Prospettive assistenziali, n. 112, ottobre-dicembre 1995

 

 

LA PROMOZIONE DELLA SALUTE E LA PREVENZIONE DELLE MALATTfE SONO UN DOVERE SOCIALE DELLA COMUNITÀ? (*)

PAOLO VINEIS (**)

 

 

La cura delle malattie include una componen­te scientifica (o almeno presunta tale), relativa all'efficacia per esempio dei trattamenti farma­cologici, e una componente non scientifica. Sul piano individuale - del rapporto cioè tra struttu­ra sanitaria e singolo paziente - la componente non scientifica riguarda soprattutto il benessere psicologico del paziente, legato all'ambiente e ai rapporti umani. Sappiamo che questi aspetti - più delle cure in senso stretto - sono talvolta molto carenti nel nostro paese. Sul piano so­vraindividuale (collettivo) gli aspetti extrascienti­fici includono soprattutto le differenze tra le classi sociali per quanto riguarda l'accesso ai servizi sanitari e l'efficacia degli interventi medi­ci. Esistono infatti molte prove del fatto che la classe sociale è un'importante determinante dello stato di salute di una popolazione.

Un principio di fondo dei sistemi sanitari pub­blici - spesso disatteso - è quello di fornire a tutti prestazioni efficaci. Si veda per esempio il rap­porto del Comitato sull'allocazione delle risorse sanitarie del governo olandese (1), che esplicita molto chiaramente i presupposti su cui il servizio pubblico dovrebbe basarsi. Riferendosi alla più consolidata tradizione etica europea, il rapporto del governo olandese suggerisce in pratica:

1. di garantire solo prestazioni di efficacia di­mostrata;

2. di garantirle in modo equo, verificandone l'accessibilità di fatto e non solo di diritto; 3. di tener conto delle esigenze particolari dei segmenti più svantaggiati della società. Per que­sti ultimi, una difficoltà di accesso alle strutture sanitarie ha infatti ricadute profondamente nega­tive anche sul piano professionale ed educativo. La crisi finanziaria dei servizi sanitari pubblici ha portato tuttavia a insistere soprattutto sugli aspetti di spesa e di razionalizzazione organiz­zativa, anziché sugli aspetti di efficacia, accessi­bilità e soddisfazione degli utenti. A mio avviso sarebbe importante agire su almeno quattro pia­ni diversi, ciascuno dei quali è necessario ma non sufficiente:

1. contenimento della spesa attraverso un au­mento dell'efficienza gestionale, per esempio con l'introduzione del sistema di pagamento prospettico basato sui DRG (Diagnosis Related Groups - Suddivisione delle malattie al fine del pagamento dei relativi oneri alle strutture ospe­daliere e alle case di cura private convenzionate da parte del Servizio sanitario nazionale); que­sto piano, se isolato dagli altri tre, comporta il ri­schio di introdurre diseguaglianze nell'accesso a prestazioni efficaci da parte di tutta la popola­zione, se le aziende ospedaliere perseguono l'efficienza selezionando le prestazioni più re­munerative;

2. semplificazione e razionalizzazione delle prestazioni sanitarie attraverso lo sviluppo di li­nee-guida. Le linee-guida non sono protocolli ri­gidi e prescrittivi, bensì costituiscono un sup­porto per le decisioni del medico. Questo piano prevede da un lato una valutazione sistematica e scientificamente valida della letteratura scien­tifica sulle prove di efficacia delle prestazioni (secondo il principio della "evidence-based me­dicine") dall'altro lato la sintesi di tale valutazione in linee-guida che siano largamente condivise dai medici e facilmente applicabili nella pratica;

3. l'avvio di attività di osservazione epidemiolo­gica (per esempio attraverso le Agenzie regio­nali per la valutazione dei servizi), miranti alla sorveglianza della adozione delle linee-guida, del loro impatto sul servizio sanitario, e dell'im­patto del sistema di pagamento prospettico; inoltre l'osservazione epidemiologica si rende necessaria per stimare il bisogno di ricorso ai servizi sanitari attraverso stime dell'incidenza e prevalenza delle diverse malattie, studi sui flussi di ospedalizzazione, studi sul ricorso alle strut­ture sanitarie, ecc.;

4. l'esplicitazione dei modelli etici di riferimen­to; questo quarto piano è imprescindibile, in quanto l'assenza di chiarezza circa i principi di fondo che ispirano le attività del servizio sanita­rio può portare a effetti indesiderati di alcune delle iniziative descritte ai punti precedenti.

