Prospettive assistenziali, n. 110, aprile-giugno
1995
L'INTEGRAZIONE
SCOLASTICA DEGLI HANDICAPPATI A VENT'ANNI DALLA CIRCOLARE FALCUCCI
PIERO ROLLERO (*)
Riportiamo integralmente la relazione tenuta al 1°
convegno europeo "Handicappati intellettivi nell'Europa del 2000:
orientamenti culturali ed esperienze a confronto"; Milano, 25-26-27 maggio
1995, organizzato dall'Istituto Italiano di Medicina Sociale,
dall'Associazione Promozione Sociale e da Prospettive assistenziali.
1975-1995: ricorre quest'anno il ventesimo
anniversario dall'inizio ufficiale della piena integrazione scolastica degli
alunni in situazione di handicap. Risale alla metà degli anni '70, infatti, il
Documento "storico" della Commissione ministeriale presieduta dalla
senatrice Franca Falcucci, allegato alla Circolare del dicastero della Pubblica
Istruzione n. 227 dell'8 agosto 1975; un documento-base per tutta la normativa
successiva, a partire dalla legge 517 del 1977.
Già in precedenza, comunque, la legge 118 del 1971
(la prima a sancire per gli alunni in situazione di handicap il diritto alla
frequenza delle classi comuni) ha legittimato e incoraggiato, con l'art. 28,
significative esperienze di integrazione scolastica, in un clima di ricerca e
innovazione sociale e pedagogica. Esperienze che hanno certamente influenzato,
in positivo, le linee portanti del Documento del 1975 (vedi Scheda 1).
Condizioni e vantaggi dell'integrazione
II messaggio fondamentale contenuto nel Documento
Falcucci, ben espresso nel titolo del primo paragrafo, risulta ancora
estremamente attuale: «Un nuovo modo di essere della scuola, condizione della
piena integrazione scolastica». Questa indicazione si traduce specularmente nel
messaggio e nella constatazione correlativa: l'integrazione scolastica così
attuata introduce innovazioni significative a favore di tutti gli alunni. Si
leggano, nello stesso Documento, le espressioni: «le nuove forme espressive
(...), i nuovi linguaggi (...), il nuovo concetto di apprendimento (...)
costituiscono un arricchimento per tutti».
Nelle esperienze successive, non solo si è constatata
la validità di queste indicazioni, ma si è accentuata l'azione educativa verso
altri alunni in difficoltà e si è verificata una ulteriore fecondità
dell'integrazione scolastica correttamente intesa: l'handicap si è dimostrato
certamente un'alta occasione di educazione civile, ma anche una opportunità, una risorsa per fare scuola, per avviare ricerche e introdurre metodologie
innovative.
In ogni caso, tali vantaggi reciproci nella «coeducazione
fra alunni handicappati e non» comportano l'impegno che l'integrazione avvenga
nella ricerca della qualità complessiva per il gruppo classe e che la presenza
protagonista dell'alunno in situazione di handicap possa essere una occasione
ulteriore per la qualificazione degli obiettivi formativi per tutta la classe.
Attualità del Documento del 1975
Una lettura attenta e aggiornata del Documento del
1975 offre, a nostro avviso, indicazioni estremamente attuali. Non solo;
proprio per i messaggi lanciati allora in tema di innovazione della scuola come
condizione di una effettiva integrazione scolastica, tali indicazioni ci
interrogano sugli impegni ancora oggi irrisolti nella pratica quotidiana.
La difficile e incompiuta applicazione di tali
esigenze fondamentali giustifica il percorso non lineare ma ad ostacoli che
l'integrazione scolastica ha incontrato in questi venti anni.
Nel Documento Falcucci, «un nuovo modo di concepire e
di attuare la scuola» parte dalle premesse:
• che «i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento
e di adattamento devono essere considerati protagonisti
della propria crescita»
•
e che «in essi esistono potenzialità
conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate».
