Prospettive assistenziali - n. 112  ottobre-dicembre 1995

Notiziario dell'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale

ESIGENZE E DIRITTI DEI MALATI PSICHICI

ERNESTO MUGGIA (*)

La mia esperienza

Un fratello di poco più giovane di me, passati da poco i vent'anni, si è ammalato. La diagnosi è arrivata presto ed a quei tempi non dava speranze: schizofrenia. Oggi ne dà qualcuna di più.

Mio padre si è ammalato ed è morto nel giro di un anno; di crepacuore, io direi.

Questo ha impresso una direzione completamente diversa alla mia vita. Laureato ingegnere, ho mollato tutto per tenere in piedi la famiglia e curare mio fratello. L'associazione di neurolettici appena scoperti, le comunità terapeutiche, il sostegno della famiglia, qualche amico non scomparso del tutto, hanno fatto sì che questo ragazzo, diventato poi adulto, arrivasse oggi in una condizione prossima alla sufficienza, senza però raggiungerla del tutto.

Ho lentamente preso coscienza del problema, ho continuato a lavorare in vari modi a seconda delle esigenze della famiglia e del momento; mi sono sposato, ho messo al mondo dei figli, sono anche tornato all'università per studiare psicologia, laureandomi una seconda volta; ho abbandonato i progetti industriali (lavoravo alla IBM alla fine), e mi sono messo a fare l'ingegnere degli altri, della organizzazione, lo "psico-ingegnere". Un lavoro che ha dato la prevalenza ai fattori umani rispetto ai fattori della produzione, delle macchine, dei processi industriali.

L'arrivo dell'associazionismo

Con questa esperienza vissuta con grande coinvolgimento e consapevolezza, ho cercato di uscire dal problema personale e di portarmi su un piano più alto; guardare il problema da lontano, cercare i punti di contatto coi problemi degli altri, cercare di generalizzare quello, che, rimanendo un fatto privato, porta, come voi sapete, alla chiusura della famiglia in se stessa e a situazioni troppo pesanti da reggere da soli.

Ecco, quindi, che la mia vita sfocia nell'associazionismo. Mio fratello era allora in una specie di comunità sperimentale nelle ex Ville Turro; la proprietà era passata al San Raffaele; aveva dimenticato che comprava una casa occupata, per cui doveva "far fuori gli inquilini". Hanno incominciato col mettere fuori un ragazzo che sta va malissimo, che aveva l'abitudine di uscire dalle Ville Turro e di andarsene per i fatti suoi e ritornare magari il giorno dopo.

L'interpretazione restrittiva e perfida della nuova legge 180 che impedisce di tenere i malati contro la loro volontà ha dato modo al nuovo direttore di lasciare fuori quel ragazzo: «quel ragazzo non vuole più stare qui e noi lo lasciamo fuori. Fuori con la porta chiusa!».

Il coordinamento regionale

Capite l'ambivalenza delle leggi e i giochini che si possono fare! Gli effetti della ideologia del mercato, che tanti auspicano come la soluzione dei problemi. Abbiamo fondato una associazione e incominciato un percorso che poi ci ha portato a resistere, a trattenere lì i malati finché non fosse stato possibile trovare soluzioni alternative, a fondare con altre associazioni, uno strumento importante di dialogo con le istituzioni, cioè il C.L.P. - Coordinamento Lombardo Psichiatria.

Una associazione da sola fa fatica a trovare ascolto presso le autorità, fa fatica ad essere ricevuta e dopo che c'è andata una volta non la ricevono più; e quello che dice la prima volta viene preso, messo in un cassetto, buon giorno, grazie e arrivederci. Quindi il collegarsi vuol dire farsi sentire con maggior autorevolezza. Le autorità, se le associazioni sono divise, continuano a fare quello che credono e magari quello che credono è "non fare niente".

II primo coordinamento regionale è nato in Lombardia, con uno statuto il più largo possibile, che consente la massima autonomia alle singole associazioni, le sole responsabili sul posto di quello che fanno. Non c'è coordinamento che possa dire loro cosa fare.