Per esempio, se il principio centrale dell'etica del servizio sanitario fosse l'autonomia decisio­nale del medico, l'introduzione di linee-guida potrebbe essere percepita come una violazione della sua libertà. D'altra parte, l'enfasi sull'effi­cienza gestionale conseguente all'adozione del pagamento prospettico può portare a una viola­zione del principio di equità, dal momento che prestazioni di elevata efficacia e valore per la popolazione potrebbero risultare poco attraenti sul piano economico.

Un interessante confronto, per valutare i prin­cipi di fondo che ispirano diversi sistemi sanitari e le conseguenze che tali principi possono comportare, è quello tra il sistema statunitense e quello canadese. I due sistemi circa trent'anni fa erano molto simili, ma si sono poi divaricati in modo sostanziale. II sistema statunitense parte dal presupposto che gli individui si preoccupino esclusivamente del loro interesse personale, e non siano disposti a fare sacrifici (per esempio attraverso il prelievo fiscale) per garantire agli altri un adeguato livello di assistenza sociale e sanitaria. La filosofia sottostante al servizio sani­tario americano risale ad Hobbes e a Locke, a tradizioni di pensiero cioè basate su un presup­posto individualistico. L'eventuale sostegno ai segmenti più deboli della società viene conside­rato - dai liberisti più radicali - come un'attività volontaria, un'elargizione spontanea. La stessa esistenza di un programma sanitario specifico per gli indigenti corrisponde più a una "poor law" (legge per i poveri, secondo la tradizione ottocentesca inglese, in vigore cioè nel periodo d'oro del capitalismo liberista) piuttosto che a un "welfare system" (sistema di garanzie sociali) (2). Secondo un'interpretazione probabilmente troppo pessimistica della "natura umana", negli Stati Uniti si ammette qualche concessione al "welfare state" come prudente compromesso per evitare tensioni  sociali.

In Canada la filosofia di fondo è del tutto di­versa: i medici sono ritenuti responsabili del conseguimento di obiettivi sociali che includono «il mantenimento e il miglioramento della salute» dei cittadini canadesi. II Canada Health Act del 1984 sostiene esplicitamente che cinque princi­pi costituiscono le pietre angolari del sistema sanitario: «accessibilità, comprensività, universa­lità, amministrazione pubblica e compatibilità economica» (2). Uno dei presupposti è che i cit­tadini canadesi siano sufficientemente altruisti da essere disposti a pagare per mantenere un sistema con le caratteristiche descritte. Da inda­gini empiriche risulta, tra l'altro, che i canadesi sono altamente soddisfatti del loro servizio sani­tario, mentre gli statunitensi sono piuttosto in­soddisfatti. Ironicamente, la sanità degli Stati Uniti è quella che consuma più risorse al mondo (14% del PIL contro circa il 10% del Canada); questa differenza è dovuta in parte al fatto che l'introduzione delle nuove e costose tecnologie in Canada viene effettuata con prudenza e in se­guito a una valutazione dell'efficacia e del rap­porto costi-benefici.

 

II ruolo della classe sociale come determinante di malattia

Esistono numerose informazioni analitiche, tutte convergenti nel mostrare come la classe sociale sia un determinante importante dello stato di salute, specie in paesi, come gli Stati Uniti, ove è stata in vigore per lungo tempo una gestione privatistica della sanità.

Tuttavia la dimostrazione del fatto che i poveri si ammalano di più e muoiono più precocemen­te non è sufficiente. Si può infatti obiettare, co­me ha fatto per anni l'ideologia neo-darwinista reaganiana, che esiste un meccanismo di auto­selezione in base al quale le persone cagione­voli di salute. o affette da condizioni predispo­nenti, hanno maggiori difficoltà a trovare un la­voro e divengono - addirittura per loro scelta - dei "drop-out". Un'altra obiezione simile, di ispi­razione razzista, consiste nel sostenere che in un paese come gli Stati Uniti il reddito è asso­ciato intrinsecamente con il gruppo etnico (la "razza"), e che ciò che differenzia "razze diver­se" è la predisposizione genetica sia ad amma­lare di alcune malattie, sia a contrarre abitudini dannose per la salute, sia infine a mantenersi ai livelli più bassi della scala sociale. A queste obiezioni le ricerche epidemiologiche possono facilmente trovare elementi di confutazione. Per esempio, uno studio molto importante ha dimo­strato che le differenze di mortalità tra bianchi e neri negli Stati Uniti erano interamente spiegabili sulla base del reddito, e non di presunte predi­sposizioni genetiche.