Di conseguenza, «la scuola, proprio perché deve
rapportare l'azione educativa alle potenzialità di ogni allievo, appare la struttura più appropriata per far superare
le condizioni di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i
bambini handicappati».
L'innovazione della scuola a questi fini passa
attraverso la determinazione degli obiettivi e la valutazione dei risultati,
soprattutto nella «affermazione di un
più articolato concetto di apprendimento che valorizzi tutte le forme
espressive (tramite) le quali l'alunno realizza e sviluppa le proprie potenzialità e che sino ad ora sono
state prevalentemente in ombra». Ancora:
«L'ingresso di
nuovi linguaggi nella scuola, se costituisce infatti un arricchimento per tutti, risulta essenziale
per gli alunni handicappati». Così «accanto ai livelli di intelligenza
logico-astrattiva», deve essere «considerata anche l'intelligenza sensorio-motoria e pratica».
Sotto l'aspetto strutturale, inoltre, il Documento
Falcucci suggeriva a suo tempo di privilegiare una organizzazione scolastica
"a tempo pieno". Le argomentazioni di fondo a sostegno di tale scelta
conservano intatta la loro attualità: sia per la necessità di offrire un tempo
più disteso agli alunni handicappati, sia per consentire in questo modo
maggiori occasioni di attività e di esperienze.
Ma l'indicazione fondamentale ci sembra quella
relativa all'unità degli interventi in una scuola veramente integrante e antiemarginante,
così da
«separare il
meno possibile le iniziative di recupero o di sostegno dalla normale attività
scolastica», in modo «di non legare i vantaggi dell'intervento individualizzato
agli svantaggi della separazione dal gruppo più stimolante degli alunni
"normali"».
È interessante notare come tali considerazioni siano
analoghe a quelle formulate da alcuni ricercatori statunitensi agli inizi
degli anni '90:
"Quando ci chiediamo: perché proprio tutti i bambini,
anche quelli con ritardo mentale grave, dovrebbero frequentare le classi
comuni normali, poniamo una domanda sbagliata. Lo stesso avviene quando ci
chiediamo: che benefici potrà trarre un bambino talmente grave (...) nel
frequentare insieme agli altri bambini della sua età? Si tratta sempre di
domande essenzialmente sbagliate. L'unica domanda che invece ci dovremmo porre
è: che cosa bisogna fare perché questo bambino possa frequentare bene la stessa
classe dei suoi coetanei? (...). Noi operatori dell'educazione dobbiamo trovare
il modo di rendere questa esperienza ricca e gratificante per tutti gli alunni,
piuttosto che discutere se dobbiamo o non dobbiamo farlo».
E le classi che attuano l'integrazione - sostengono
ancora i ricercatori americani - «arricchiscono ogni bambino dandogli
l'opportunità di imparare dagli altri, di occuparsi degli altri e di acquisire
le inclinazioni, le abilità e i valori necessari per far si che le nostre
comunità sostengano l'integrazione di tutti i cittadini (...). Quando vengono
forniti loro dei programmi scolastici adeguati e forme di sostegno in ambiti
integrati, gli alunni tendono a imparare di più di quanto riesca loro in ambiti
separati. Inoltre, quando sono educati dagli adulti in ambiti integrati, tutti
gli alunni possono imparare a capire, rispettare gli altri, essere sensibili e
abituarsi alle differenze e somiglianze tra i loro compagni. Gli alunni
possono anche imparare a interagire, comunicare, instaurare amicizie, lavorare
insieme e aiutarsi a vicenda sulla base delle loro potenzialità e dei loro
bisogni individuali» (Stainback e Stainback, La gestione avanzata dell'integrazione scolastica, Ed. Erikson,
Trento, 1993).
Può essere utile riprendere una riflessione sui vari
aspetti dell'integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap
partendo proprio dall'esperienza di Paesi, come gli Stati Uniti, che
conservano nel loro ordinamento il cosiddetto "doppio binario":
l'inserimento nelle classi comuni, l'educazione nelle strutture speciali. Tali
ricerche confermano, in particolare, la validità della cosiddetta
"coeducazione" di minori non handicappati con coetanei in situazione
di handicap ed indicano sperimentate metodologie e tecniche idonee ad instaurare
e migliorare l'integrazione scolastica.
