dei personale a Girifalco vuole vedere i
nostri documenti. Glieli mostriamo, ma lui rifiuta di dire il suo nome,
aggredisce il cameraman, spintona fuori anche l'On. Ronchi e ci chiude la
porta in faccia. Dobbiamo chiamare i carabinieri; nella mia denuncia (fatta
dopo la visita), l'episodio viene descritto con precisione.
Con
l'arrivo dei Direttore e delle forze dell'ordine, entriamo.
A Napoli, al manicomio Leonardo Bianchi, due primari
psichiatri cercano di impedire la visita: il Dr. lervolino aggredisce il
cameraman; l'altro primario ci dice che non possiamo andare a visitare il
piano superiore dei suo reparto, dove i malati dormono: è pericolante.
Lo chiamo e gli faccio vedere che sopra c'è della
gente (si vedono alcuni internati attraverso le sbarre e le scale): se ci stanno
loro, ci possiamo andare anche noi. II primario non è d'accordo e non ci
vuole aprire la porta. Si mette a gridare, poi in un eccesso di ira, fugge,
esce dal reparto e chiude a chiave dietro di sé, imprigionandoci all'interno.
Con noi ha chiuso anche il suo Direttore e due
infermieri. Uno di questi ultimi riesce a trovare una seconda chiave; nel
frattempo col telefono cellulare, chiamo i carabinieri: chi ha detto che i
telefonini sono inutili?
Così, proseguiamo nella
visita.
In vari manicomi e in diversi reparti ci hanno detto
«state attenti, qui c'è gente pericolosissima...» oppure «se entrate qui non
ci assumiamo nessuna responsabilità per la vostra salute...».
La violenza dei cosiddetti malati di mente è
un'invenzione degli psichiatri utilizzata per giustificare la reclusione, le
catene, la camicia di forza... Abbiamo incontrato migliaia di ricoverati: gli
unici pericolosi, e che ci hanno aggredito, sono stati due psichiatri.
Lo scandalo nei manicomi è un argomento di attualità;
ma per chi conosce la storia è una attualità che dura da 170 anni, cioè da
quando i manicomi italiani hanno iniziato ad esistere.
È quasi divertente leggere le cronache dei 1820,
1823, 1860, 1901... relative agli scandali manicomiali: descrivono sempre le
stesse cose, la stessa sporcizia, il personale scarso, le stesse condizioni
inumane... poco è cambiato in tutto questo tempo.
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