Prospettive assistenziali, n. 111, luglio-settembre
1995
BRUNO E ROSALBA DE LUCA
La storia dei primi anni di vita di nostro figlio
Mario è un condensato di ingiustizia e di follia da parte di un mondo
"sano" e "ragionevole" che ha perso ogni contatto con la
realtà. Ma la storia della seconda parte della sua vita, che ci vede
protagonisti insieme con lui, è quella di persone normalissime che hanno reso
giustizia al suo diritto di essere scelto e amato per quello che è,
nell'interesse della sua piccola persona.
Abitiamo a Catania e siamo venuti a conoscenza
dell'esistenza di Mario tramite il veloce "tam-tam" che si mette in
opera tra le associazioni di volontariato quando qualcuno scopre un
"caso" che necessita di una veloce soluzione.
II Presidente di un Tribunale scoprì di avere
nell'armadio uno scheletro scomodo: un bimbo Down, nato 2 anni prima e mai
riconosciuto dai genitori biologici, che il suo predecessore aveva acconsentito
a far ricoverare in un Istituto per anziani non autosufficienti ed handicappati
adulti, peraltro situato in altra regione italiana. Inutile dirlo, il giudice
in questione non si era nemmeno posto il problema di cercargli una famiglia;
anzi, non ne aveva neanche dichiarato lo stato di adottabilità.
Follia? Certamente, ma una follia che nasce dal
"buon senso" di ritenere inutile sprecare delle energie per fare
adottare Mario. Chi può volere un bambino "così"?
Vorrei soffermarmi su questa domanda, che sottende la
mentalità perdente che ancora troppo spesso permea giudici ed operatori nei
confronti dei bambini malati o handicappati. Chi può volerli? Ci si impegna
poco, troppo poco per aiutare le famiglie che aspirano all'adozione a
considerare l'handicap o la malattia con occhi privi di pregiudizi.
Per fare ciò, del resto, occorrerebbe che di questi
pregiudizi siano sgombri gli stessi giudici e gli operatori. Ma anche per loro
la "normalità" è desiderare un bambino piccolo e sano, mentre
l'handicap o la malattia vengono proposte quasi scusandosi, come un disvalore.
Inoltre, spesso si richiede alle coppie una generica, preventiva disponibilità
verso l'handicap (che non si trova quasi mai, anche per la paura verso ciò che
non si conosce) senza tentare la difficile e faticosa strada di proporre
"a tappeto", senza timidezze o pudori, tutti i casi concreti. Infatti,
l'esperienza insegna che spesso chi dice "no" all'handicap in
generale, poi dice "sì" a "quel" particolare bambino malato
o handicappato che un operatore attento gli sa proporre.
Cosi, nel maggio 1992, veniamo a sapere
dell'esistenza di questo piccino, in condizioni di vita quasi vegetativa a
causa dei danni causati dalla lunga ed ingrata istituzionalizzazione, che ha
indubbiamente tanto bisogno di una famiglia. Noi covavamo già da tempo non solo
la "pazza voglia di ricominciare" con un nuovo figlio, ma in
particolare il desiderio di innamorarci di qualcuno di cui nessuno si
innamorava, ma che potesse offrirci il dono di tesori inesplorati. Siamo stati
accontentati.
Mario è così entrato nella nostra casa, la casa di
una normalissima famiglia di gente piena di difetti e fragilità, oberata dal
lavoro esterno, pienamente impegnata con due vivacissimi frugoletti.
Lui ha finalmente trovato una famiglia, noi (come
sottolineiamo meglio più avanti), abbiamo ricevuto da lui una grande ricchezza
di umanità, ma poi... tutti insieme siamo rimasti soli. Abbiamo infatti
scoperto che le famiglie con un portatore di handicap grave hanno la vita
veramente dura nella nostra terra, e se non sono dotati di una testa
altrettanto dura, difficilmente potranno resistere a lungo alle lusinghe
dell'istituzionalizzazione, sia pure a semiconvitto, dei propri bambini in
centri specializzati.
Speravamo, infatti, che le nostre USL avessero
disseminato nel territorio quelle strutture riabilitative, dotate di équipes
integrate, che potessero fornire agli handicappati la possibilità di
usufruire, nel proprio quartiere di residenza, di un programma riabilitativo
completo. Invece la maggior parte delle strutture di riabilitazione sono o
private (e quindi accessibili a pochi) o private convenzionate,
prevalentemente gestite dall'ODA (Opera Diocesana Assistenza) presso gli
istituti medico-psico-pedagogici, che sono solitamente allocati fuori città e
quindi scomodi da raggiungere. Mancano, inoltre, centri diurni per i più grandi.
Quale, quindi, la soluzione più semplice? L'istituto,
sia pure in forma semiconvittuale, tanto più che una forte porzione della
classe medica, evidentemente affetta da grave ed avanzata miopia, continua
ancora oggi ad affermare che "questi bambini" vengono favoriti dalle
cure di strutture protette e "adatte a loro".