Una scuola realmente integrata - sostengono gli
Stainback e i loro collaboratori - deve essere in grado di rispondere a disagi
e difficoltà potenzialmente evidenziabili da tutti gli alunni, non solo da
quelli "certificati" come handicappati. Sono molte, infatti, le
situazioni che richiedono una attenzione speciale, oltre all'handicap: disturbi
dell'apprendimento, svantaggi socio-culturali, differenze linguistiche ed
etniche, difficoltà contingenti, ecc. I ricercatori statunitensi confermano
perciò l'esigenza di creare una "rete integrata di risorse", una
organizzazione scolastica fondata sulla collaborazione e sulla cooperazione,
che sia in grado di "prendersi cura" di tutti e di ognuno, senza
stigmatizzare.
Nell'ambito di questa collaborazione, vanno
considerati i contributi integrati del capo istituto e dei diversi insegnanti,
ma anche degli operatori e delle risorse extrascolastiche, della famiglia e
non ultimo quello degli stessi alunni (attraverso forme di apprendimento
cooperativo, di aiuto reciproco, di tutoring, ecc.).
Un bilancio tra flussi e riflussi
Proprio le difficoltà di modifica strutturale delle
scuole e le remore, anche di origine psicologica, del personale
nell'affrontare gli impegni nuovi posti dall'integrazione scolastica, hanno
segnato in Italia il percorso di questi venti anni, caratterizzato da tappe di
arresto e altre di accelerazione. In modo sintetico, possiamo indicare i
momenti più significativi.
La sentenza della Corte di Cassazione del 1981
Già nel 1981, a pochi anni dal documento Falcucci del
'75 e dalla legge n. 517/1977, in seguito ad un episodio di rifiuto di un
alunno in situazione di handicap da parte di una scuola livornese, la Corte
di Cassazione ha assolto in seconda istanza i responsabili dell'istituto, attraverso
una sentenza che non è esagerato paragonare ad un pesante macigno destinato ad
influenzare per anni la cultura dell'integrazione. Tant'è che il Ministero
della pubblica istruzione, preoccupato
per le conseguenze di tale sentenza, ha formato una Commissione largamente
rappresentativa, per studiare le misure giuridiche ed organizzative atte a
fronteggiare il difficile momento. Ne è scaturito un documento, non meno
importante di quello del 1975, anche se più tecnico (e non più tacciabile come
impregnato di "ideologismi"), basilare in vista di un rinnovato
indirizzo dell'integrazione scolastica e della legislazione a sostegno della
stessa. Si tratta della Circolare ministeriale n. 258 del 22 settembre 1983,
avente per oggetto "Indicazioni di linee di intesa tra Scuola, Enti locali
e UU.SS.LL. in materia di integrazione scolastica degli alunni
portatori di handicap».
Questa risposta ("politica", ma
concretamente operativa) è risultata vincente alla lunga, avendo avuto la
definitiva conferma della sua linea - come vedremo tra breve - nella sentenza
"liberatoria" della Corte costituzionale del 1987 e nella
legge-quadro sull'handicap del 1992.
II
disegno tracciato dalla Circolare n. 258/83 ha una sua sequenza logica:
- a livello giuridico propone, come base, la
collaborazione istituzionale fra Scuola, Enti locali e UU.SS.LL. tramite la
stipula di precise "Intese";
- a livello organizzativo traccia le linee di tale
collaborazione, proponendo in particolare gruppi di lavoro interprofessionali
e interistituzionali;
- a livello operativo concreto individua nella
"diagnosi / profilo funzionale" e nel "piano educativo
individualizzato" gli strumenti tecnici per programmare e controllare una
efficace ed efficiente integrazione scolastica.
