Prospettive assistenziali, n. 110, aprile-giugno 1995

 

 

POLITICHE FAMILIARI E PRESTAZIONI SOCIALI (*)

GIOVANNI B. SGRITTA ('*)

 

 

Premessa: la singolarità del tema

Partirei da alcune considerazioni di premessa: Il tema di questo convegno presenta alcune sin­golari peculiarità. La prima è che tratta di un fe­nomeno - quello dell'abbandono - che da un punto di vista statistico è, per fortuna, decisa­mente contenuto. Non dispongo dei dati ufficiali rilevati recentemente, ma credo di non sbagliare di molto se insisto nel ritenere che si tratti di un fenomeno alquanto marginale. La seconda sin­golarità è che l'esiguità numerica del fenomeno nasconde invece un'incredibile pluralità di que­stioni e s'offre come un'occasione più che rara per discutere alcune linee di cambiamento della nostra società.

Senza alcuna pretesa di ordine e di comple­tezza, provo ad elencare alcuni contenuti che sono strettamente collegati al tema del conve­gno. AI di là di quelli che compaiono espressa­mente nel titolo o che, necessariamente, il titolo si limita ad evocare (come l'aborto e il diritto alla vita di chi non è ancora nato), è agevole cogliere dietro le parole "diritti", "gestanti", "madri", "neonati", "difficoltà", l'eco di richiami più ampi ai problemi della famiglia, della demografia, del­le politiche sociali; e poi la questione femminile, l'organizzazione dei servizi territoriali e il decen­tramento, i temi dell'esclusione e dell'inclusione; mentre si intravvedono - appena più sullo sfon­do - le questioni di etica pubblica e i tempi dei diritti di cittadinanza: di "gene" (etnia, razza), di genere (femminile e maschile) e di generazione (minori, adulti).

Se le cose stanno così, mi perdonerete se, anziché entrare direttamente nel cuore del tema dell'abbandono e di tutto ciò che ad esso è le­gato, mi limiterò ad aggirarmi nei paraggi, in mo­do un po' erratico, persino ellittico rispetto alle discussioni che sono state al centro della "rela­zione introduttiva" e che saranno di certo ripresi dalle relazioni che seguiranno.

Ma l'occasione è, come dire, troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Così come mi scusere­te se lo farò senza pormi eccessive preoccupa­zioni di sistematicità nell'esposizione, ma cer­cando piuttosto di capire i collegamenti tra la questione specifica dell'abbandono in cui ver­sano gestanti e neonati in difficoltà e gli aspetti più generali di cui ho detto in precedenza.

Partirei intanto da due argomenti che mi sem­bra si affaccino non appena si osserva il tema specifico da un punto di vista più generale. Li annuncio soltanto. II primo riguarda il rapporto tra l'abbandono, che può essere tematizzato co­me "spreco" e "rifiuto" o, se si vuole usare un linguaggio più neutro, come eliminazione nume­rica e simbolica dell'infanzia, e altri avvenimenti che sono tipici della situazione italiana, come il declino delle nascite e la crescente, intollerabile povertà che colpisce la popolazione minorile. II secondo argomento che vorrei considerare, perché mi sembra anch'esso pertinente alla ­questione dell'abbandono che è al centro del convegno, riguarda la famiglia e le politiche che ad essa sono rivolte nel nostro Paese.

 

II "valore" dei figli

Partirei in modo alquanto sfumato, conside­rando i risultati di una recente inchiesta Euroba­rometro condotta dalla Commissione delle Co­munità europee, nel 1993, su un campione rap­presentativo dei cittadini dei dodici paesi mem­bri. Secondo questa indagine, alla domanda se i figli sono importanti o persino indispensabili hanno risposto positivamente il 71% degli italia­ni intervistati contro una media del 64,7% degli europei. Ed è singolare che i paesi che occupa­no i primi posti di questa graduatoria di impor­tanza attribuita ai figli sono, con l'Italia, il Porto­gallo (72,2%), la Spagna (72,9%) e soprattutto la Grecia (88,8%); tutti paesi, che condividono con l'Italia una serie di caratteristiche sia demografi­che (bassa fecondità), sia matrimoniali (elevata stabilità della famiglia), sia politico-sociali (scar­sa incidenza degli aiuti rivolti alle famiglie con fi­gli), sia familiari (un ridotto numero di conviven­ze pre-nuziali e un limitato numero di famiglie composte di una sola persona).

Ma non è tutto. Inchieste condotte recente­mente in Italia da istituti specializzati sul "valore dei figli" hanno messo in rilievo anch'esse l'im­portanza che gli italiani attribuiscono ai figli. Ne è risultato che gli italiani apprezzano soprattutto il valore "affettivo" («il legame più stretto che puoi avere nella vita è quello con i tuoi figli»), la "realizzazione di sé" («fare il genitore è una delle più grandi soddisfazioni della vita») e la visione del figlio come "mezzo per trovare una propria identità" («avere un figlio ti fa sentire necessario ed importante»).

Confronti tra questi risultati ed altri ottenuti da analoghe inchieste condotte in altri paesi hanno portato alla conclusione che «in generale gli ita­liani attribuiscono ai figli un valore più elevato» che non i cittadini di altri paesi; inoltre, ne è ve­nuto che si riscontra una «generica maggiore valutazione del figlio» nelle regioni del "Mezzo­giorno" d'Italia rispetto al Nord e al Centro e che il valore accordato alla presenza di figli varia in ragione inversa al titolo di studio: è sempre più elevato nei livelli di istruzione meno elevati e, vi­ceversa, più basso in quelli più elevati.