Cosa vuol dire uno statuto largo? Vuol dire mettersi d'accordo sui principi; e il principio che a noi interessa di più nel campo della salute mentale è "fare star meglio i malati".

Poi su questo principio possiamo anche litigare. Però se ci mettiamo a discutere su dei fatti, io credo che fra persone che hanno esperienza di sofferenza e buona volontà di far star meglio i malati, perché così sta meglio anche la famiglia, non sia difficile trovare un accordo.

È più difficile trovarlo sulle questioni ideologiche, perché qui entrano in campo delle cose che sono complesse; entrano in campo i principi fondamentali, poi dietro ci sono le idee politiche, poi dietro ancora i partiti; una spirale che rende sempre più difficile mettersi d'accordo.

Il coordinamento nazionale

Dopo i coordinamenti regionali è nata l'esigenza, che, in qualche momento particolare, ci fosse un ente centrale a rappresentare queste associazioni. Dopo anni di incontri a livello di movimento ed oltre due anni di discussioni ideologiche, di messa a punto delle virgole e degli aggettivi di uno statuto sempre più largo, è nato, con un procedimento assolutamente democratico di partecipazione di centinaia di associazioni da ogni parte d'Italia, I'UNASAM.

II sistema a tre livelli

L'UNASAM ha puntato sulla costituzione di un sistema a tre livelli ed ha fatto accelerare il processo di formazione dei coordinamenti regionali, che oggi esistono in molte regioni, mentre in altre sono in stato avanzato di formazione:

1) il livello locale, con dei malati, dei residenti, degli psichiatri, una USSL, un CPS (Centro psico-sociale) che funziona bene e un altro che funziona male, ma che è la associazione di quella gente, lì in quel posto;

2) il secondo livello regionale; poiché la regione all'interno del suo territorio promulga leggi che riguardano i malati di mente, è nostro sacrosanto dovere e diritto di essere lì, di prenderci delle responsabilità, di dire il nostro parere e di farlo pesare il più possibile. Come CLP l'abbiamo fatto pesantemente per il Progetto obiettivo per la tutela della salute mentale, che non è un capolavoro e non credo che venga messo in atto. Però è un punto di riferimento. Noi possiamo sempre dire a qualcuno che non ha fatto il suo dovere: "guarda che li c'era scritto che dovevi fare così; perché non l'hai fatto?";

3) a livello nazionale abbiamo costituito I'UNASAM che si è comportata e si comporta allo stesso identico modo.

La fase di transizione

Il biennio 94/95 è una fase di transizione, che però è illuminata, per la prima volta secondo me, da due fari:

- il Progetto obiettivo nazionale per la tutela della salute mentale, che in pratica impone a chi lavora nel campo della salute mentale, dei binari entro cui muoversi; -

- l'articolo della finanziaria 1995, che impone la chiusura definitiva dei manicomi pubblici (di quelli privati non c'è parola), entro il 31.12.1996.

Per la prima volta, dopo anni di discussioni ideologiche pro e contro la 180, come parti schierate, coi partiti politici che cavalcavano le malinconie dei parenti per dirgli: "Avete ragione! Avete torto! Bisogna modificare la 180 che non va bene! Ma non è vero, bisogna applicare la 180, è una legge buona!", abbiamo dei riferimenti certi.

Abbiamo avuto 15 anni di stallo, dove hanno lavorato, da un lato le ideologie contrapposte, dall'altro la forza più grossa che ci sia, la forza della conservazione dello status quo, che sempre, in tutti i problemi del mondo, è quella che si oppone a qualunque cambiamento. La forza della conservazione; la forza del "va tutto bene, stiamo fermi così".

Che cosa è che fa tanto forte questa forza che da 15 anni si oppone al cambiamento, quando, da qualunque parte andiate a parlare, sono pochi oramai i rappresentanti del vecchio sistema presenti?