Il "parere" del C.NP.I. del 1986
Purtroppo, ancora nel 1986, sulla scia tracciata
dalla sentenza della Cassazione, un altro consesso autorevole come il Consiglio
nazionale della pubblica istruzione formulava, di sua iniziativa, un parere
(a dir poco infelice) «in ordine alla revisione della normativa
sull'integrazione scolastica». In questo caso, le tesi giuridiche della
sentenza si traducono in alcune proposte preoccupanti, come la richiesta di una
«certificazione di scolarizzabilità» prima dell'ingresso a scuola, a
cominciare dalla materna, o come l'istituzione di "centri sanitari"
per i soggetti ritenuti più gravi (senza, peraltro, poter indicare parametri
scientifici in base ai quali effettuare una tale selezione, ed escludendo
l'attività della scuola).
Va tuttavia segnalato che, in una raccolta del
C.N.P.I. sui «pareri di maggior rilievo culturale e politico» emessi nella
tornata 1983/1988, la pronuncia sull'integrazione scolastica non ha più
trovato posto (cfr.: Il Consiglio
nazionale della pubblica istruzione nel periodo 1983-88, in "Studi e
documenti degli Annali della P.I.", n. 48, Le Monnier, Firenze, 1989).
Come è noto, inoltre, la legislazione successiva, e- in particolare la legge-quadro
sull'handicap hanno salvaguardato la piena integrazione degli alunni in
situazione di handicap.
La sentenza della Corte costituzionale
Già nell'anno successivo al criticato parere del
C.N.P.I, comunque, la Corte costituzionale, con la nota sentenza n. 215 del 3
giugno 1987, ha superato definitivamente le speciose argomentazioni della
Cassazione e ha fornito nuovi argomenti giuridici e nuovi impulsi
all'integrazione scolastica di tutti gli alunni in situazione di handicap,
assicurandola anche nelle scuole superiori.
La cultura dell'integrazione, che ha così ripreso
vigore, ha poi trovato un punto di ulteriore forza nei principi ribaditi dalla
legge-quadro sull'handicap (legge n. 104/1992) e nei decreti applicativi della
stessa, soprattutto in quello sugli "Accordi di programma" che vanno
a sostituire e rinforzare le "Intese" previste in precedenza.
Gli anni '80: dalla Cassazione alla Corte
costituzionale
Un confronto fra le due sentenze può essere molto
utile per l'impatto che le relative argoméntazioni hanno sulla concezione di
una scuola per tutti e sulla stessa organizzazione e programmazione educativa
e didattica.
Questo confronto ha ovviamente solo un valore
storico e culturale, poiché la sentenza della Corte costituzionale (che ha
valore superiore a quello delle leggi ordinarie) ha superato le argomentazioni
e il dispositivo della Cassazione, contrari alla piena integrazione scolastica
di tutti gli alunni handicappati.
1. LA SCUOLA COME AMBIENTE
ESCLUSIVO DI ISTRUZIONE?
II primo argomento della Cassazione riguardava la
concezione della scuola come ambiente esclusivo
di istruzione. La Corte costituzionale richiamandosi alle leggi 118/1971 e
517/1977, respinge nettamente questa interpretazione:
«Non a caso nelle leggi del 1971 e del 1977 (il legislatore)
ha al riguardo congiuntamente indicato i fini dell'istruzione e della piena
formazione delle personalità (ovvero - il che è lo stesso - quelli dell'apprendimento e dell'inserimento), inquadrando in tale contesto le specifiche disposizioni
dettate in favore dei minorati».
2. IL "BUON
FUNZIONAMENTO" DEL PUBBLICO UFFICIO?
Un secondo argomento della Cassazione, più suggestivo,
riguarda la concezione della scuola intesa come "pubblico ufficio",
che sarebbe inevitabilmente pregiudicato dalla contemporanea presenza di
alunni normodotati e di alunni gravemente handicappati.