Emerge pertanto da questa inchiesta una im­magine ampiamente positiva che gli italiani as­sociano alla procreazione. In genere, gli italiani "desiderano" o giudicano "ideale" un numero di figli pari a 2,20; dunque, molto più elevato di quelli che poi di fatto mettono al mondo. Per tutti i) figlio rappresenta «l'unico legame certo e dure­vole che abbiamo nella vita»; meno presente, e spesso totalmente assente, è invece «il motivo egoistico che il figlio possa diventare in futuro il supporto dei genitori anziani». Vi è, in conclusio­ne, «una visione italiana dei figli»: ed i figli, come scrivono gli autori dell'inchiesta, «valgono co­munque tanto per gli italiani».

C'è tuttavia una particolarità che va tenuta presente. Ed è il fatto che, nella totalità delle in­chieste che hanno preso in esame questo aspetto, il valore attribuito ai figli cambia in rela­zione all'età dei soggetti: è tanto più elevato quanto più alta è l'età degli intervistati. Nelle in­dagini Eurisko condotte da G. Calvi, la percen­tuale di giovani da 14 a 17 anni che hanno detto essere "importantissimo" avere dei figli è appe­na del 19%; questa percentuale balza al 24,9% nella classe 18-24 e poi sale in continuazione fi­no al 36,7% per la classe d'età 65-74 anni.

Ad analoghi risultati è giunta anche l'inchiesta condotta dall'IRP sulle opinioni degli italiani sulla "crescita zero". Insomma, le giovani generazioni accordano sempre meno importanza al fatto di avere figli, ritenendo evidentemente, come con­clude lo studio dell'IRP, che per loro «i costi su­perino i vantaggi».

 

Parole e fatti

In contrasto con l'apprezzamento positivo che gli italiani "a parole" manifestano per il valore dei figli si pongono altri dati. Se si va a vedere come "nei fatti" anziché nei "giudizi di valore" e nelle opinioni si comportano i nostri concittadi­ni, ne esce un quadro decisamente capovolto. Mi sottraggo all'obbligo di fornire la miriade di dati sulla condizione dell'infanzia nel nostro Paese: se ne occupa oggi, per una parte speci­fica, ma di grande rilievo "morale", questo con­vegno; se ne sono occupati numerosi studi e ri­cerche; vi sono innumerevoli atti di denuncia (che non sempre personalmente condivido, né nella forma né nella sostanza, ma la questione sarebbe troppo lunga da chiarire in questa se­de) e vi sono libri e intere collezioni di riviste specialistiche ("II Bambino incompiuto", ad esempio) che possono documentare quali e quanti siano gli abusi, le negligenze, le indiffe­renze, nonché le più elementari violazioni dei "diritti di cittadinanza" dei minori in Italia.

Lascio da parte questa vasta casistica solo per ragioni di tempo; ma vi prego di metterla nel conto. Mi soffermo invece su altri due aspetti della condizione dell'infanzia che sono stati spesso oggetto di discussione, ma meritano di essere richiamati. II primo è il tema della natalità, l'altro quello della povertà.

 

La "produzione" dell'infanzia

Perché la natalità, non è difficile da spiegare. La nascita, dopo tutto, può essere assunta co­me un indicatore significativo dell'atteggiamento della popolazione nei confronti dell'infanzia. Agli adulti non è dato soltanto il potere di "formare" o allevare le nuove generazioni, ma anche il pote­re di decidere se e in che misura "produrle". Se, in termini poco simpatici, paragoniamo il bambi­no ad un bene, ad una "merce", ci possiamo chiedere se una ridotta produzione di questa "merce" non rifletta un disinteresse da parte della società, ovvero il fatto che la società prefe­risce altri "beni", apprezzi altri valori; insomma che sono venute meno le ragioni che in passato ne favorivano la "produzione", e che i "costi" connessi alla sua produzione siano ritenuti ec­cessivi, certo superiori ai vantaggi che si può sperare di ricavare dalla loro presenza. II para­gone non è simpatico, ripeto; ciò che più impor­ta, tuttavia, è che sia convincente.

Il fatto è che all'inizio del secolo i bambini in età fino a quattordici anni erano circa un terzo della popolazione. Poco meno di cent'anni sono bastati perché questa quota si riducesse a circa la metà, mentre il peso degli anziani è quasi tri­plicato. L'Italia, non diversamente dagli altri pae­si avanzati del mondo occidentale, ha conosciu­to dalla metà degli anni '60 ad oggi un declino costante della fecondità. II numero medio di figli per donna è passato da 2,42 del 1970 all'1,20 del 1993, ed è oggi assai più basso di quello re­gistrato in qualunque Paese europeo. Si tratta - è bene segnalarlo - di valori "congiunturali" e non definitivi; in altri termini, non è possibile escludere che vi possa essere una ripresa della

fecondità, poiché non è detto che le donne man­terranno questi comportamenti riproduttivi nel corso della loro intera vita feconda. Ad ogni mo­do, gli attuali valori sono circa il 40% inferiori al valore di 2,1 figli per donna che assicurerebbe il "rimpiazzo" della popolazione da una generazio­ne all'altra.

Prima di proseguire, va messa in luce una ca­ratteristica del nostro Paese rispetto agli altri. In Italia si fanno pochi figli, ma quelli che nascono nella stragrande maggioranza dentro il matrimonio; poco più del 6% sono, difatti, le na­scite di figli al di fuori del matrimonio. Negli altri paesi europei, invece, è assai elevata la percen­tuale di nascite fuori del matrimonio. Nel 1992, secondo dati Eurostat, erano il 44,6% in Danimarca, il 33,20/o in Francia, il 30,8% nel Regno unito e, uscendo dall'Unione europea, il 25,2 nella vicina cattolica Austria, il 49,4% in Svezia e il 57,3% in Islanda. Sicché vale la regola che in Italia si giunge alla nascita dei figli esclusiva­mente attraverso il matrimonio, mentre in altri paesi sembrerebbe sempre più vero il contrario e si arriva al matrimonio attraverso la nascita dei figli.