Finora abbiamo scelto, sia pure con notevoli
sacrifici, di evitare in ogni modo di ricorrere, anche ambulatorialmente, alle
strutture degli istituti. Certo, questo ha comportato qualche sacrificio (la
psicomotricità presso un ambulatorio della USL, la logopedia presso una
struttura di volontariato sita in altra zona della città), ma ci sembra ne
valga la pena per dimostrare che Mario è un figlio come tutti gli altri, non è
un bambino "cosi" che abbisogna di strutture "adatte a
lui": è un cittadino italiano come gli altri, con più diritti degli altri,
e noi pretendiamo che riceva in piena dignità ciò che gli spetta. ,
In quanto alla nostra scelta di essere genitori di
Mario, vorremmo fare alcune considerazioni sulla base di alcune domande che
spesso "aleggiano" attorno a noi.
Abbiamo compiuto una scelta "coraggiosa"?
Siamo persone particolarmente buone? Occorre essere un po' matti o speciali
per scegliere proprio lui come figlio?
Certo, sul piano dei fatti e delle
"prestazioni", il nostro piccino è un vero disastro. AI momento del
suo ingresso in famiglia presentava evidenti tratti autistici causati dalla
precoce istituzionalizzazione. Inoltre non camminava, non gattonava, non
strisciava, non stava in posizione eretta, non aveva una buona prensione degli
oggetti. Era addirittura strabico per difetto di relazione. II linguaggio, poi,
era del tutto inesistente. -
Adesso, a quattro anni e mezzo, ha certo fatto tanti
progressi, ma non è certo diventato un gran campione!
L'amore e la tenerezza che riceve a piene mani hanno
certo sfondato il muro del suo isolamento e adesso, per quanto ancora
fortemente in ritardo rispetto ai coetanei Down sul piano psicomotorio, dal
punto di vista relazionale il nostro piccino è sbocciato: piange, ride,
comunica (a modo suo), ama, desidera, cerca...: è parte di noi.
II suo inserimento in famiglia non è certo stato
semplice ed immediato: ma quale inserimento lo è? La sua presenza ha imposto
ritmi ed incombenze prima assenti: ma quale presenza non comporta
aggiustamenti?
Ciò che mi preme rilevare è che Mario non è un
"peso" da portare con coraggio. È una persona splendida, portatrice
di valori propri. Mario non è "un Down", per di più fortemente
ritardato. Mario non è il suo handicap. È una persona che, tra le sue
caratteristiche uniche e peculiari, ha anche "quel certo cromosoma in
più".
Averlo voluto come figlio è stato da parte nostra un
atto di furbizia, non di bontà. Ci siamo messi in casa un valore grande, che ha
ridimensionato la scala dei nostri valori e ci ha consentito di maturare,
tutti, come diversamente non avremmo saputo fare. La vita con lui è una vita
normale, ed è una bella vita. Noi lavoriamo, usciamo, partiamo col camper,
saliamo in montagna (magari con le spalle appesantite dai suoi 16 chili),
dormiamo nei rifugi, peschiamo col gommone. Tutto con la sua tenerissima presenza.
Non abbiamo eroicamente perduto proprio nulla. E se anche qualche sacrificio
dovesse domani rendersi necessario, non sarà la rinuncia dovuta ad uno smacco,
ma il risultato di una scelta felice.
Erigere ad eroe chi sceglie come figlio un bambino
malato o portatore di handicap è la più grande ingiustizia che si possa
perpetrare nei suoi confronti, come se non fosse degno di essere amato, ma
solo di suscitare pietà. Noi non ci stiamo. Nostro figlio vale, e molto. Aveva
diritto ad una famiglia perché è splendido.
Certo, oggi Mario è un tenero gattone di quattro
anni e mezzo, ma domani sarà un adulto poco autosufficiente (o forse, nel suo
caso, del tutto non autosufficiente, chi sa). Noi invecchieremo. Moriremo. A
chi lasceremo la responsabilità del suo avvenire? È certo che, volendolo come
figlio, abbiamo compiuto una scelta anche per gli altri due figli. Volenti o
nolenti, quando noi non ci saremo più Mario sarà affar loro, quanto meno come
peso di una scelta.
È stato giusto scegliere per i nostri figli? È giusto
lasciare loro in eredità pochi soldi (tra le esigenze di Mario ed altre nostre
scelte di vita probabilmente non troveranno proprio niente) ed un grande,
tenerissimo fratellone non autonomo?
Pensiamo che qualsiasi scelta noi compiamo nella vita
ha grosse conseguenze sui nostri figli. Ma non per questo non compiamo con
serenità le scelte che la nostra coscienza ci impone.
Anche le nostre "non scelte" ricadono sui
nostri figli. Siamo responsabili delle opportunità che neghiamo loro, delle
esperienze di maturazione che non gli offriamo.
Tenuto anche conto dei legami di solidarietà e di
reciproco sostegno formatisi fra le famiglie che fanno parte dell'Associazione
Papa Giovanni XXIII di Rimini, abbiamo scelto di fare ai nostri figli il dono
di Mario con la consapevolezza di offrire loro un valore più grande di
qualsiasi altra opportunità materiale. Quando moriremo lasceremo loro una
grande alternativa: scegliere Mario, e farsene carico gioiosamente, o cercare
soluzioni alternative. Starà a loro assumersi la responsabilità delle proprie
scelte. Ma attraverso il loro fratello noi chiediamo loro una scelta di vita.
II mondo è pieno di tante persone svantaggiate come Mario, e ciascuno di noi
sceglie se farsene carico o meno: anche il non porsi il problema è una scelta
di campo. Si tratta, in fondo, della sfida della vita.
www.fondazionepromozionesociale.it