La Corte costituzionale argomenta, al contrario, che
la situazione giuridica degli handicappati nella comunità scolastica configura
un «diritto soggettivo pieno e perfetto» e ribadisce il principio per cui è
attraverso l'approntamento di «strumenti idonei» che si realizza il diritto
stesso «all'istruzione e allo sviluppo della personalità degli handicappati» e
non col «sacrificio di un tale diritto» rispetto a quello «ipoteticamente
contrapposto della comunità scolastica».
In altri termini, la compresenza dell'handicappato può
produrre non tanto delle "disfunzioni", ma delle esigenze supplementari. Ma a questo si pone rimedio non escludendo
I'handicappato, bensì introducendo quei sostegni e quelle strutture previste
dalla normativa. Ovviamente, se la tutela dei l'handicappato è un valore
meritevole di difesa giuridica, altrettanto degno è il valore costituito dagli
interessi degli alunni normodotati: come il primo non può essere sacrificato
in nome del secondo, altrettanto deve dirsi di quest'ultimo rispetto all'altro
(cfr.: E. Fassone, La Corte costituzionale emargina gli handicappati, in "Prospettive
assistenziali", n. 56, ottobre-dicembre 1981).
Secondo la norma, quindi, il costo sociale
dell'handicappato non deve ricadere né sul medesimo, né sulla
micro-collettività rappresentata dalla scuola che lo riceve, ma sulla comunità
più ampia che deve predisporre le strutture di sostegno.
A questo argomento si può aggiungere l'importante
parere del Consiglio di Stato n. 348 del 10 aprile 1991:
«Se si ritiene, in conformità alla Costituzione, che
non vi è graduazione di dignità e d'importanza fra le persone, e che anzi lo
sviluppo di chi è originariamente meno dotato è uno dei fini primari dello
Stato (art. 33 Cost.), è giocoforza concludere che non è prospettabile alcuna
gerarchia d'interessi e che il sistema scolastico deve occuparsi della
promozione e dello sviluppo degli svantaggiati, tanto quanto se ne occupa per i
normodotati».
3. IL DIRITTO ALL'ISTRUZIONE
«SPECIALE»?
Un terzo argomento della Cassazione riguarda
l'interpretazione della scuola non come «aperta a tutti» (art. 34 Cost.), ma
come composta di istituzioni separate, per cui gli handicappati troverebbero
accolto il loro «diritto a vedersi impartire l'istruzione in una struttura
diversa e apposita».
L'argomentazione contraria della Corte costituzionale
è di grande importanza e suggestione: l'integrazione
scolastica è lo strumento fondamentale per assicurare il diritto allo studio
degli handicappati e per rimuoverne gli ostacoli al suo soddisfacimento:
«Per valutare la condizione giuridica dei portatori
di handicap in riferimento all'istituzione scolastica occorre anzitutto
considerare, da un lato, che è oramai superata in sede scientifica la
concezione di una loro radicale irrecuperabilità, dall'altro che l'inserimento
e l'integrazione nella scuola ha fondamentale importanza ai fini di favorire il
recupero di tali soggetti (...). Insieme alle pratiche di cura e
riabilitazione ed al proficuo inserimento nella famiglia, la frequenza
scolastica è dunque un essenziale fattore di recupero del portatore di
handicap e di superamento della sua emarginazione»
In questo modo, il mondo giuridico prende atto e
lancia un messaggio fondamentale alla scuola come luogo privilegiato di
recupero nella pratica della coeducazione di handicappati e non handicappati.
Le difficoltà contingenti e i problemi aperti
È stato osservato che l'integrazione scolastica
degli handicappati, alla pari di altri difficili traguardi civili, non è mai
una conquista definitiva, ma va tutelata e perfezionata ogni giorno. Perciò,
non stupisce, anche se rammarica, che proprio nel ventennale di quel primo
importante documento dovuto ai lavori della Commissione Falcucci, nuovi
ostacoli si frappongano alla attuazione del processo pieno di inserimento
nella scuola di tutti.
Ritornano le scuole speciali?