Stando a questi dati, sembrerebbe pertanto lecito ritenere che nel nostro Paese, più che al­trove, si dà un'importanza tutto sommato scarsa al bambino; che la sua produzione, per ripren­dere la metafora economica di prima, non è più ritenuta "conveniente". Se non è addirittura con­siderata ormai alla stregua di una merce di "lus­so". E non è tutto, perché se si vanno ad esami­nare (cosa che non farò) le ragioni per cui que­sto è avvenuto, ci si avvede che esse sono in­dubbiamente ragioni economiche: se in passato i figli costituivano essenzialmente un investi­mento per i genitori da cui si poteva trarre sia un reddito immediato sia un reddito differito negli anni della vecchiaia, dunque conveniva produrli, oggi non è più così; oggi i figli sono sempre più un costo, che ricade sempre più a lungo sulle spalle delle famiglie e che non dà alcun vantag­gio né immediato né futuro; al più dà onori e, se ci sono, affetti. Ma è certo che oneri ed onorari, in termini di tempo, risorse ed energie, prevalgo­no abbondantemente sui primi.

Ma la nascita non è che l'inizio di un cammino che si sviluppa per molti, se non per tutti, all'in­segna di iniquità, negazioni di diritti elementari, di opportunità, di cure, e comprensione per bi­sogni e necessità che sono specifici della per­sonalità in crescita del minore e che vengono invece per lo più "rimosse" o dimenticate dalla società. Un indicatore, forse particolare, ma cer­to di grande rilievo per mettere a fuoco quanto avviene dopo nell'itinerario dell'esistenza, è la povertà.

 

La povertà "ereditaria"

Mi limito a fornire pochi dati essenziali che traggo da una ricerca che sto conducendo da anni sulle diseguaglianze e sulla povertà nel no­stro Paese. Salto i dati generali, come salto ogni riferimento alle fonti (che sono fonti ufficiali) e ai metodi di calcolo della povertà, ed entro imme­diatamente in argomento.

Un dato trascurato della situazione italiana è quello della povertà dell'infanzia e dei minori in genere. Un po' ovunque, si ritiene che la povertà cresca all'aumentare dell'età, e che la povertà degli anziani sia un fenomeno più grave e diffu­so che la povertà degli altri gruppi della popola­zione. In realtà è vero il contrario. Un po' dovun­que, le cose sono cambiate in questi ultimi anni; le condizioni più gravi di disagio economico so­no sempre più riscontrabili all'inizio del ciclo di vita, nell'età infantili e giovanili. Ciò vale in parti­colare per l'Italia e, soprattutto, per gli Stati Uniti.

In realtà, oggi, sono circa undici ogni cento i bambini e i ragazzi con meno di 14 anni d'età che sono poveri; nel mentre che sono meno di sei ogni cento gli anziani con oltre 65 anni di età che sono classificabili come poveri. Ovviamente, non ha molto senso aprire un contenzioso sulla questione, stabilire di quanto i giovani sono più poveri degli anziani. E tuttavia è essenziale af­frontare questa questione, non foss'altro che per rivedere una convinzione diffusa sulla reale condizione dei minori, ritenuta erroneamente da molti come una "età d'oro" della vita, come una condizione di privilegio.

I dati si riferiscono all'intero territorio naziona­le, che soprattutto per quanto riguarda la distri­buzione della povertà è molto disomogeneo. AI Centro, ad esempio, la povertà di minori e anzia­ni assume quasi la stessa intensità in termini di rischio: 4,4% per i minori e 4,3% per gli anziani. AI Nord, le differenze sono appena più marcate. La condizione minorile è, quantunque di poco, migliore di quella degli anziani: 2,7% contro il 3,2%.

Il caso del Sud fa storia a sé, ed è poi quello che incide di più sul valore medio nazionale. II fatto significativo è che un quinto dei minori re­sidenti in queste regioni, uno su cinque, sono a rischio di povertà. Di più: se si tiene conto dei valori assoluti emerge un dato sconcertante. Su 959.000 minori in età inferiore ai 14 anni che, in Italia, al 1993 risultavano poveri, il 9% erano re­sidenti al Nord, il 6% al Centro, ma I'85% al Sud. II Sud funziona come un vero e proprio "serba­toio" della povertà minorile per l'intero Paese; è nelle regioni del Mezzogiorno che si concentra la quasi totalità della povertà minorile esistente oggi in Italia.

Con l'aggravante che la povertà dei minori è una povertà in "seconda battuta"; dipende, cioè; dalla condizione dei genitori. II bambino è pove­ro perché è povero il genitore, perché in casa non lavora nessuno o chi lavora ha un reddito insufficiente per mandare avanti la famiglia. In effetti, il rischio di povertà è in crescita ovunque quando il capofamiglia è disoccupato o è in cer­ca di una nuova occupazione (14,8% al Nord, 44,4% al Centro e 44,4% al Sud); se la madre è capofamiglia ed è casalinga, la povertà dei figli si impenna in misura considerevole, ovunque (Nord, 8,6%, Centro, 18,2% e Sud, 54,1%); ed inoltre, la povertà varia in ragione inversa al li­vello di istruzione: è alta se il livello di istruzione è basso ed è bassa quando è elevato.