Qui conviene fare una digressione sui malati di mente in manicomio. Da un lato c'è il problema di chi è ricoverato: da 2 anni, da 5 anni, da 10 anni, da 20 anni, dall'altro c'è il problema di chi si ammala oggi.

Quindi tutto l'apparato legislativo deve tener conto di questi due aspetti che sono due facce dello stesso problema, perché io credo che la chiusura dei malati di mente in manicomio non serve ad altro che a tenere tranquillo il resto del mondo, ma ai malati di mente non dà nulla, non gli aprirà mai le porte, e non darà mai una bella vita, ma solo una modesta sopravvivenza.

L'opinione pubblica

Sto cercando di essere oggettivo; noi non andiamo a fare gli scandalisti, i filmati, lo sporco, le nudità. Non approvo questo modo di manipolare l'opinione pubblica, che deve essere presa per mano, informata, istruita e portata al livello del modesto buon senso, dell'onesta bontà, dell'onesta consapevolezza delle difficoltà. Una opinione pubblica media come quella del nostro paese deve essere portata alla ragionevole consapevolezza, che i malati di mente sono persone come noi, che la malattia di mente, è una malattia e non una maledizione divina, per cui debbono essere aiutate, e non abbandonate o rinchiuse.

Ecco allora l'impegno mio personale e delI'UNASAM in generale, di aziende del campo delle pubbliche relazioni e della pubblicità nel mettere in piedi una campagna, che è partita oltre un anno fa, con il congresso UNASAM che aiuta l'opinione pubblica a capire. Attraverso la stampa, attraverso la radio, spero presto attraverso la televisione, tutta questa roba, che vale moltissimo denaro, è stata fatta senza una lira, appellandosi alla intelligenza e alla solidarietà di persone e anche di giornali che hanno dato i loro spazi senza pagamento, con la modesta riserva che gli spazi li davano quando li avevano, non in giorni stabiliti come richiede chi ne ha bisogno. C'è sempre una pagina di pubblicità che salta; qualcuno che non ha soldi e rinuncia; quello spazio rimane libero ed allora invece di metterci delle fesserie si mette questo tipo di campagna umanitaria.

Le campagne sono consistite: la prima sul tema della solitudine; la seconda un invito a scrivere alle autorità; e poi c'è una cassetta radio disponibile per chi la vuole sentire, registrata da un malato qui del Pini, su messaggio predisposto da professionisti pubblicitari, perché ci vuole una tecnica che nessuno di noi ha.

II messaggio dice: "I malati di mente hanno diritto a una vita come tutti gli altri, i familiari dei malati non debbono più essere lasciati soli, i malati di mente in Italia sono l'1 % della popolazione, cioè circa 600.000 persone; grazie a nome di tutti i malati di mente: come me".

La prima parte del messaggio saremmo stati capaci di farcela anche da soli, ma il salto di qualità sta nelle ultime due frasi; e nelle pause giustamente dosate.

La gente ha capito che era un malato che parlava di questo problema.

Per informazione, il costo a prezzi di vendita degli spazi, in sette mesi del '94 più due mesi del '95, è stato di 2,5 miliardi, che non abbiamo però dovuto pagare.

II riconoscimento avuto recentemente per la migliore comunicazione sociale da parte del Gruppo Pubblicità Italia ci fa sentire di essere stati capiti e ci spinge ad andare sempre avanti.