Ad esempio, nel Testo unico della scuola (Decreto
legislativo 16 aprile 1994, n. 297) troviamo una indebita formalizzazione
giuridica delle scuole speciali all'art. 324 in una minuziosa elencazione di
istituzioni, le più svariate, destinate non solo ad alunni audiolesi e non
vedenti (come prevedono le leggi attuali), ma addirittura a «minori in
difficoltà»:
Art. 324 - Scuole aventi particolari finalità
1. Sono scuole con particolari finalità ai sensi
delle disposizioni del presente testo unico, oltre alle scuole funzionanti
presso gli istituti statali per non vedenti e gli istituti statali per
sordomuti, anche le scuole funzionanti presso altre istituzioni statali o
convenzionate con il Ministero della Pubblica Istruzione per speciali compiti
di istruzione ed educazione di minori portatori di handicap e di minori in
stato di difficoltà, nonché le scuole e gli istituti statali che si avvalgono,
agli stessi fini, di interventi specializzati a carattere continuativo».
Lo stesso Osservatorio permanente per l'handicap, istituito presso il
Ministero della pubblica istruzione ha approvato il 22 ottobre 1994 una mozione,
finalizzata a sollecitare una "radicale" modifica del Testo unico
negli articoli 6, 9 e 324, in quanto quest'ultimo «manca di fonte legislativa
che possa giustificarlo» [Cfr. in "Notizie" (pag. 51) "No
alle scuole speciali per handicappati", dove è riportata integralmente la
mozione].
Nuovi compiti al Capo di Istituto
Come è noto, il Dpr 24 febbraio 1994
("Atto di indirizzo e di coordinamento relativo ai compiti delle UU.SS.LL. in
materia di alunni portatori di
handicap"), all'art. 2, introduce per la prima volta nella legislazione
italiana, la possibilità per il Capo di Istituto di autonoma «segnalazione ai
servizi di base» al fine della «individuazione dell'alunno come persona
handicappata».
Tale compito viene poi dettagliatamente specificato
nella Circolare ministeriale n. 363 del 22 dicembre 1994 (punto 3, comma 2),
relativa alle iscrizioni degli alunni per l'anno scolastico 1995-96:
3.2. II Capo d'istituto, sentito il Consiglio di
classe, invita la famiglia, per iscritto, a produrre la documentazione stessa,
necessaria per l'esercizio del diritto all'integrazione scolastica, con
l'avvertenza che non provvedendo entro dieci giorni, il Capo dell'istituto medesimo
potrà direttamente rivolgersi all'Usl. Ove la famiglia espressamente rifiuti di
produrre la certificazione, l'alunno non può in alcun modo considerarsi in
situazione di handicap, a meno che nel suo interesse non intervenga il
Tribunale per i minorenni».
Si tratta di una nuova funzione del Capo di Istituto,
estremamente delicata, su cui si concentrano dubbi e argomenti che sono stati
affrontati ampiamente in altra sede, anche con una raccolta di autorevoli
pareri al riguardo (cfr., ad esempio: Handicap
& Scuola, n. 5-6, gennaiofebbraio 1995). In questa sede, vogliamo solo
accennare brevemente alla delicatezza dei rapporti che, con tale normativa,
vengono a instaurarsi fra il Capo Istituto e i servizi delle UU.SS.LL., le
famiglie e il Tribunale per i minorenni.
Circa il rapporto con le UU.SS.LL., occorre tenere
presente il codice deontologico degli operatori socio-sanitari che - come
risulta anche da Intese e Accordi di programma già siglati a livello nazionale
- richiedono esplicito assenso e collaborazione da parte della famiglia, ai
fini di un eventuale accesso ai servizi diagnostici.