Ancora una volta sono i minori a farne le spe­se. Per chi di loro incappa nella "sventura biolo­gica" di essere figlio di un genitore che non ha alcun titolo di studio, e se ha l'ulteriore handicap di nascere in una delle regioni del "Mezzogior­no", la probabilità che si trovi a vivere un'infan­zia ed una giovinezza all'insegna della povertà e del disagio economico è elevatissima: circa la metà di loro è "condannato" a trovarsi in tale stato. Senza ancora aver fatto nulla, e soprattut­to senza "poter" far nulla per allontanare questa minaccia. Se poi, sempre al Sud, ai genitori sen­za titolo di studio si sommano quelli che hanno la sola licenza elementare si arriva ad una inci­denza della povertà per i figli dell'84,1%. Più di otto bambini poveri su dieci al sud si trovano in questa condizione.

La conclusione è purtroppo semplice da trar­re. Qui non c'è storia, perché non c'è stata vita. In palese violazione dei più elementari principi etici dello stato sociale, chi si affaccia alla vita subisce senza colpa le bizze del puro caso bio­logico. Dire che la povertà dei minori è una po­vertà in seconda battuta, una povertà da "man­tenimento", o dire che i minori sono poveri per effetto dell'ineludibile solidarietà che li lega alla loro famiglia, equivale a ripetere grosso modo ciò che aveva scritto M. Harrington in L'altra America. E cioè che «il circolo vizioso della mise­ria tende a divenire più stretto, soffocante e sem­pre più legato al caso della nascita»; che i «gio­vani iniziano la vita in condizioni di povertà eredi­taria». Come dire, e vale anche per il nostro Mezzogiorno, che poveri non si diventa: si na­sce.

Che quando la povertà è di questa natura e aggredisce al principio della vita, non valgono tanti discorsi ed esami sui meccanismi che pos­sono innestare nella biografia di una persona un itinerario nella marginalità e nel disagio; non ha senso, in queste condizioni, tentare di spiegare il modo in cui si giunge ad un punto di esclusio­ne dalla società: perché né l'insuccesso scola­stico, né quello lavorativo, né eventuali difetti fi­sici o quant'altro possono essere evocati come cause sufficienti della povertà. Accade tutto pri­ma, come nelle antiche società di status, basate sull'ereditarietà delle posizioni, sulla sorte e sul gioco "cinico e baro" del destino. La cittadinan­za, lo stato sociale, il merito, l'uguaglianza del punti di partenza nella competizione sociale, ecc., tutto questo si riduce, per chi ha la sventu­ra di venire al mondo con questa ipoteca sulle spalle, ad un cumulo di parole prive di senso.

 

II "valore" della famiglia

II secondo argomento su cui induce a riflette­re il tema di questo convegno riguarda la fami­glia, l'organizzazione dei ruoli al suo interno e in particolare le politiche che ad essa vengono ri­volte.

Anche in questo caso possiamo partire da da­ti di opinione tratti dai molteplici sondaggi, che si conducono da sempre sui valori e gli orienta­menti della popolazione. E anche stavolta co­mincio con il riportare i dati dell'Eurobarometro su citati. Richiesti su quali fossero i principali valori della vita, gli italiani hanno indicato al pri­mo posto la famiglia nel 99% dei casi, al secon­do il lavoro, con una percentuale grosso modo identica e al terzo la vita di coppia, che ha otte­nuto il 93,5 dei consensi. Solo la Grecia e il Por­togallo hanno manifestato maggior apprezza­mento per la famiglia.

Inoltre, in proporzione più decisa che non i cittadini di altri Paesi, gli italiani hanno espresso un apprezzamento assai tiepido (appena il 9,4% contro una media europea del 19,1%) per la convivenza prenuziale, ritenuta addirittura ri­provevole per il 20% degli intervistati; mentre al­la domanda su quali fossero le conseguenze del divorzio di una coppia che non ha più legami af­fettivi validi, hanno risposto che esse sono da considerare "negative" nel 70% dei casi (contro una media europea che si attesta sul 59%). In generale, la posizione degli italiani è piuttosto elevata, in media europea, per tutti gli aspetti che riguardano la stabilità ed il primato della fa­miglia legittima, e relativamente bassa per quan­to concerne quegli aspetti che si potrebbero de­finire "innovativi" o "alternativi" (diritti degli omo­sessuali, ad esempio).

Questi dati trovano conferma in altri prece­denti, raccolti da inchieste condotte in Italia; penso, ad esempio, ai dati sui valori e gli stili di vita degli italiani prodotti dall'Eurisko in vari anni, che segnalano la «tenuta dei valori più nobili e meno nobili della famiglia ed il cedimento d'alcu­ne aspirazioni radicali e libertarie tipiche del de­cennio precedente». II 58% circa degli intervistati riteneva che «solo nella famiglia un uomo e una donna possono trovare tutto ciò che cerca­no»; 74,5% riteneva che «solo la famiglia riesce a creare affetti veri e duraturi»; ed il 92% pensa­va che «creare una famiglia felice è il più umano e il più nobile dei desideri».