Un altro campo in cui la ricerca empirica può consentire di accettare o respingere i corollari di certi modelli interpretativi generali è quello dei meccanismi attraverso cui la povertà agisce nell'influenzare lo stato di salute. Un tipico inter­rogativo è se conti di più la ricchezza "media della nazione" (secondo gli utilitaristi la risposta è affermativa) oppure la sua distribuzione all'in­terno della popolazione. In un recente articolo sull'American Journal of Public Health, sono stati effettuati alcuni confronti molto eloquenti al pro­posito. Se si considera la correlazione tra Pro­dotto Interno Lordo pro capite e l'attesa media di vita nei 23 paesi appartenenti all'OCSE, si tro­va una relazione piuttosto debole, che diventa ancora più incerta se considerata in una pro­spettiva storica (periodo 1970-1986). Mentre nei paesi sottosviluppati l'attesa di vita cresce rapi­damente con il crescere del reddito medio pro capite, oltre una certa soglia di ricchezza questo non si verifica più. AI contrario, le differenze in­terne ai diversi paesi OCSE sembrano contare molto più delle differenze tra paesi. Infatti, se­condo la stessa analisi, quasi due terzi delle va­riazioni nei tassi di mortalità all'interno dei paesi OCSE possono essere spiegati sulla base della distribuzione interna del reddito (il coefficiente di correlazione è di 0.8, un valore molto elevato). Detto in altri termini, nei paesi del Terzo Mondo sia il Prodotto Interno Lordo sia la distribuzione del reddito hanno un'importante ricaduta sulle condizioni di salute, mentre nei paesi sviluppati ciò che conta maggiormente è il "reddito relati­vo", cioè la stratificazione sociale.

Come possiamo dunque spiegare la "mortali­tà differenziale" per classe sociale se rigettiamo un'ipotesi genetica? Sono stati proposti sostan­zialmente due modelli esplicativi credibili, che non si escludono a vicenda. Secondo il primo, le differenze sono principalmente dovute ai com­portamenti e alle abitudini personali oltreché al­le caratteristiche del lavoro svolto e alle esposi­zioni professioniali. Certamente, vi è una vasta documentazione del fatto che il consumo di al­coolici, il fumo di sigarette e abitudini alimentari sbilanciate sono marcatamente più frequenti nelle classi sociali più basse. Anche molte esposizioni professionali sono cause di patolo­gie come i tumori, le malattie respiratorie e quel­le cardiovascolari, benché vi siano sostanziali incertezze sulla quota attribuibile a tale gruppo di cause. Se seguiamo questo primo modello, sarebbero soprattutto le esposizioni a fattori di rischio ad essere diversamente distribuite nelle classi sociali. Per esempio, in un'indagine a To­rino le persone con un titolo di studio superiore erano molto più spesso ex-fumatori e praticava­no fino a cinque volte più spesso un esercizio fi­sico regolare (3). D'altra parte, esistono anche chiari indizi del fatto che le persone vengono di­versamente curate e hanno diverso accesso ai servizi sanitari a seconda del livello di reddito e del grado di istruzione. Senza considerare gli Stati Uniti, che costituiscono un caso particolare per l'esistenza di un sistema sanitario di tipo pri­vato e altamente selettivo, indizi del fenomeno citato esistono per l'Inghilterra, i paesi scandi­navi e l'Italia. Per esempio, la frequenza di con­sultazione del medico specialista privato era quattro volte più alta tra i laureati che tra le per­sone dotate di diploma elementare, nella citata indagine torinese (3).

 

I fondamenti etici per la promozione della salute

Se accettiamo l'esistenza di una tradizione etica europea più vicina al rispetto della perso­na che all'utilitarismo, possiamo affermare che la salute non può essere trattata alla stregua di una merce (4), e pertanto che esiste un obbligo della comunità nel garantire un adeguato livello di salute alla popolazione. Resta aperto il pro­blema se debba essere promossa in particolare la prevenzione oppure la fornitura di cure ade­guate. Basandosi sull'esperienza storica, si può dire che i grandi successi ottenuti in passato nell'abbattere la mortalità per malattie infettive furono dovuti soprattutto alla prevenzione e agli interventi dello Stato (fognature, potabilizzazio­ne, igiene pubblica). Non è detto che lo stesso fenomeno debba verificarsi per le malattie at­tualmente prevalenti. né è ancora chiaro se la prevenzione sia più vantaggiosa sul piano eco­nomico rispetto alle terapie, secondo un calcolo costi/efficacia. Esiste invece un'argomentazione morale, come quella proposta dall'eticista Fran­kena tra altri, che consente di privilegiare la pre­venzione sul piano etico. Secondo Frankena, in­fatti, vi sono quattro livelli della beneficialità, or­dinati in modo gerarchico decrescente:

1. non fare danno (not to inflict harm);

2. prevenire il danno (to prevent harm);

3. rimuovere il danno (to remove harm);

4. fare del bene (to do good).

Questo ordinamento gerarchico sembra coe­rente con i principi etici predominanti nella no­stra società: non infliggere danni viene certa­mente prima del prevenire danni potenziali o del rimuovere danni già prodotti. Se così non fosse, molte delle decisioni della vita quotidiana, dotate di implicazioni etiche, perderebbero di senso. La gerarchia di Frankena sembra dunque un va­lido supporto per giustificare la precedenza, lo­gica e deontologica, della prevenzione rispetto alle cure. Inoltre, se si accettano alcune delle premesse da cui siamo partiti, relative ai muta­menti in corso nei sistemi sanitari, una particola­re attenzione dovrà essere posta nel settore del­la promozione della salute e dell'educazione sa­nitaria. Quest'affermazione è giustificata per esempio dalla necessità di trovare un compro­messo tra principi potenzialmente conflittuali come il rispetto dell'autonomia decisionale (che implica informazione e capacità di giudizio) e il principio della beneficialità, stabilita su solide basi scientifiche, dei trattamenti medici.

Purtroppo in molti campi le linee di tendenza sembrano essere molto diverse da quelle de­scritte. Una forte presa di posizione contro le tendenze utilitaristiche nella letteratura di bioeti­ca è contenuta in un recente articolo di Geoffrey Hunt (5): «Concepire la natura essenziale della vita come una continua bilancia tra costi e bene­fici corrisponde ad adottare un'attitudine verso la vita secondo la quale noi siamo in ultima istanza degli agenti assicurativi che cercano di negozia­re le migliori condizioni di pensionamento. La morte (e la salute, aggiunta mia) appare sempli­cemente come un parametro nel calcolo». Se­condo Hunt, in realtà, queste tendenze corri­spondono a precisi orientamenti dell’“establish­ment" medico, che ha molto più interesse al tra­pianto di organi che alla sanità pubblica, alla medicina preventiva e all'assistenza infermieri­stica (5). II paradigma utilitaristico «riflette una società in cui le vite delle persone sono costante­mente soggette a calcolo e controllo, valutazione e manipolazione». Hunt, in particolare, fa riferi­mento a un articolo del filosofo Nagel, che è sta­to considerato da molti come uno dei migliori la­vori di filosofia morale apparsi in anni recenti. II problema di fondo è che «la filosofia è compro­messa dalla medicina in quanto assume i proble­mi della medicina come vengono definiti dalla medicina stessa, invece di porsi da un lato e chiedersi perché proprio quei problemi debbano essere percepiti come tali. Inoltre, e questo è un aspetto ancora più importante, la filosofia proce­de mano nella mano con la medicina nell'assu­mere che ai problemi possono essere trovate so­luzioni universali (...)» (5).

 

 

 

(*) Parte di questo articolo è stata presentata al Comitato nazionale per la bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

(**) Servizio di Epidemiologia dei Tumori - Azienda Ospedaliera S. Giovanni Battista, Torino - tel. (011) 6706525 - fax (011) 6635267.

(1) Government Committee on Choices in Health Care: Choices in Health Care. Ministry of Welfare, Health and Cul­tural Affairs. P.O. Box 5406 2280 HK Rijswijk, The Nether­lands.

(2) N.S. Jecker, E.M. Meslin: United States and Cana­dian approaches to justice in health care: a comparative analysis of health care systems and values. Theoret. Med. 15 : 181-200, 1994.

(3) G. Costa, A. Ponti: La mortalità per classi sociali: dif­ferenze o disuguaglianze? Polis 4:423-445, 1990, p. 167.

(4) P. Vineis, S. Capri: La salute non è una merce, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

(5) G. Hunt: Death, medicine and bioethics. Theoret. Med. 15 : 431-448, 1994.

 

 

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