Parliamo ancora di noi familiari

Che cosa spinge i familiari a mettersi insieme. Abbiamo detto la condivisione della sofferenza, abbiamo detto l'uscire dal chiuso. Ma abbiamo anche bisogno tutti di sicurezza; che qualcuno che se ne intenda pensi al malato e a noi; che quando noi non ci saremo più qualcuno pensi ai nostri figli; che qualcuno ci sollevi qualche volta almeno, che ci dia un minimo di possibilità di farci delle vacanze, a noi ed al nostro malato; che qualcuno ci aiuti a conoscere; abbiamo bisogno di formazione, che è quello che sta avvenendo in questo corso; abbiamo bisogno di qualcuno che faccia i conti, l'epidemiologia di queste malattie; abbiamo bisogno dei numeri perché in Lombardia, come nel resto d'Italia, magari si dice di sapere, ma non si sa quanti sono i malati di mente. Si sa quanti sono ricoverati negli ospedali psichiatrici pubblici, quante le persone che vanno nei CPS. Non si sa quanti sono i ricoverati nelle strutture non pubbliche perché sono mescolati ai vecchietti e ad altri tipi di malattie; quanti sono quel numero misterioso non valutabile dei malati di mente abbandonati a se stessi, che non vogliono farsi ricoverare.

Abbiamo bisogno di qualcuno che sappia affrontare il problema dei renitenti alla terapia; uno dei problemi più difficili. Per chi non accetta di andare dal medico e non accetta che il medico vada a casa, bisogna mettere in piedi una strategia complessa, con gente di grandissima esperienza per studiare che cosa fare per quel malato lì, in quel momento. Non esiste altro che fare una serie di tentativi, da gente che se ne intende, che ne ha trattati tanti; ma non c'è un libro dove sta scritto cosa fare. Non c'è nessuno che operi lì di quei signori dell'assistenza domiciliare; è molto comodo dire "ah, se il malato non viene qui non so che cosa farci".

Questi tipi di esigenze, difesa dei diritti, formazione, sensibilizzazione dell'opinione pubblica, promozione dei servizi, messa in piedi di cooperative di lavoro e di riabilitazione, tutti questi sono scopi delle associazioni.

La chiusura dei manicomi

Completiamo il discorso, rimasto un po' in sospeso della chiusura dei manicomi entro il 31.12.1996. Perché qui si apre una serie di interrogativi complessi. Cosa vuol dire chiusura. lo dico che chiusura in alcuni casi può essere reale, in altri casi è simbolica; cioè la parola manicomio non esiste più; quello che era, che è stato il manicomio fino ad ora non c'è più; c'è qualcosa di nuovo. Però ci sono tanti problemi; per esempio i vecchi malati probabilmente, in tantissime situazioni, è meglio che rimangano in loco; non tutti naturalmente, bisogna fare delle selezioni, perché persone che hanno vissuto per 20 anni in un certo posto, questo posto è casa loro; che diritto abbiamo di mandarli fuori. Questo semplicemente per dire che il processo di chiusura del manicomio è un processo dove si intrecciano le cose simboliche e le cose reali. La trasformazione reale delle camerate, dei disastri che abbiamo visto, a Napoli ed altrove, in condizioni di vita umana, in strutture piccole dove possa esserci quello che è fondamentale per vivere decentemente, un rapporto interpersonale; perché è impossibile che possa esserci un rapporto interpersonale decente quando ci sono due infermieri, o come vogliamo chiamarli, su 40 malati, non è possibile. Più che una pacca sulle spalle, oggi come va, una sigaretta, e qualcosa d'altro, non si riesce a mettere in piedi. Mentre la cosa migliore che questi malati hanno per stare meglio e per incamminare un processo, che a volte si può anche chiamare di guarigione, sono i rapporti umani, le relazioni; comunque occorrono dei parametri nuovi inventati dalla psichiatria comunitaria moderna; per esempio la misura dell'ampiezza delle relazioni di un malato. Altro che l'analisi del sangue o l'elettroencefalogramma o quelle misure proprie dell'approccio alla malattia di tipo somatico, di tipo biochimico.

Noi siamo tutti qui pieni di desiderio che trovino lo schizococco, la medicina giusta; ma finché non la trovano i ricercatori facciano le loro ricerche e con questi malati deve vivere un rapporto intenso di vita, un altro tipo di persone che non è il medico con il camice bianco, è qualcuno che a seconda dell'ora, del giorno e del momento si mette in relazione col malato, con funzioni mediche, infermieristiche, di accompagnamento, di educazione, di gioco e con tutto quanto quello che è giusto che un malato abbia.