Circa il rapporto con la famiglia ed eventualmente
con il Tribunale per i minorenni, ci limitiamo a riportare l'autorevole parere
di Alfredo Carlo Moro (ll consenso ai
trattamenti sanitari. autonomia e responsabilità familiare, in "La Famiglia",
settembre-ottobre 1993, pp. 15-24):
«In forza del principio del rispetto della persona
umana e del favor libertatis che
informa la Costituzione, non possono essere imposti coattivamente interventi
sanitari anche perché questo significherebbe aprire spaventose prospettive di
imposizioni, di divieti, di controlli che porterebbero ad involgere, al
limite, l'intero modo di vita del soggetto (...) e scivolando sulla china delle
quali, a trovare sul fondo abominevoli realtà».
In definitiva, noi siamo convinti che ci troviamo
nuovamente di fronte a una ennesima azione di supplenza da parte della scuola, rispetto a compiti che - come
molti altri - competono a istituzioni diverse. A nostro avviso, la
segnalazione della situazione di handicap dovrebbe seguire il processo inverso:
dai servizi socio-sanitari alla scuola e, prima ancora dell'ingresso nella scuola
stessa; non viceversa. Solo così, si può predisporre col dovuto anticipo ogni
struttura scolastica necessaria a far fronte alle singole esigenze. In ogni
caso occorre il preventivo consenso della famiglia.
Inoltre, i rapporti con la famiglia - proprio in
relazione ad un problema di estrema delicatezza e di profondo coinvolgimento
emotivo - devono essere lasciati a chi per professione, per preparazione
specifica e per esperienza possiede tutti gli strumenti adeguati al caso: gli
operatori dei servizi psicologici e sociali, lavorando in équipe ed accanto a
quelli di altre strutture (scuola compresa) hanno maggiori opportunità di interventi
idonei allo scopo.
Viceversa, le segnalazioni della scuola ai servizi
socio-sanitari hanno un riscontro statistico assai indicativo: un aumento di
alunni "handicappati" a mano a mano che si passa dalla scuola
materna alla scuola elementare e da questa alla scuola media. Gli ultimi dati
del Ministero della pubblica istruzione relativi all'anno scolastico 1993-94
confermano tale tendenza: la percentuale di alunni certificati come handicappati
e inseriti nelle sezioni e classi comuni passa dallo 0,97 della materna,
all'1,86 della elementare, al 2,27 della media dell'obbligo.
Scheda
1. La piena integrazione scolastica secondo la "Relazione Falcucci"
Fonte: Circolare
ministeriale n. 227 dell'agosto 1975, "Interventi a favore degli alunni
handicappati", Allegato 1 (Estratti)
PREMESSA
La preliminare
considerazione che la Commissione ha ritenuto di fare è che le possibilità di
attuazione di una struttura scolastica idonea ad affrontare il problema dei
ragazzi handicappati presuppone il convincimento che anche i soggetti con
difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere
considerati protagonisti della propria crescita.
In essi, infatti, esistono
potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate dagli schemi
e dalle richieste della cultura corrente e del costume sociale. Favorire lo
sviluppo di queste potenzialità è un impegno peculiare della scuola,
considerando che la funzione di questa è appunto quella di portare a
maturazione, sotto il profilo culturale, sociale, civile, le possibilità di
sviluppo di ogni bambino e di ogni giovane.
La scuola, proprio perché
deve rapportare l'azione educativa alle potenzialità individuali di ogni
allievo, appare la struttura più appropriata per far superare la condizione di
emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati,
anche se deve considerarsi coessenziale una organizzazione dei servizi
sanitari e sociali finalizzati all'identico obiettivo. Questo impegno
convergente si impone preliminarmente sotto il profilo della prevenzione anche
in senso diagnostico, terapeutico ed educativo da realizzarsi fin dalla
nascita ed in tutto l'arco prescolare, specialmente nei confronti del bambino
che abbia particolari difficoltà; sia per circoscriverne, ridurne ed
eliminarne le cause, ove possibile, nonché gli effetti di esse; sia per
evitare l'instaurarsi di disturbi secondari (...).