Anche stavolta sono costretto a fermarmi pri­ma di quanto vorrei e sarebbe necessario per dare un quadro esauriente della situazione. Mi limito a citare i dati mancanti, che riguardano le relazioni di scambio e aiuto reciproco all'interno e tra le famiglie, i dati sulla permanenza lunga dei giovani in famiglia; più un dato, forse curio­so, che riguarda la percentuale di giovani italiani che ad un'inchiesta europea hanno dichiarato di avere trovato lavoro con l'aiuto dei familiari: 65% rispetto a valori molto più bassi dei giovani degli altri Paesi che si attestano mediamente sul 20% (fatti salvi i soliti casi della Grecia, del Portogallo e della Spagna che presentano valori non dissi­mili da quelli dei giovani italiani). Tutti dati che portano ulteriori conferme a un'immagine peral­tro quasi oleografica, da cartolina, sull'importan­za che la famiglia ha nella vita degli italiani.

 

Una repubblica fondata sulle famiglie

Del resto, non occorre fermarsi a considerare le "opinioni" per avere il polso della situazione. Qualunque altro indicatore reale conduce alla stessa conclusione. L'Italia è una repubblica sempre più fondata sulla famiglia, anziché sul lavoro; o, se si vuole, è una repubblica fondata sul "lavoro delle famiglie". Non vi è quasi ambito della vita sociale in cui questa osservazione non sia applicabile.

Nonostante il processo di modernizzazione e lo sviluppo di un'economia industriale, i legami solidaristici della famiglia estesa hanno conser­vato, in Italia più che altrove, la propria funziona­lità in una pluralità di ambiti economico-sociali fino a un'epoca relativamente recente. L'orga­nizzazione tradizionale della famiglia ha fornito una garanzia ed un punto d'appoggio incrollabi­le al quale si sono richiamate le forze politiche in tutti i momenti in cui erano in discussione le scelte nel campo delle politiche dei servizi so­ciali. Intorno a questo tema, ad esempio, si è svolta larga parte delle discussioni che hanno preceduto e accompagnato l'introduzione dei divorzio negli anni '70. I timori che allora affac­ciava il fronte anti-divorzista, e in parte anche quello favorevole al divorzio, era che con la fa­coltà di rompere il matrimonio si sarebbe messo a repentaglio o si sarebbe indebolito questo tes­suto di solidarietà diffusa.

Contando sulla forza e sulla tenuta della fami­glia, dunque, la politica sociale adottata in Italia ha sempre avuto carattere "residuale". Questa politica è stata, cioè, fondata sulla premessa che vi siano due canali naturali attraverso i quali i bisogni dei cittadini possono essere soddisfat­ti: il mercato e la famiglia. Solo quando essi ven­gono meno, le istituzioni di pubblico servizio do­vrebbero intervenire ed anche in tal caso solo temporaneamente.

Malgrado i profondi cambiamenti della società e della sua struttura produttiva, in particolare negli anni '70, la famiglia è stata in Italia l'istitu­zione cui è affidata la responsabilità primaria nella soddisfazione delle necessità dei cittadini. Gli aiuti alle famiglie sono stati prevalentemente erogati sotto la forma di trasferimenti monetari (ridotti ma diffusi fino a metà degli anni '80 ed in seguito riservati alle sole categorie meno ab­bienti). La politica dei servizi è stata fortemente rallentata, specie per quanto riguarda i servizi diretti alla prima infanzia e agli anziani. Manca tuttora una legge quadro sull'assistenza, alla quale si è malamente tentato di supplire tramite aiuti in denaro amministrati dalle Regioni e dagli Enti locali. In ogni caso questo complesso di mi­sure rivolte alla famiglia altro non è che un com­plemento alle risorse erogate in primo luogo dalla famiglia.

Questa politica è stata fondata su due pre­messe maggiori. Da un lato ha certamente gio­cato un ruolo l'idea o l'ideologia che la solidarie­tà della famiglia fosse insostituibile, e cioè che nessun intervento, manovra o programma dello Stato avrebbe dovuto interferire con la vita e le scelte delle famiglie; con il corollario, che l'azio­ne dello Stato in questo comparto non sarebbe stata comunque coronata da consistenti possi­bilità di successo. Ma dall'altro, un ruolo non mi­nore in questa scelta politica hanno giocato le variabili strutturali, che soltanto indirettamente hanno a che fare con le ideologie. Tra queste, le scelte politiche innanzitutto: che negli ultimi vent'anni non solo hanno dimostrato una pro­fonda miopia rispetto alle loro conseguenze sul­le generazioni future; hanno persino esasperato quelle peculiarità del genus italicum dello stato sociale che attenti osservatori di queste vicende hanno definito in termini di "clientelismo" e "par­ticolarismo".

Ciò significa, che scarsa attenzione è stata prestata ai diritti di cittadinanza, che per defini­zione sono generali, e massima attenzione, spesso per meri fini elettorali, è stata accordata ad interessi di parte o corporativistici. Con la conseguenza che sono stati soddisfatti (quanto, quando e dove possibile) gli interessi particolari mentre sono invece rimasti scoperti gli interessi più generali: quelli delle famiglie, dell'infanzia, delle persone anziane, ecc.

 

Gli assegni al nucleo familiare

II caso degli assegni alla famiglia è persino esemplare. In origine essi avevano un carattere universalistico, nel senso che spettavano - per i familiari a carico (coniuge; i figli minori o stu­denti o inabili; gli ascendenti) - ai lavoratori di­pendenti in attività, a coloro che percepivano in­dennità di malattia o di disoccupazione, ai pen­sionati ed ai lavoratori autonomi. Gli importi dell'assegno erano relativamente bassi, ma co­privano gran parte della popolazione. Dal 1984, invece, la natura dell'assegno cambia radical­mente: da misura previdenziale si è tramutata in misura assistenziale; il diritto agli assegni fami­liari è da allora limitato alle famiglie dei soli lavo­ratori dipendenti e dei pensionati; e sono igno­rate, a pari condizione economica o familiare, alcune categorie di cittadini che presentano evi­denti situazioni di disagio (per esempio, donne nubili con figli, beneficiari della pensione socia­le, invalidi che non lavorano, ecc.). Come era lo­gico prevedere, il numero dei beneficiari si è drasticamente ridotto.