Questo è il problema vero: non la psichiatria istituzionale, che chiude il malato e gli dice: "tu stai lì perché la società vuole così", ma l'assistenza comunitaria.

Diciamo anche che il malato è tranquillo, è estremamente difficile che sia violento, che faccia del male, perché alla radice di tutto c'è il timore. Allora bisogna imparare a toglierlo; bisogna capire da dove viene quella paura tremenda, quella angoscia; solo allora puoi aiutarlo. Ma questo non è medicina, è altro.

Voglio anche dirvi che nella legge che sancisce la chiusura dei manicomi entro il 31.12.1996 è passato questo piccolo brano: "Il Senato impegna il Governo a promuovere una azione di coordinamento, di indirizzo e di impulso nei confronti delle Regioni, affinché tale chusura avvenga nei termini previsti con progetti differenziati e personalizzati... ".

Questo brano lo abbiamo costruito insieme, I'UNASAM, la Consulta nazionale per la salute mentale, il deputato verde Ronchi ed altri.

Quindi la legge dice che in ogni manicomio, per ogni persona si faccia una valutazione di quello che è il manicomio in quella città, coi suoi terreni, le sue costruzioni, i suoi denari, per stabilire come potersi muovere, perché non si verifichino situazioni di abbandono, né la riproposizione di strutture manicomiali comunque denominate. Troppe volte c'è stato il cambiamento del solo cartello e quello che c'era dentro, cose e persone rimanevano uguali. E dice ancora questo brano: "... a costituire presso il Ministero della sanità un osservatorio sul superamento dei manicomi con la partecipazione di operatori, di associazioni di volontariato e di familiari, di rappresentanti istituzionali... ".

Ecco il ruolo delle associazioni che viene proposto, ed oggi posso dirvi che questo osservatorio c'è ed UNASAM ne fa parte. E ancora: "... ad attuare un'indagine sulle cliniche private che ricoverano malati di mente, per verificare che non siano manicomi mascherati...".

Qui, finalmente, pubblici e privati sono la stessa cosa. E continua: "... e provvede, nell'ambito delle proprie competenze, e sulla base delle disponibilità finanziarie del settore della sanità, con particolare riferimento agli stanziamenti non ancora impegnati per le opere edilizie, a promuovere le iniziative necessarie ed urgenti e per contribuire a finanziamenti indispensabili ad attivare strutture residenziali destinate agli ospiti dei residui manicomiali che verranno chiusi".

I soldi della sanità sono pochissimi; non bastano nemmeno alla routine; quindi la routine è già a rischio; i denari per la salute mentale sono il 5% del bilancio della sanità.

Allora, quale è il succo di questo discorso? Progetti personalizzati sulle persone e sulle strutture e denari che facciano partire un circolo virtuoso, perché con i denari della routine, che servono a pagare le rette dei malati negli istituti, a pagare gli stipendi e basta non si farà mai nemmeno un appartamento protetto. Per cui su questi investimenti è anche aperta la possibilità di alienare terreni, o edifici col vincolo che i denari restino bloccati per la salute mentale.

Un nuovo modo di proporci

Questo momento che è tra il '94 e il '95 costituisce una transizione tra un modo vecchio di agire, di proporci, di farci conoscere e un modo nuovo.

Un punto discriminante è che nelle vecchie associazioni si volevano solo i familiari; perché solo noi sappiamo cos'è il problema, non vogliamo gli operatori, non vogliamo le cooperative, hanno altri interessi; noi vogliamo rappresentarci da soli. Posizione che è comprensibile, ma facendo il bilancio di 15 anni ha prodotto molto poco. Se invece sono insieme a noi gli operatori, il privato sociale delle cooperative, e tutti gli amici che hanno voglia di dare una mano, ecco che ci si può portare ad un livello di operatività e di conoscenza e di propositività molto migliori.