UN
NUOVO MODO DI ESSERE DELLA SCUOLA, CONDIZIONE DELLA PIENA INTEGRAZIONE
SCOLASTICA
II superamento di qualsiasi
forma di emarginazione degli handicappati passa attraverso un nuovo modo di
concepire e di attuare la scuola, così da poter veramente accogliere ogni
bambino ed ogni adolescente per favorirne lo sviluppo personale, precisando
peraltro che la frequenza di scuole comuni da parte di bambini handicappati non
implica il raggiungimento di mete culturali minime comuni.
Lo stesso criterio di
valutazione dell'esito scolastico deve perciò fare riferimento al grado di maturazione
raggiunto dall'alunno sia globalmente sia a livello degli apprendimenti
realizzati, superando il concetto rigido del voto e della pagella.
Fondamentale è
l'affermazione di un più articolato concetto di apprendimento che valorizzi
tutte le forme espressive attraverso le quali l'alunno realizza e sviluppa le
proprie potenzialità e che sino ad ora sono stati prevalentemente in ombra.
L'ingresso di nuovi
linguaggi nella scuola, se costituisce infatti un arricchimento per tutti, risulta
essenziale per gli alunni che non rispondono alle richieste di un lavoro
formale, in quanto offre loro reali possibilità di azione e di affermazione.
Si dovrebbe giungere per
questa via ad allargare il concetto di apprendimento affinché, accanto ai
livelli di intelligenza logico-astrattiva, venga considerata anche
l'intelligenza sensorio-motrice e pratica e siano soprattutto tenuti presenti i
processi di socializzazione (...).
In una scuola che,
organizzandosi organicamente in forme operative più ricche e più varie di
quelle offerte dall'insegnamento tradizionale, offre agli alunni una
possibilità di maturazione attraverso una pluralità di linguaggi e di
esperienze, è difficile ed artificioso distinguere tra attività
"didattiche", da intendersi come insegnamento delle "materie
principali", ed attività "integrative", tra l'insegnamento
"normale" ed attività di ricupero e di sostegno.
Le diverse attività
scolastiche non sono di per sé "primarie" o "integrative",
"normali" o di "recupero", ma lo diventano quando un
progetto didattico le valuta in rapporto al livello di maturazione e alle
esigenze di un singolo o di un gruppo.
Di qui la necessità che
tutte siano riportate, attraverso una chiara ed univoca interpretazione dei
decreti delegati ad una unitaria ed organica impostazione; diversamente, si
avrebbe una sovrapposizione di momenti diversi nel tempo scolastico
dell'alunno.
II contrasto disorienta
l'alunno ed ostacola l'avvio della collaborazione tra gli insegnanti che sarebbe,
al contrario, favorita da una programmazione unitaria del tempo scolastico
(...).
Si va affermando, inoltre,
la tendenza a separare il meno possibile le iniziative di recupero e di sostegno
dalla normale attività scolastica, alla cui ricca articolazione si affida il
compito di offrire a tutti, nell'ambito dei gruppi comuni, possibilità di
azione e di sviluppo.
Si cerca in questo modo di
non legare i vantaggi dell'intervento individualizzato agli svantaggi della
separazione dal gruppo più stimolante degli alunni "normali". Anche
per il sostegno ed il recupero quindi, la ricercata connessione con la normale
attività scolastica impedisce di concepire un livello distinto di
programmazione e di verifica (...).
Si ritiene, tuttavia,
indispensabile inserire nella prospettiva di sviluppo della vita scolastica la
dimensione dell'integrazione, affinché ad ogni livello di programmazione della
scuola a tempo pieno venga adeguatamente affrontato il problema degli alunni in
difficoltà.
Tali criteri debbono
ritenersi estesi anche alla scuola ordinaria non ancora a tempo pieno, perché
rappresentano una struttura operativa che facilita la prevenzione del
disadattamento o ne riduce la gravità (...).
(*) Redattore di “Handicap
& Scuola” e Componente del Gruppo H del Provveditorato agli Studi di
Torino.
www.fondazionepromozionesociale.it