A tale riguardo, è indicativo che l'intera ge­stione degli assegni familiari presenti ormai da anni un notevole attivo di bilancio. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 1993 l'INPS ha raccol­to, tra i lavoratori dipendenti del settore privato, 16.239 miliardi di lire di contributi specificamen­te destinati agli assegni familiari, ma la cifra ero­gata in assegni al nucleo familiare è stata pari a 5.085 miliardi (compresa la quota erogata dal Tesoro). La differenza, equivalente a 11.154 mi­liardi, è stata impiegata per ripianare in parte il deficit dell'Istituto riconducibile ad altri fattori assistenziali. E la differenza rispetto alle presta­zioni è aumentata costantemente negli ultimi dieci anni: 2.786 nel 1982, 6.752 nel 1990, 10.646 miliardi nel 1992 e, come detto, 11.154 nel 1993. In netto calo è anche il numero delle famiglie beneficiarie, che è passato da 3,7 milio­ni nel 1990 a 3,5 circa nel 1993. E ciò che più importa è mutata la morfologia dei capi-famiglia che percepiscono l'assegno al nucleo familiare: per oltre il 51% (pari a 1.800.000 assegni) si tratta ora di pensionati e quindi non più di fami­glie con figli a carico.

Niente affatto confortanti sono anche le stime per il 1994, che prevedono, a fronte di una con­tribuzione di 16.024 miliardi, un'erogazione di 4.827, vale a dire, appena il 30% del monte con­tributivo prelevato per questo preciso scopo.

Si spiega così la poco lusinghiera posizione che l'Italia detiene nel contesto dei paesi dell'Unione europea. Secondo un recente rap­porto della Commissione, dal 1980 al 1991 l'in­cidenza della spesa per assegni familiari sul Prodotto interno lordo (PIL) è diminuita in Italia dall'1,2% allo 0,8% e l'assegno medio erogato equivale (al 1991) al 3,5% del PIL pro-capite, contro valori che all'interno dell'Unione oscilla­no tra il 12,4% della Danimarca, I'8,2% della Francia e del Belgio e valori più bassi dei nostri nei Paesi del bacino mediterraneo: Spagna 0,4%, Grecia 1,0% e Portogallo 3,4%.

Quanto all'incidenza dell'assegno sulla retri­buzione media netta, lo stesso documento della Commissione ha calcolato che in Italia essa è mediamente pari al 3% della retribuzione nelle famiglie con un figlio, al 6% in quelle con due e all'11 % in quelle con tre figli. Per avere un metro di confronto, si tenga presente che nella media comunitaria i rispettivi valori sono 6%, 12% e 20%, ma vi sono punte affatto eccezionali rispet­to alla situazione italiana: 50% in Francia, per fa­miglie con tre figli, 40% in Lussemburgo, 38% in Belgio.

 

Il "genere" della solidarietà

Le scelte politiche sono importanti; e tuttavia, esse non avrebbero potuto produrre questo ri­sultato se non in presenza di altre circostanze di contorno. Del carattere solidaristico della fami­glia si è detto prima. II richiamo alla solidarietà familiare è però generico. Intanto, la solidarietà non è neutra. II lavoro richiesto per produrre so­lidarietà ricade, di regola, pressoché interamen­te sulla donna. Esiste difatti una relazione inver­sa tra il lavoro svolto dalla donna all'interno del­la famiglia e l'espansione delle politiche pubbli­che: maggiore è il primo, minore è l'onere che la collettività è tenuta ad assumersi tramite la struttura dei servizi.

Questa relazione la si trova a fondamento di tutti i sistemi di stato sociale. L'aspetto singolare della situazione italiana è invece che la parteci­pazione della donna al mercato del lavoro è sta­ta decisamente più bassa che negli altri paesi, almeno fino agli inizi degli anni '70. Vale a dire che quegli assunti di base hanno incontrato in Italia condizioni assolutamente favorevoli alla lo­ro affermazione. La divisione del lavoro era for­temente asimmetrica, non solo all'interno della famiglia; e l'attività di caring continuava ad esse­re prevalentemente svolta entro le mura dome­stiche, lasciata alla responsabilità pressoché to­tale della donna. L'accesso al matrimonio, e so­prattutto la nascita dei figli, spingevano la donna ad abbandonare definitivamente il mercato del lavoro e a dedicarsi ai compiti di allevamento dei figli e alla cura della casa.

Difficile individuare in questa combinazione di elementi quale sia la causa e quale l'effetto: se l'arretratezza dei servizi alle famiglie o il ritardo nell'emancipazione femminile, se l'ideologia che confinava la donna nel suo angusto ruolo dome­stico o la necessità di contenere la spesa pub­blica destinando le risorse ad impieghi alternati­vi. Ciò che è certo è che, grazie ad una eccezio­nale combinazione di fattori, per un lungo perio­do di tempo i policy-makers non sono stati solle­citati a rivedere le loro posizioni rispetto alla po­litica familiare: potevano agevolmente fare affi­damento sulle solidarietà familiari e, nella fami­glia, sul lavoro non-retribuito della donna.

Questo modello, basato sullo sfruttamento del lavoro domestico delle donne, entra in crisi sol­tanto recentemente. Per due ragioni assoluta­mente prevedibili. Una è stata presa in esame, ed è il rapido precipitare della fecondità; l'altra è di segno contrario ma altrettanto intensa e con­tinua, ed è la crescita della presenza femminile sul mercato del lavoro.