Altro punto è che l'atteggiamento di critica e di opposizione è distruttivo. Se uno si mette a dire: questo CPS, questa USSL, questo primario è pessimo, non fa il suo dovere, non fa niente e noi lo denunciamo, di solito ottiene poco, perché il primario è inamovibile, la USSL continua tranquilla la sua strada perché della salute mentale gliene frega poco, gli operatori sono sempre meno motivati, se anche lo erano in parte.

Quindi mettersi in modo propositivo a fare delle critiche, proponendo soluzioni diverse e proponendosi come collaboratori; cioè anche noi vogliamo fare qualcosa insieme a voi. Un atteggiamento di questo genere separa i buoni operatori dai meno buoni, fa venire a galla il buono che c'è. Dopo di che, volendo fare delle critiche pesanti, le potremo fare a maggior ragione, perché avremo qualcuno alleato dentro il servizio, che dice: "hanno ragione loro". Personalmente ho in odio l'aiuto caritatevole che tanto sovente abbiamo chiesto, perché non produce cambiamenti. Quindi con la consapevolezza dei nostri diritti non chiediamo la carità.

Noi associazioni di familiari siamo il terzo polo di una relazione triangolare, che è fatta dalle istituzioni, dai terapeuti, da tutti quelli che si occupano dei malato, da una parte; dal malato dall'altra; e ci siamo noi.

Si deve mettere insieme una relazione virtuosa di collaborazione in cui tutti e tre con pari diritti e pari doveri cercano di ottenere i risultati migliori.

C'è poi il discorso della delega; se non ci assumiamo le responsabilità noi, in prima persona, portiamo a casa molto poco.

II vero cambiamento si ottiene con azioni politiche e legislative durature, che lascino qualcosa di scritto, impongano delle date, dei termini, degli schemi, delle norme, che consentano di punire chi non le applica. Perché adesso, una delle prima cose da dire è: "Cari signori, siamo arrivati al 31.12.96; cosa avete fatto?". Verrà fuori chi ha fatto e chi non ha fatto.

La vecchia politica dei lamento e dell'urlo, mi strappo i capelli, il mio dolore, mio figlio, la mia tragedia, mi butto dalla finestra, ecc. che cosa produce? Per un minuto o poco più si è tutti con quella persona, ma non si vede l'ora di guardare da un'altra parte, di non sentire più queste cose: "Il problema è suo non è mio!".

Invece noi vogliamo che la gente dica: "Mi riguarda". Non è che non si creda alla sofferenza di chi viene a piangere; non si crede all'efficacia di questi shows; non servono, è dimostrato.

Allora, i tavoli di trattativa

Siamo qui, vogliamo sapere quanti soldi ci sono, quante persone ci sono, quante case ci sono, vogliamo lavorare con voi, vogliamo che vi impegnate, che noi ci impegnamo; tavoli di trattative. Questa è la strada da percorrere. L'esperienza romana, che in un anno ha portato all'apertura di 12 centri diurni, dovrebbe essere un esempio da propagandare e seguire.

Conclusione

II problema della salute mentale è uno dei più rognosi e difficili di tutto il mondo della sanità; anzi della sanità ed assistenza insieme. Però dobbiamo essere consapevoli che indietro non si torna. La politica sanitaria della istituzionalizzazione, della chiusura dei malati dietro un muro, così non li vediamo più, non ci sono più, è morta per sempre. È una questione di civiltà.

lo sono stufo di misurare la civiltà dei popoli solo da come trattano gli uccellini, o i cani che pur meritano tutto il nostro rispetto. lo vorrei misurare la civiltà dei popoli anche da come tratta i cittadini normali, gli extracomunitari, i carcerati, e, aggiungo, i suoi malati di mente.

Dobbiamo tutti lavorare perché questo livello di civiltà cresca un pochino perché oggi è veramente molto basso.

(*) Presidente nazionale dell'UNASAM.

www.fondazionepromozionesociale.it