Prospettive assistenziali, n. 111, luglio-settembre
1995
Editoriale
LA FONDAZIONE ITALIANA
PER IL VOLONTARIATO NON VUOLE CHE HANDICAPPATI E SVANTAGGIATI LAVORINO NELLE
NORMALI AZIENDE
Mentre in Parlamento è in corso l'esame della riforma
del collocamento obbligatorio, Pellegrino Capaldo, Presidente della Fondazione
italiana per il volontariato (1), invece di sostenere il riconoscimento del
diritto al lavoro delle persone colpite da handicap, ha assunto una posizione
nettamente contraria al loro inserimento nelle normali aziende.
Infatti, sul n. 6, giugno 1995, della Rivista del
volontariato, dopo aver premesso che bisogna abbandonare «la strada degli obblighi e dei vincoli, che spesso hanno il solo
risultato di ridurre la competitività delle aziende e, con essa, il numero
degli occupati», ha affermato: «Penso ad una diversa disciplina delle
"categorie protette" che consenta alle imprese di scegliere tra l'assunzione
diretta e l'affidamento di commesse ad un organismo produttivo che dia lavoro a
quelle "categorie"» (2).
In sostanza, le persone handicappate, comprese
quelle aventi piena capacità lavorativa, per il solo fatto di essere colpite da
una menomazione permanente, non dovrebbero - a giudizio insindacabile delle
imprese - poter lavorare insieme ai non handicappati, ma solo presso appositi «organismi produttivi».
In altre parole, gli handicappati dovrebbero avere
uno sbocco lavorativo esclusivamente nelle cooperative sociali o in
organizzazioni similari.
La proposta del Presidente della Fondazione per il
volontariato, purtroppo, non riguarda solo gli handicappati, ma anche tutti i
soggetti deboli.
Questa estensione dovrebbe essere resa possibile
mediante «l'allargamento della nozione di
"soggetto svantaggiato" rispetto a quella prevista dalle norme sulle
cooperative sociali» (3).
Dunque, Capaldo vuole che gli handicappati e gli
svantaggiati non lavorino nelle normali aziende (quelli già inseriti potranno
essere licenziati?), ma solo nelle cooperative sociali perché «con l'aiuto di volontari, esse riescono a
dare un lavoro dignitoso a soggetti "svantaggiati" per i quali
sarebbe impossibile inserirsi in un normale circuito produttivo».
Al finanziamento delle cooperative sociali dovrebbe
provvedere la Compagnia investimenti sociali (cfr. la nota 1).
Le organizzazioni di tutela degli handicappati ed i
sindacati sono avvertiti! Intendono difendere i loro associati e i lavoratori
più deboli?
(1) Ricordiamo che la Fondazione
italiana per il volontariato è stata costituita dalla Banca di Roma,
presieduta anch'essa da Pellegrino Capaldo, con l'erogazione di ben 18
miliardi, il che significa per la Fondazione un reddito annuo di circa 2
miliardi.
Circa l'attività della Banca di Roma,
relativa alla Compagnia Investimenti sociali (società con capitale di 20
miliardi avente lo scopo di finanziare le cosiddette imprese sociali), Mons.
Vinicio Albanesi, Presidente del CNCA, Coordinamento nazionale delle comunità
di accoglienza, nell'articolo "Volontariato a rischio" (ll Regno-attualità, n. 14/1995) rileva
che «tra i modi discutibili di raccolta fondi ci sono quelli che prevedono che
il soggetto raccoglitore, erogatore e mediatore sia sempre lo stesso, con
l'aggravante di essere un istituto di credito. È il caso della Banca di Roma. Non è possibile che, in nome del
volontariato e della gratuità, un istituto di credito costituisca una società
(una s.p.a. per la precisione) che a sua volta usufruisce dell'offerta di
prodotti finanziari messi a disposizione dalla stessa banca e infine finalizza
gli eventuali utili derivanti dalla gestione ad associazioni e iniziative
operanti nel settore sociale.
«Un istituto di credito può certamente, all'interno della normativa
vigente, offrire prodotti finanziari, nelle modalità che ritiene opportune, ma
deve saper distinguere la sua funzione di raccolta fondi dalla gestione dei
fondi stessi e soprattutto dalla destinazione degli utili.
«Attivare marketing mascherati non serve né agli istituti di credito, né
al volontariato. Chi mette in atto tali strumentazioni nasconde finalità, in
sé forse nobili, ma certamente discutibili, tendenti a legare in un'unica lobby
mediatori e destinatari, con l'evidente sudditanza (anche eventualmente
politica) dei secondi rispetto ai primi. Può darsi che qualche organizzazione,
pur di sopravvivere, si sottoponga a tale regime: certamente è rischioso per
la natura propria del terzo settore».
Ricordiamo, inoltre, che la
Fondazione italiana per il volontariato (cfr. il n. 27, 8 luglio 1995, del
settimanale Vita) si è candidata per la gestione di ben sette centri di
servizi. In questi centri, ai sensi della legge 11 agosto 1991 n. 266,
confluiscono rilevanti finanziamenti, che sono poi assegnati dai centri stessi
alle organizzazioni di volontariato.
(2) Da notare che nell'affidamento
delle commesse, essendo il peso contrattuale delle imprese molto più forte di
quello delle cooperative, queste ultime sarebbero permanentemente indotte ad
accettare condizioni anche non remunerative. Di conseguenza c'è il rischio che
gli stipendi per gli handicappati siano molto bassi e inferiori a quelli degli
altri lavoratori. AI riguardo va tenuto presente che ai soci volontari delle
cooperative sociali «non si applicano i
contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato ed
autonomo, ad eccezione delle norme in materia di assicurazioni contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali». Inoltre «ai soci volontari può essere corrisposto
soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate».
Le norme suddette sono previste dalla legge 8 novembre 1991 n. 381 "Disciplina
delle cooperative sociali".
(3) La legge 8 novembre 1991 n. 381
stabilisce che le cooperative sociali provvedono allo «svolgimento di attività diverse - agricole, industriali,
commerciali o di servizi - finalizzate all'inserimento lavorativo di persone
svantaggiate».
L'art. 4 della legge suddetta
stabilisce che «si considerano persone
svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di
istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i
tossicodipendenti, gli alcoolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di
difficoltà familiare, i condannati ammessi alle misure alternative alla
detenzione previste dagli articoli 47, 47 bis, 47 ter e 48 della legge 26
luglio 1975, n. 354, come modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663. Si
considerano inoltre persone svantaggiate i soggetti indicati con decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro e
della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità, con il
Ministro dell'interno e con il Ministro per gli affari sociali, sentita la
Commissione centrale per le cooperative istituita dall'articolo 18 del citato
decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577,
e successive modificazioni».
Si tratta, dunque, di una norma che
comprende tutte le persone in difficoltà. A chi possa essere estesa questa
norma (agli extracomunitari?) non riusciamo proprio a capire.
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