 

Segni di "sofferenza"

Negli ultimi due decenni parrebbe dunque es­sersi prodotta una frattura, forse non irreversibi­le ma certo non agevolmente sanabile nel breve termine, nel delicato equilibrio che regola la struttura dei rapporti di produzione e riproduzio­ne. Regimi consolidati sono andati letteralmente in frantumi in un breve volgere di tempo. La pur proverbiale forza solidaristica della famiglia ita­liana non è stata in grado di reggere all'urto del lavoro; l'assenza di una politica di aiuti alla fami­glia e di un'adeguata struttura di servizi sociali non hanno fornito un argine capace di opporsi alle conseguenze che derivavano dalla uscita della donna dalla famiglia. Inoltre, gli squilibri di genere presenti nella divisione del lavoro fami­liare non hanno consentito alla donna di affran­carsi dai tradizionali compiti di allevamento dei figli e di gestione domestica; nel mentre che permaneva assai forte l'esigenza di contare su un secondo reddito familiare per conservare un tenore di vita elevato (che in Italia è abbondan­temente basato sul consumo privato) o per ov­viare ai mancati guadagni degli altri membri del­la famiglia dovuti ad una pesante disoccupazio­ne giovanile.

In queste condizioni, non sorprende affatto che, superata la soglia critica, violate le compa­tibilità di risorse, tempo ed energie, la risposta fisiologica e collettiva delle donne e delle coppie si sia orientata verso una drastica diminuzione delle nascite; quando non abbraccia, in casi per fortuna ancora eccezionali, soluzioni assai più preoccupanti o patologiche come il disconosci­mento, l'abbandono e la soppressione.

Allevamento e mantenimento dell'infanzia ca­dono pressoché interamente sulle famiglie. L'in­tervento pubblico concorre in misura decisa­mente modesta alle spese sostenute dalle fami­glie. Per cui non sorprende che il declino delle nascite, la rinuncia al secondo e al terzo figlio, altro non sia che un fenomeno reattivo, l'unica soluzione possibile in una situazione complessa altrimenti irrisolvibile o magari destinata a gra­vare interamente sulle spalle della donna. Con il senno del dopo, tutto questo era prevedibile; addirittura scontato.

Benché tardiva, altrettanto scontata è stata la risposta dello Stato. La forte ripresa di interes­se, verificatasi negli ultimi anni, nell'opinione pubblica e da parte delle forze politiche per i problemi della famiglia e per le politiche familiari (istituzione del Ministro della Famiglia, e le re­centi mozioni e risoluzioni in materia di politiche familiari approvate dalla Camera dei Deputati nella seduta dell'8 febbraio 1995 e già in parte applicate con l'istituzione dell'Osservatorio per­manente sulla famiglia) è anch'essa un fenome­no reattivo; è anch'essa dettata dalla consape­volezza che antichi e delicati equilibri sono defi­nitivamente saltati, che senza una azione effica­ce a sostegno delle famiglie e delle categorie sociali più deboli si rischia di mettere a repenta­glio alcune delle più significative conquiste civili realizzate in questo dopoguerra nel campo dei diritti sociali, dell'emancipazione femminile, del­la condizione dell'infanzia e degli anziani; so­prattutto, si corre il rischio di esasperare il con­flitto generazionale negli anni a venire.

Quantunque in margine, è degno di nota che in questi ultimi anni vi è stata una notevole dina­mica da parte delle Regioni nel settore delle po­litiche familiari. Una dinamica che ha almeno in parte compensato l'immobilismo dei governi centrali. L'interesse di questi provvedimenti le­gislativi a favore delle famiglie, finora varati da quattro regioni (Trentino- Alto Adige, 1992; Mar­che, 1992; Friuli-Venezia Giulia, 1993 e Liguria, 1994), nell'arco di soli due anni, è molteplice. In­nanzitutto, essi hanno introdotto alcuni rilevanti innovazioni nella concezione tradizionale della assistenza e dei servizi; in secondo luogo, si ca­ratterizzano per una inconsueta apertura alla partecipazione delle famiglie e del privato socia­le; nonché, infine, per il riconoscimento di alcuni modelli "alternativi" di vita familiare.

Non ho qui il tempo per illustrare nei dettagli i contenuti di queste leggi. Mi limiterò ad alcune osservazioni generali su aspetti connessi al te­ma di questa relazione. Comincio da quelli posi­tivi. Tra i quali è certamente da annoverare il fat­to che, ad eccezione della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia e di quella del Trentino-Alto Adige, tutte le normative prevedono interventi socio-assistenziali per gestanti in difficoltà nella prosecuzione della gravidanza e per persone sole con figli. Inoltre, tutte le normative contem­plano l'accesso della donna all'informazione; la tutela della procreazione e della nascita, la tute­la della maternità delle donne non occupate e la tutela dei diritti del minore, nonché sostegni fi­nanziari alle famiglie in difficoltà, contributi age­volati per l'accesso alla casa, ecc.

Desta invece perplessità e qualche preoccu­pazione il fatto che con queste normative sia, al­meno in parte, proseguito quello stile legislativo improntato alla "teatralità" e all'artificio dei gran­di principi e dei vasti contenuti, cui non sempre segue un tessuto di misure all'altezza delle pro­messe e degli impegni. Da informazioni di cui di­spongo circa l'applicazione di queste leggi in al­cune delle Regioni che le hanno approvate, cre­do di poter confermare che le cose stanno pre­cisamente così. Si tratta insomma, in quei casi, di leggi "manifesto" alle quali si affida più il com­pito di giustificare posizioni "ideologiche" (che sono onnipresenti quando si tratta di temi che riguardano la famiglia) o politiche di schiera­mento che quello di fare delle buone leggi capa­ci di incidere concretamente sul tenore di vita dei cittadini ai quali sono rivolte.

Un altro aspetto che lascia alquanto perplessi riguarda la stessa attività delle Regioni in questo campo. In assenza di una legge quadro nazio­nale sull'assistenza, è affatto possibile che le normative regionali si muovano in direzioni e in­tervengano su materie anche molto diverse tra loro. E poiché queste materie e queste direzioni investono interessi ed esigenze di una parte consistente della collettività risulta evidente il ri­schio che di questo passo, al già frammentato e particolaristico sistema italiano di "stato socia­le", si possa aggiungere un ulteriore tassello: il territorialismo o il localismo; con il traguardo, non necessariamente lontano, che per questa strada si possa arrivare ad una sorta di arcipe­lago di "cittadinanze locali", composto di possi­bilità, benefici, privilegi e di programmi di inter­vento molto diversi nelle diverse Regioni. Con l'ulteriore rischio, già rilevabile in alcune delle normative varate, che l'erogazione dei benefici previsti possa passare attraverso forme più o meno severe di discriminazione di situazioni fa­miliari che non rispondano ai modelli "etici" pre­visti dalla norma.

La situazione in cui siamo non ammette ulte­riori ritardi. Come detto, serie preoccupazioni crea la situazione dei minori, specie nelle regio­ni meridionali; lo stato di povertà è destinato ad espandersi; la disoccupazione giovanile è ormai da anni sui livelli di guardia e non è detto che sia possibile ancora contare sul soccorso di quel­I'ammortizzatore naturale che è la famiglia; i ser­vizi per le persone anziane non sono in grado di affrontare il compito che li attende a causa del forte invecchiamento della popolazione. E la li­sta potrebbe essere allungata a piacimento. AI tempo stesso, non è pensabile arrestare la "marcia trionfale" della emancipazione femmini­le, né è verosimile che si arresti da solo, per vo­lere divino, il declino delle nascite senza lascia­re un'incisiva e durevole correzione di rotta.

 

La maternità come necessità collettiva

II problema è dunque quello di aiutare la fami­glia a svolgere i propri compiti di riproduzione, cura e assistenza, senza ostacolarla nell'assol­vimento di queste importanti e delicate funzioni, e soprattutto senza "penalizzare" chi, per sua fortuna dentro e chi per sua "sventura" o per scelta fuori dalla famiglia, si dedica all'alleva­mento dei figli, o all'assistenza agli anziani. Fino­ra è mancata in Italia la consapevolezza che la tutela della famiglia e il riconoscimento delle cu­re informali non sono privilegi privati dei cittadini o opzioni discrezionali della classe politica. So­no connessi alla salvaguardia di primari diritti sociali e individuali, alla protezione dei soggetti più deboli e allo sviluppo armonico delle relazio­ni sociali tra i contemporanei e tra le generazio­ni.

In particolare, questo vale nel caso della pro­tezione della maternità e del prodotto del conce­pimento. E qui è bene chiarire. La scelta pro­creativa (quando è scelta consapevole) è certa­mente individuale. Non sono invece individuali, o almeno non solo, gli effetti che derivano da que­sta scelta. Non foss'altro che per la semplice ra­gione che, se sulle famiglie ricade appieno l'onere del mantenimento e dell'allevamento dei figli, i vantaggi che ne derivano vanno intera­mente alla società: è questa la principale diffe­renza con il passato.

Se questo è vero, ne segue che costi e re­sponsabilità della maternità e del benessere del bambino debbono essere socialmente condivisi. È al livello dell'organizzazione e struttura della società che debbono essere cercate e indivi­duate le soluzioni. Sarebbe ingiusto arretrare nella ricerca delle cause e delle imputazioni di colpa, sino a identificare il motore primo della attuale dinamica demografica nella sola compo­nente femminile della popolazione. Equivarreb­be a ripetere un errore storico che ha frequen­temente assunto la forma di un atteggiamento di biasimo nei confronti della vittima.

In parte è ciò che è avvenuto. In Italia, la que­stione della maternità è stata relegata nello spa­zio angusto dello scontro di interessi tra due delle figure più deboli della società: la donna e il bambino. Ma il limite di questa privatizzazione riproduttiva non è tanto nell'avere accollato alla donna il ruolo impegnativo di protagonista asso­luto nella decisione procreativa ma piuttosto nell'aver così allontanato la ricerca di una solu­zione collettiva del problema; nel fatto, cioè, di avere in tal modo impedito che esso assumesse il senso e il rilievo di un problema sociale, di tut­ta la collettività.

Come è stato scritto, non è solo questione di leggi; si tratta di mettere a punto misure che rendano la maternità sempre più attraente e sempre più compatibile con una vita che non si risolve soltanto nella maternità. Prima ancora, occorre chiarire che queste tutele non sono il frutto di esigenze o di privilegi privati delle sole donne, ma sono connessi alle necessità di una collettività moderna, formata da individui liberi di scegliere, senza affrontare difficoltà insormonta­bili, i propri piani di vita e di proteggere la loro funzione riproduttiva.

 

 

(*) Relazione tenuta al convegno "Esigenze e diritti di gestanti, madri e neonati in difficoltà: aspetti etico-giuridi­ci e ruolo delle istituzioni, degli operatori e del volontaria­to", Milano, 27-28 aprile 1995.

(**) Ordinario di sociologia dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza".

 

 

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